DOLLARO USA TRUMPO MONETA DIGITALE

Corsera Bertolino

Più cripto per le aziende di Trump Il tycoon lancia il suo dollaro digitale
Parte Usd1, ancorato al biglietto verde. Il conflitto di interessi e gli allarmi dall’europa
Corriere della Sera 26 Mar 2025 di Francesco Bertolino
Il ministro dell’economia, Giancarlo Giorgetti, è stato profetico. «Si parla moltissimo dei dazi» americani, ma «a me preoccupa soprattutto l’utilizzo delle criptovalute, o meglio degli stablecoin, per riaffermare il signoraggio del dollaro nel mondo». A meno di 24 ore da queste parole, Donald Trump ha annunciato il lancio di Usd1, una moneta virtuale privata che ambisce a diventare il dollaro digitale per gli scambi internazionali fra investitori sovrani e grandi istituzioni finanziarie.

Più precisamente il progetto Usd1 fa capo a World Liberty Financial, società controllata al 60% da Trump e famigliari. Fondata a settembre del 2024, Wlfi ha raccolto 550 milioni da investitori, perlopiù anonimi, con l’obiettivo di «rafforzare lo status globale del dollaro». Come? Tramite le stablecoin, una categoria particolare di criptovalute che, a differenza di bitcoin & co, promette di mantenere un valore costante perché ancorato a quello di una moneta sovrana. Questa caratteristica le rende adatte a fungere da strumento di pagamento e anche di risparmio nei Paesi ad alta inflazione, dove le persone sono in cerca di uno scudo dalla svalutazione delle monete nazionali.

Nel caso di Usd1 la valuta di riferimento sarà, ovviamente, il biglietto verde. Wlfi assicura che per ogni Usd1 coniato esisterà una pari riserva in dollari, sempre riscattabile dagli utenti. Funziona un po’ come al casinò: individui e aziende potranno consegnare le loro valute sovrane (euro, dollaro, yen) a Wlfi e in cambio otterranno l’equivalente in Usd1. Una volta completate le loro operazioni, potranno riconvertire il dollaro digitale in moneta legale. Nel frattempo, il banco, ossia Wlfi, investirà i depositi dei clienti in titoli di Stato americani a breve termine, depositi in dollari e altri strumenti liquidi.

Questo meccanismo consentirà, anzitutto, a Trump, famigliari e soci di arricchirsi, incassando le cedole e interessi delle attività finanziarie incluse nelle riserve. Un conflitto di interesse flagrante che non sembra preoccupare il presidente, pronto ad approfittare della spinta governativa alla finanza digitale per aumentare le sue fortune private. Basti pensare che la sua criptovaluta promozionale, $Trump, gli ha già fruttato oltre 350 milioni.

Il modello di investimento dei depositi dei clienti adottato da World Financial Liberty, però, potrà anche aiutare il la Casa Bianca nel finanziamento dei programmi di spesa pubblici. Per il tramite di Wlfi, infatti, chi comprerà Usd andrà di fatto ad acquistare debito americano, sostenendo il bilancio Usa e, in prospettiva, i tagli alle tasse promessi dal magnate repubblicano. Si comprende allora perché Trump tenga alla diffusione globale delle stablecoin in dollari tanto da aver incluso il loro sviluppo e la loro promozione nell’ordine esecutivo del 23 gennaio sulla finanza digitale.

Oggi ne circolano già per 237 miliardi di dollari, perlopiù coniate da due società private, Tether e Circle. Usd1 porterà però la sfida non solo alle banche ma soprattutto alle altre monete nazionali su un altro livello perché potrà contare sul sostegno finanziario e politico dell’uomo più potente del mondo: il presidente degli Stati Uniti.

Forse fiutando questo pericolo, negli ultimi mesi la Bce ha accelerato sulla messa a punto del progetto di euro digitale che, tuttavia, rischia di aprire un altro fronte di scontro fra Trump e l’europa. L’ordine presidenziale sulle cripto richiede infatti anche l’adozione di misure «per proteggere gli americani dai rischi delle valute digitali delle banche centrali». Se del caso, anche «vietando la loro emissione, circolazione e utilizzo» nel Paese. Su queste basi, Trump ha già ordinato alla Federal Reserve di bloccare i lavori sul dollaro digitale. A svilupparlo sarà la sua World Liberty Financial.

