I crimini e le vittime del colonialismo italiano: una storia che deve essere raccontata, a partire da Yekatit 12 የካቲት ፲፪
I crimini e le vittime del colonialismo italiano: una storia che deve essere raccontata, a partire da Yekatit 12 የካቲት ፲፪
Originally published: Pressenza on February 26, 2025 by Anna Lodeserto (more by Pressenza) (Posted Feb 27, 2025)
Empire, Imperialism, Inequality, StrategyEurope, Global, ItalyNewswire“Yekatit 12 -19 febbraio”
In gran parte dell'Europa occidentale, la documentazione della storia coloniale, comprese le ambizioni territoriali e socio-economiche, le conseguenze dell'imperialismo e i crimini commessi dagli stati-nazione che sono emersi direttamente o indirettamente dagli imperi coloniali e continuano a confrontarsi con questi passati oggi, è ampiamente integrata nel discorso culturale, educativo e della società civile.
I paesi di oggi come il Regno Unito, il Belgio e la Francia hanno, a vari livelli, confrontato le loro eredità imperiali, per quanto incomplete o contestate possano essere queste considerazioni. Nell'Europa meridionale, al contrario, l'impegno sistematico con gli aspetti scomodi della storia recente è stato molto più incerto, spesso evitato o aggirato del tutto. In nessun altro luogo del continente europeo questo è più evidente che nell'irrisolta resa dei conti dell'Italia con il suo passato coloniale, in particolare l'era fascista e la sua eredità duratura. I crimini brutali commessi nel continente africano rimangono in gran parte negati, minimizzati, omessi dai programmi scolastici e collettivamente cancellati dalla coscienza pubblica. Oggi, mentre il nazionalismo si diffonde in tutta Europa, il governo italiano sta attivamente rimodellando la sua narrazione storica, facendo rivivere o meglio reinventando vecchi tropi di grandezza nazional-popolare per servire nuovi esperimenti geopolitici. Uno degli esperimenti più estremi e costosi di questi esperimenti si sta attualmente svolgendo nel nord dell'Albania, che l'Italia sta sempre più trattando come un banco di prova per le pratiche neocoloniali contemporanee. Queste politiche, radicate nelle strategie di esternalizzazione delle frontiere e nel consolidamento di strutture di potere esclusive dominate dalle élite occidentali fissate sul controllo dell'immigrazione, mettono in luce un paradosso lampante. Mentre queste stesse élite impongono restrizioni migratorie sempre più severe, allo stesso tempo si affidano a manodopera precaria e a basso costo proveniente dall'estero. L'Italia sta sfruttando questa contraddizione per posizionarsi come un autoproclamato esecutore delle dinamiche di potere di esclusione all'interno dell'Unione Europea, spingendo per misure ancora più apertamente coloniali e repressive, in particolare quando prendono di mira esplicitamente le persone in movimento.
Così facendo, l'attuale governo sta anche esportando alcuni degli strumenti più eclatanti del moderno controllo statale, come i centri di detenzione e i campi, cioè meccanismi di repressione che sono stati sperimentati per vari scopi dall'unificazione dell'Italia, e in alcuni casi, anche prima. Questa manovra riflette un più ampio atto di disperazione da parte dell'ex "Stato senza Nazione" che, dalla sua unificazione meno di due secoli fa, ha lottato per affermare una vera rilevanza geopolitica. Per compensare, l'Italia si è appoggiata pesantemente al mito folkloristico di "Italiani, brava gente", un costrutto folkloristico del dopoguerra che ha plasmato sia il discorso pubblico che quello istituzionale. Questo mito, rafforzato da un paradigma giuridico che distorce la narrazione storica della Seconda Guerra Mondiale, viene regolarmente sfruttato dai media e dai politici populisti italiani per suggerire che coloro che provengono dall'Italia erano intrinsecamente e presumibilmente "migliori" o meno brutali rispetto ad altre potenze coloniali come gli imperi britannico, francese e belga. Eppure questo luogo comune, privo di qualsiasi base scientifica, è in netto contrasto con la ben documentata storia dei crimini coloniali e di guerra italiani, dal Corno d'Africa e dalla Libia all'Albania, alla Grecia, alla Croazia e alla Slovenia, tra gli altri, e ostacola ulteriormente l'urgente necessità di un approccio critico al passato.
