Nasce il Che, l’economia si fa eterodossa

 

Nasce il Che, l’economia si fa eterodossa

Salvatore Cannavò intervista Clara E. Mattei

Clara Mattei, dell’Università di Tulsa, in Oklahoma, spiega le idee e la pratica del Centro per l’Economia eterodossa che vuole uscire dal modello dominante ed esplorare la critica dell’economia per la trasformazione sociale

Il Center for Heterodox Economics (Che) tiene la sua conferenza inaugurale dal 6 all’8 febbraio a Tulsa, Oklahoma, Stati uniti del sud, territorio trumpiano. E l’inizio è davvero dirompente (qui per seguirla). Si discuterà di «Economia politica di Karl Marx», di «Inflazione, austerity e conflitti», della «Economia politica della Palestina occupata», ma anche della «Economia politica di Piero Sraffa», degli approcci alla «storia del capitalismo», di clima e di lavoro di cura. L’insieme di studiosi e studiose chiamate a tenere i corsi descrive il senso di una scuola di pensiero critico (Carolina Alves, Nikolaos Chatzarakis, Riccardo Bellofiore, Costas Lapavitsas, Branko Milanovic, Robert Brenner, dall’Italia ancora Giovanna Vertova, e molti altri).

Il progetto vuole «esplorare prospettive alternative nella teoria e nella pratica economica» per «una comprensione più inclusiva e dinamica dell’economia».

«Contrariamente a quanto alcuni credono – si legge nel testo di presentazione – la nostra economia non è né una forza della natura né un oggetto esterno che possiamo manipolare come se fosse una macchina. Al contrario, l’economia siamo noi: persone in carne e ossa». Si tratta quindi di un’iniziativa rivolta al mondo accademico, agli e alle studenti, ma che va anche oltre le teorie astratte e vuole «contrastare le narrazioni dominanti».

Ad animarlo sono tre studiosi e studiose: Parco Jisus, master in economia presso la New School for Social Research, Scott Carter, professore di Economia e presidente del Dipartimento di Economia dell’Università di Tulsa e Clara Mattei, professoressa di Economia e direttrice del Che (il nome ovviamente vuole dare l’effetto che da). Clara è una studiosa nota nell’ambito dei movimenti, ha studiato a fondo l’economia capitalistica, in particolare con il libro Operazione austerità e ha spiegato a Jacobin Italia il senso e gli obiettivi del progetto.

* * * *

Cos’è e cosa vuole essere il Che, il Centro degli economisti eterodossi?

Vuole essere una proposta innanzitutto innovativa dal punto di vista accademico. Vogliamo proporre uno spazio in cui i giovani studiosi possano riconoscersi in uno studio critico rispetto al nostro modello economico. In genere all’interno di una carriera accademica bisogna conformarsi al canone maggioritario e invece vorremmo costruire un punto di riferimento alternativo per giovani studiosi. A partire dai più giovani, con un primo corso per studenti della triennale, e poi quelli più grandi per considerare l’economia una disciplina coraggiosa e capace di concentrarsi sul reale del capitalismo e non su modelli astratti. Ma questo aspetto è unito anche all’idea molto forte che questo sapere innovativo, e destinato a una trasformazione sociale, può evolvere solo se connesso alla realtà storica concreta. Per questo vogliamo puntare al coinvolgimento della cittadinanza e dei conflitti sociali in atto. Il centro può andare nella direzione di modelli teorici nuovi e nell’esplorazione di tradizioni eterodosse, quindi muovere un sapere in avanti, solo se partecipe della realtà di coloro che si muovono per trasformare questo mondo. Quindi deve rompere i muri dell’accademia. Nella mia esperienza accademica ho sperimentato spesso, con dispiacere, la distanza tra le élite dell’economia radicale e la realtà. Si è visto anche con le proteste degli studenti nei campus quando molti studiosi anche radicali non hanno fatto altro che restarsene dietro le loro cattedre.

 

Che intendete per eterodossia? Quali sono i filoni di pensiero critico che volete esplorare?