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Publication:Corriere della Sera
Author:di Francesco Bertolino
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Occhiello:
Trump lancia Usd1, uno stablecoin legato al dollaro, suscitando dubbi su conflitti d’interesse e tensioni con l’Europa.

Sintesi schematica:

  • Annuncio: Donald Trump presenta Usd1, stablecoin ancorato al dollaro, gestito dalla sua società World Liberty Financial (Wlfi).
  • Obiettivo: Rafforzare il ruolo globale del dollaro e creare un’alternativa privata al dollaro digitale ufficiale.
  • Funzionamento:
    • Gli utenti scambiano valute sovrane per Usd1.
    • Wlfi investe i depositi in titoli di Stato USA e strumenti liquidi.
    • Profitto per Trump e soci tramite interessi sulle riserve.
  • Implicazioni:
    • Conflitto d’interessi: Trump e familiari traggono vantaggi economici diretti.
    • Sostegno al debito USA: Gli investimenti di Wlfi aiutano a finanziare la spesa pubblica americana.
    • Sfida all’Europa: La BCE accelera sul progetto dell’euro digitale per contrastare l’influenza del dollaro virtuale.
    • Blocco del dollaro digitale ufficiale: Trump ordina alla Fed di fermare i lavori sulla valuta digitale governativa.
  • Prospettive: Possibile scontro con l’UE e impatto sul sistema finanziario globale.

I dazi, la guerra e Keynes. L’azzardo americano Ciocca

I dazi, la guerra e Keynes. L’azzardo americano
Stati Uniti Economia debole, crescita drogata dall’eccesso di spesa. I cittadini Usa consumano troppo e vivono a spese del resto del mondo. Una lezione del «migliore di tutti» nel 1944

I dazi, la guerra e Keynes. L’azzardo americano

Il Manifesto 26-3-25
Pierluigi Ciocca
Si può dubitare che gli americani sarebbero amici dell’Europa se solo non vi fossero Trump e Vance. Per due lunghi anni gli Stati uniti non si impegnarono militarmente a favore dell’Inghilterra aggredita da Hitler. Keynes sperimentò la durezza americana nel 1944. Due anni dopo dovette ripetere l’esperienza. Morì anche per questo.
Nel 1944 Londra avevano delegato a Bretton Woods Keynes, Robbins e Robertson.

Ma i migliori cervelli non bastarono. Nello scorcio del conflitto Roosevelt, Morgenthau e White non escludevano di ricondurre la Germania, cuore dell’Europa, allo «stato di pastorizia». Keynes non riuscì a ottenere il Bancor e la Clearing Bank: né la moneta né la banca centrale che proponeva per ricostruire il mondo. White, coriaceo negoziatore, respinse senza appello la pretesa di Londra di conservare il commercio preferenziale con i Dominions.

Nel 1946 l’Inghilterra era altamente indebitata con gli Usa quando Keynes venne spedito a Washington per ottenere un ulteriore prestito all’Inghilterra stremata dalla guerra, ridotta a razionare il cibo. Le condizioni del prestito strappato da un Keynes fisicamente minato dalla trattativa furono meno favorevoli di quanto egli stesso aveva sperato e fatto sperare a Londra. Nemmeno allora bastò «il più intelligente di tutti», come lo definì Harrod, l’economista illustre, amico e allievo di una vita, insuperato biografo. A guerra finita, l’opinione pubblica e il Congresso degli Stati uniti volevano che gli inglesi ormai facessero da soli. Il pericolo rosso europeo era ancora poco avvertito. Solo nel 1948 Truman e Marshall finanziarono la ricostruzione dell’Europa, estesa alla Germania nazista che con l’Italia e gli altri alleati fascisti aveva sterminato 27 milioni di russi e sei milioni di ebrei. Non lo fecero per solidarietà, ma come barriera contro il comunismo.

E oggi? La differenza rispetto ad allora è che l’economia americana è debole. La sua crescita, sull’orlo dell’inflazione, è drogata dall’eccesso di spesa, dagli alti salari, dalla produttività che ristagna nonostante Ict, Ai, social, Musk. L’investimento eccede il risparmio nella misura di quattro punti di Pil. La manodopera scarseggia, eppure Trump deporta immigrati in catene. Il bilancio pubblico è passivo per il 7% del Pil, il debito supera il 120% del Pil. La Fed non può ridurre i tassi dell’interesse.