Dal mito di 'Italiani, brava gente' alla lotta per la memoria decoloniale: confrontarsi con il passato coloniale dell'Italia negli spazi pubblici
Da diversi anni il mese di febbraio rappresenta il culmine delle iniziative dedicate alle vittime del colonialismo italiano e al recupero della memoria dei crimini commessi dal regime fascista, che all'epoca aveva il sostegno e persino l'orgoglio di gran parte della popolazione. Anche quest'anno, associazioni, movimenti, gruppi di attivisti, singoli accademici e istituzioni come università e biblioteche all'interno della rete "Yekatit 12 -19 febbraio" hanno curato un intenso e variegato programma di eventi volti a promuovere la conoscenza e a far conoscere il passato. Il loro obiettivo è quello di far sì che, anche in Italia, la memoria del colonialismo e dei crimini perpetrati dal Regno d'Italia, soprattutto nel Corno d'Africa, diventi accessibile e centrale nell'opera di decostruzione della retorica fascista e del mito degli «Italiani, brava gente». Questo mito, che rimane profondamente radicato, continua a influenzare non solo la società italiana ma anche altre lingue europee e l'immaginario associato che associa falsamente la benevolenza ai criminali di guerra responsabili di efferati massacri, tra cui uno dei primi genocidi della storia contemporanea: il "genocidio libico" (1929-1934). Conosciuto in Libia come "Shar" (in arabo: شر o "diavolo"), questo sterminio sistematico prese di mira la popolazione araba e la cultura libica, con stime che suggeriscono che tra le 20.000 e le 100.000 persone furono uccise dalle autorità coloniali italiane sotto il regime fascista di Benito Mussolini. Circa la metà della popolazione della Cirenaica fu deportata nei campi di concentramento. Mentre l'immaginario coloniale è stato in gran parte relegato nell'oblio nel discorso pubblico dopo la seconda guerra mondiale, solo negli ultimi decenni la storiografia ha iniziato a rivendicarlo. Nelle strade delle città italiane, però, rimangono tracce evidenti di questo passato in modo controverso per celebrare la gloria del colonialismo. Statue, targhe, diversi monumenti, e in particolare i nomi di strade e interi quartieri spesso cancellano i crimini di guerra o ne alterano la memoria attraverso l'omissione o la distorsione delle didascalie e la celebrazione del colonialismo.
Un esempio emblematico si trova nel quartiere "Africano" del secondo rione di Roma (Municipio II), che si sviluppa lungo Corso Trieste. Quest'area non prende il nome da un particolare carattere multiculturale di richiamo continentale, ma da 49 nomi di strade, o 'odonimi', direttamente connessi alla geografia coloniale, trasformando la toponomastica in un potente strumento narrativo che evidenzia l'urgente necessità di una ri-semanticizzazione collettiva nella capitale e non solo. Allo stesso modo, l'area "Cirenaica" di Bologna, all'interno del quartiere San Donato-San Vitale, ricorda la deportazione di 100.000 civili dalla regione della Cirenaica libica ai primi campi di concentramento moderni, che in seguito servirono da modello per i campi nazisti.
A Parma, all'uscita della stazione ferroviaria, una statua di Vittorio Bottego, capo dell'occupazione di Asmara e figura chiave nelle pagine più oscure del colonialismo italiano, fa ancora bella mostra di sé all'uscita della stazione. Conosciuto dalla storia ufficiale fino ad oggi come un "eroe esploratore" di provincia, questa statua raffigura presunti indigeni prostrati ai suoi piedi in posizione sottomessa. Non lontano da lì, a Modena, una lapide nella centralissima piazza Giacomo Matteotti ricorda Guglielmo Ciro Nasi, comandante delle truppe coloniali. Nonostante il suo nome appaia nell'elenco dei criminali di guerra segnalati dall'Etiopia alle Nazioni Unite e numerose petizioni guidate dai cittadini che ne chiedono la rimozione, la targa rimane al suo posto.