Il nome che ci siamo dati, Che, non è certo molto eterodosso, se posso dirlo con una battuta, anche se è davvero un bel nome. L’idea è però quella di fornire una molteplicità di paradigmi alternativi. Proprio per rimarcare l’opposizione all’ortodossia economica che si offre come unico paradigma, quello che normalmente viene studiato e a cui la popolazione è esposta, cioè il modello neoclassico. Gli altri paradigmi sembrano non esistere. Il modello dominante ha vinto la battaglia delle idee e quindi si incarica di giustificare il capitalismo ma noi proponiamo paradigmi diversi: quello post-keynesiano, quello marxiano, quello sraffiano oppure i modelli marxiani empirici, la tradizione istituzionalista. Tutte queste tradizioni, per quanto siano in disaccordo sugli esiti del capitalismo, da riformare per alcuni, da superare per altri, hanno in comune l’idea di focalizzarsi sul reale, sullo storico e non sull’astratto, sul sistemico e non sull’individualismo metodologico. E anche gli studenti e gli studiosi, nell’ambito di questo spazio aperto, possono confrontarsi apertamente.

 

L’iniziativa si colloca in un momento straordinario per gli Usa alle prese con la nuova presidenza Trump. Pensi che stia avvenendo qualcosa di rilevante nel dibattito economico maggioritario e nel pensiero liberale?

Il pensiero economico è sempre in ritardo sui fatti storici e oggi assistiamo a una manifestazione di tendenze molto profonde nel governo del capitalismo. Questo esplicito attacco alla classe lavoratrice e ai più vulnerabili fa cadere la maschera rispetto all’ideologia trumpiana dell’efficienza e della perfezione. Ma Trump, se non deciderà di attaccarci direttamente, può rappresentare anche un’opportunità: viviamo cioè un momento storico di contestazione dell’establishment e le persone che votano Trump, in larga parte, anche se alla fine optano per un cambiamento ancora più oligarchico, votano contro lo status quo. È un voto «contro» che manifesta un’insoddisfazione profonda e che noi cerchiamo di articolare. Partendo da questa esigenza poniamo la domanda su come fare ad articolarla in termini più radicali e anticapitalistici. Il momento storico è per certi versi favorevole a una critica radicale, chiede un ripensamento del modello ultra-liberale con cui l’establishment non riesce a comunicare con le persone.

 

Che rapporti ci sono, se ci sono, con la tendenza socialista che si è manifestata negli ultimi anni attorno a Bernie Sanders o a riviste come Jacobin? E che rapporto invece con i movimenti dei campus legati soprattutto a quanto avvenuto a Gaza?

Speriamo di essere in comunicazione con tutti questi mondi, ma l’’università di Tulsa è molto diversa da altre realtà in cui si sono manifestati movimenti sociali e progressisti. Insomma, non siamo certamente a New York o in California, qui il trumpismo è egemone e i movimenti molto flebili. Certo, su Gaza ci sono state delle manifestazioni, ma in un clima molto ostile. Siamo nel profondo Sud e l’iniziativa politica e collettiva è molto rara, c’è un senso conformista, gli studenti qui sono molto diversi dalle grandi città dell’Est. Però pensiamo possa essere interessante provare a smuovere una base sociale, una popolazione, che è meno rappresentata politicamente. Parliamo di una classe lavoratrice sia bianca che nera generalmente molto subordinata al modello consumistico e alla precarietà lavorativa. Persone con pochi mezzi, ma che capiscono di vivere sulla propria pelle un’oppressione netta.

 

La prima iniziativa è il 6 febbraio, la vostra inaugurazione, come pensate di svolgerla?

Puntiamo a un incontro mensile pubblico, in uno spazio di partecipazione e convivialità, con del cibo in cui parliamo di cose dirette, ad esempio l’autogoverno dei lavoratori, come si fa ad andare oltre lo sfruttamento, di diritto alla casa o di segregazione razziale.


*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).

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