Gli americani consumano troppo, vivono a spese del resto del mondo. Che finanzia la loro bilancia dei pagamenti in rosso da mezzo secolo. Il deficit di parte corrente sfiora il trilione di dollari, tre punti di Pil. Riflette la carenza di risparmio ma anche la perdita di competitività di prezzo, rispetto alla stessa Europa. Quindi la posizione debitoria netta verso l’estero degli Stati uniti va ad avvicinare 25 trilioni. Un terzo del credito proviene da Cina, Giappone, Germania. Se questi paesi – o i Brics – lo vendessero, il dollaro crollerebbe con penose ripercussioni, inflazionistiche e recessive, per gli americani.

Trump ha intuito che la minaccia alla leadership del suo Paese è radicata nei conti con l’estero. Ma i dazi significano debolezza, e non risolvono. Aggiungono all’inflazione. Creano incertezza. Possono diffondere recessione. Proposti da Smoot e Hawley ben prima dell’ottobre 1929, in un parlamento di repubblicani filo-contadini i dazi superarono l’opposizione di Hoover – presidente fra i più colti – e quella di economisti, industriali, banchieri. La scelta «asinina» contribuì non poco a trasformare in mondiale la crisi di una Borsa.
Per evitare l’inflazione e riequilibrare la bilancia dei pagamenti, Trump dovrebbe piuttosto frenare la domanda interna con la politica fiscale e monetaria e attuare una svalutazione del dollaro controllata e accettata dai detentori, in un accordo «Plaza» nuovo e diverso.

Gli europei, dal canto loro, non devono rispondere con dazi a dazi che tolgono al commercio mondiale due punti già nel 2025. Se i dazi americani frenano le sue esportazioni, l’Europa sostenga la domanda interna con investimenti pubblici produttivi, tagliati da decenni. La Russia è fiaccata anche sul piano economico da tre anni di aggressione all’Ucraina. L’Europa, Londra inclusa, già spende molto per le armi, non meno di Mosca. La deterrenza è mero pretesto.

Obiettore di coscienza durante il primo conflitto, nel 1924 Keynes sottolineò come con le spese di guerra «le merci e i servizi ottenuti siano destinati a estinzione immediata e infruttifera».

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Occhiello:
L’economia USA tra debolezza strutturale, deficit e protezionismo: la lezione di Keynes sul commercio globale.

Sintesi schematica:

  • Riferimenti storici:

    • Keynes e il difficile rapporto con gli USA nel dopoguerra.
    • Il fallimento del Bancor e della Clearing Bank a Bretton Woods (1944).
    • Il prestito britannico del 1946 e le dure condizioni imposte da Washington.
    • Il Piano Marshall (1948) non per solidarietà, ma per contrastare il comunismo.
  • Situazione attuale dell’economia USA:

    • Crescita drogata dall’eccesso di spesa pubblica e alti salari.
    • Deficit pubblico al 7% del PIL, debito oltre il 120%.
    • Bilancia dei pagamenti in rosso da 50 anni, deficit di parte corrente vicino a 1 trilione di dollari.
    • Rischio crollo del dollaro se Cina, Giappone e Germania vendessero i loro crediti USA.
  • Trump e i dazi:

    • Misura protezionistica che non risolve il problema strutturale.
    • Effetti negativi: inflazione, recessione, incertezza economica.
    • Paragone con i dazi Smoot-Hawley che aggravarono la crisi del 1929.
  • Soluzioni alternative:

    • Frenare la domanda interna con politica fiscale e monetaria.
    • Svalutazione controllata del dollaro, sul modello dell’accordo "Plaza" (1985).
    • L’Europa dovrebbe rispondere con investimenti pubblici anziché contro-dazi.
  • Riflessione finale:

    • Keynes già nel 1924 criticava le spese militari come distruzione di ricchezza.
    • L’Europa oggi spende molto per la difesa, ma la deterrenza è solo un pretesto.
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Articolo 3

È in corso un’uscita di capitali dai mercati finanziari americani, che si dirigono verso altri investimenti: in Europa e non solo. Questo è uno dei fattori che spiegano la discesa congiunta delle Borse Usa e del dollaro, in corso da diverse settimane e sia pure con qualche interruzione come il rialzo di ieri. Accade perché gli investitori bocciano la politica di Trump? La tentazione di attribuire ai mercati un ruolo di arbitro politico è fortissima, irresistibile (soprattutto se possiamo attribuire alle Borse il nostro giudizio personale e le nostre preferenze politiche). Però è quasi sempre fuorviante. Anche stavolta.