Nonostante la visibilità di questi simboli in vari luoghi, la memoria del passato coloniale dell'Italia deve ancora essere incorporata nella coscienza pubblica e nei percorsi educativi. Per questo motivo, negli ultimi anni, diverse passeggiate decoloniali organizzate da numerose associazioni, artisti e accademici hanno riscosso un crescente interesse e un'ampia partecipazione. Questo crescente coinvolgimento segnala una chiara necessità di approfondire la comprensione del pubblico e sviluppare gli strumenti critici per confrontarsi con interi quartieri delle città, soprattutto del nord Italia, che portano ancora visibili i segni del colonialismo e dei crimini legati alla conquista e alla repressione. In alcuni casi, come in Somalia, queste operazioni coloniali continuarono anche dopo la caduta del fascismo, persistendo negli anni '60.
Decostruire la glorificazione coloniale e sfidare l'amnesia collettiva attraverso l'impegno della rete "Yekatit 12 – 19 febbraio"
Tra i simboli e i luoghi che glorificano alcuni dei responsabili dei crimini più efferati del colonialismo italiano, personaggi che per tali atrocità non sono mai stati processati, ci sono figure come Rodolfo Graziani, noto come il "macellaio del Fezzan" o "il macellaio di Addis Abeba", in onore del quale la Regione Lazio ha eretto un mausoleo ad Affile, situato a circa 50 chilometri a est di Roma. Ampiamente ricordato anche Pietro Badoglio, primo governatore unico della Tripolitania e della Cirenaica durante la campagna genocida, la cui città natale, Grazzano Monferrato nel Basso Monferrato Astigiano in Piemonte, fu ribattezzata "Grazzano Badoglio" nel 1938, toponimo rimasto immutato. Il palazzo comunale espone ancora oggi l'effige del "Maresciallo d'Italia" e promuove la visita al Museo Storico Badoglio, situato nella casa dove il maresciallo fascista iniziò ad esporre cimeli delle campagne militari prima della sua morte. Inoltre, ci sono anche monumenti apparentemente meno visibili, come quello dedicato ai Caduti di Dogali, vicino alla Stazione Termini di Roma. Questa colonna, creata riutilizzando un obelisco egizio originariamente eretto da Ramses II a Heliopolis nel XIII secolo a.C. e trasportato a Roma nel I secolo d.C., fu riscoperta nel 1883 vicino alla chiesa di Santa Maria sopra Minerva, un isolato a est del Pantheon. Più che essere valorizzato o restituito all'Egitto, fu incorporato nel primo monumento costruito a Roma dopo che la città divenne capitale del Regno d'Italia per onorare i 500 soldati caduti nella piana di Massaua, nell'attuale Eritrea, durante la battaglia di Dogali (1887).
Negli ultimi anni, però, questo sito è diventato un luogo di memoria collettiva e di denuncia durante "የካቲት ፲፪ Yekatit 12", che nel calendario copto ed etiope corrisponde al 19 febbraio, in occasione dell'anniversario della strage di Addis Abeba del 1937, in cui civili, soldati e squadre fasciste italiane uccisero almeno 20.000 civili etiopi tra il 19 e il 21 febbraio. Le commemorazioni organizzate negli ultimi anni sotto l'obelisco sono state ispirate dalla necessità di allargare la memoria delle 500 vittime di Dogali alle circa 500.000 vittime del colonialismo, del fascismo e dell'imperialismo italiano in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia. Ci sono stati anche appelli della società civile a rinominare "Piazza dei Cinquecento" in "Piazza delle Cinquemila Vittime del Colonialismo Italiano in Africa", riprendendo il filo di una proposta di legge del 2006, ripresentata nel 2023. Questo progetto di legge mirava a spostare l'attenzione dalla glorificazione della segregazione imposta dal fascismo italiano nel Corno d'Africa, che in seguito servì da modello per le leggi razziali del 1938 e i campi di concentramento nazisti e potrebbe essere replicata altrove anche oggi, se non seriamente condannata e riconosciuta come pratica criminale.
Oltre alla battaglia di Dogali (1887), al massacro di Adua (1896), all'uso di gas chimici (tra cui l'iprite, in violazione delle convenzioni internazionali) in Etiopia (1935-1936), al massacro di Debre Libanos (1937), alle operazioni di sterminio contro le popolazioni Oromo e Amhara e alla repressione della rivolta di Wadi al-Shati (1930), Yekatit 12 è considerato uno dei crimini più violenti del colonialismo italiano. Tuttavia, fa anche parte di un passato imperialista che è stato costantemente minimizzato e, in molti casi, quasi completamente cancellato dal discorso pubblico in Italia, compresi i libri di testo scolastici e persino dalle voci enciclopediche.
La scelta del mese di febbraio, in particolare del 19 febbraio, ha un significato significativo. E' ancora oggi un giorno di lutto nazionale in Etiopia e il nome della piazza di Addis Abeba dove un obelisco ricorda il massacro. Oggi è anche il nome della rete "Yekatit 12 – 19 febbraio", composta da decine di individui e associazioni impegnate a fronteggiare la cancellazione del colonialismo italiano e dei suoi crimini dalla memoria collettiva. Inoltre, la rete affronta questioni contemporanee come il razzismo istituzionale, la xenofobia e le molteplici forme di discriminazione che le persone di origine africana continuano ad affrontare oggi.
Oltre a sostenere l'inclusione di tutte le vittime coloniali italiane nella memoria collettiva, in particolare quelle provenienti dall'Etiopia e dall'Eritrea, le organizzazioni della società civile, in particolare quelle legate alla rete Yekatit 12 – 19 febbraio, hanno organizzato numerose iniziative per tutto il mese di febbraio 2025. Queste attività spaziano dalla Biblioteca "Guglielmo Marconi" di Roma alla Libreria GRIOT, alla Scuola di Giornalismo "Lelio Basso", ai dipartimenti universitari, ai diversi municipi e agli Istituti per la Memoria e la Storia di vari comuni italiani. Accanto alle passeggiate decoloniali, questi luoghi ospitano tavole rotonde, presentazioni di libri, mostre, concerti e proiezioni pubbliche, tra cui quella del documentario "Pagine nascoste" di Sabrina Varani sull'amnesia collettiva dell'Italia per il suo avventurismo coloniale, promosso dal Comune di Ravenna nell'ambito del suo "Festival delle Culture 2025".
Dal 2023 la rete Yekatit 12 – 19 febbraio sostiene anche l'introduzione di un nuovo disegno di legge volto a istituire una "Giornata della Memoria per le Vittime del Colonialismo Italiano" dopo un precedente tentativo rimasto inattivo dal 2006. Il disegno di legge propone che la Repubblica italiana riconosca il 19 febbraio, che segna l'inizio del massacro della popolazione civile di Addis Abeba nel 1937, come giorno di commemorazione istituzionale pubblica per tutte le vittime del colonialismo italiano in Africa. Sebbene la proposta non abbia ancora ottenuto un sostegno concreto a livello nazionale, ha ricevuto il sostegno di diversi enti locali decentrati, tra cui il Comune di Torino, che nel 2024, attraverso il suo consiglio comunale, ha invitato il Parlamento italiano a prendere in considerazione il disegno di legge.
Le commemorazioni in corso e gli sforzi per l'approvazione del disegno di legge, al di là del loro scopo celebrativo, mirano a sensibilizzare l'opinione pubblica sui crimini coloniali italiani cercando di incoraggiare la riflessione sulle tendenze discriminatorie e xenofobe che continuano a permeare la società e la politica italiana, nonostante gli sforzi per negare o minimizzare il passato e prolungare la cosiddetta amnesia storica.
Da questo punto di vista, le iniziative che circondano il 19 febbraio, o የካቲት ፲፪ (Yekatit 12), rappresentano un momento significativo della "Aufarbeitung", termine tedesco spesso usato per descrivere l'atto di affrontare ed elaborare la storia difficile da digerire. Questa nozione di "elaborazione", un concetto tratto dagli scritti di Paolo Jedlowski sulla memoria storica, si riferisce a una forma di memoria che si oppone ai processi di oblio, a quei meccanismi che scartano le memorie inquietanti o le cancellano deliberatamente per motivi politici. Al contrario, richiede un impegno consapevole con gli aspetti più dolorosi del passato, aprendo la strada a un processo che possa portare ad accettare la responsabilità per fatti e crimini storici, in particolare le parti che sono state nascoste o protette dal giudizio attuale.
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