Quel che sta accadendo sui mercati è in realtà un riequilibrio strutturale legato ad altre ragioni, più antiche e più profonde. Primo: l’America aveva conquistato un peso esagerato, troppo preponderante, nei portafogli di tutti gli investitori del pianeta. Secondo: all’interno delle Borse Usa il peso di Big Tech era a sua volta spropositato. A riprova della febbre speculativa basti ricordare che l’insieme delle azioni Usa (indice Msci) nel 2023-2024 era salito del 54% contro il 17% per tutto il resto del mondo, misurato in dollari (questo confronto subisce il duplice impatto dei rialzi azionari e della sopravvalutazione della moneta americana).

Trump sicuramente innervosisce e spaventa, ma la sua azione è solo un pretesto, il catalizzatore per innescare degli aggiustamenti che erano «long overdue»: maturi da tempo. Alla fine, potrebbe uscirne un assetto un po’ meno squilibrato della finanza mondiale. E l’Europa potrebbe essere la prima a beneficiarne.

Per mettere le cose nella giusta prospettiva, bastano pochi numeri per riassumere la «dittatura dell’America» in campo finanziario. Li estraggo da una analisi pubblicata sul Financial Times da Ruchir Sharma, del fondo d’investimento Rockefeller International. Sappiamo che l’America ha l’economia più ricca del pianeta, il suo declino tante volte annunciato non si è mai verificato, il suo Pil rimane il numero uno: vale quasi il 30% di quello mondiale. Però se si guarda alla ricchezza mondiale investita in titoli americani (bond e azioni), qui siamo ben oltre il 60% del totale. È inaudito, e anomalo: da decenni e nonostante sia incappata in crisi serie (per esempio quella del 2008) l’economia americana ispira così tanta fiducia, che attira dal resto del mondo più del doppio dei capitali rispetto al suo peso effettivo misurato dal Pil.

Questo plebiscito a favore dell’economia americana (evocato pure dal Rapporto Draghi) ha fatto sì che il dollaro, anche dopo gli ultimi cali, sia ai massimi storici del suo valore reale dagli anni Settanta del secolo scorso. In quanto alle azioni, proprio perché le aziende Usa ispirano una fiducia soverchiante in tutto il resto del pianeta, sono sopravvalutate: a parità di condizioni dei bilanci aziendali, le società Usa valgono il 50% in più delle loro «gemelle» di tutti gli altri paesi del mondo. E quando si parla della caduta recente delle Borse, pure questa va situata nel giusto contesto: dopo gli ultimi cali l’indice azionario Standard&Poor’s 500 rimane tuttora sopravvalutato del 25% rispetto alla sua media (ascendente) degli ultimi 150 anni.

La verità era nota da tempo a tutti i gestori di fondi e asset management del pianeta: dai cinesi agli arabi, da Tokyo a Singapore, da Zurigo a Francoforte, da Londra a Milano, tutti avevano fatto incetta di titoli Usa al punto da avere dei portafogli «americano-centrici», squilibrati in modo estremo a favore degli Stati Uniti. E all’interno dell’America lo stesso squilibrio si riproduceva a favore di sette sorelle BigTech. Tutto questo era squilibrato, malsano, e come tale non poteva durare all’infinito. Anche ammesso che l’economia americana continui ad avere delle buone performance in futuro, questo non giustifica il fatto che nelle scelte degli investitori esista quasi solo lei, e tutto il resto del mondo sia ridotto a una miniatura.

Tornando a Trump: sta facendo un gran caos, ma la sua comparsa non è la causa fondamentale di quanto sta avvenendo sui mercati. Un riequilibrio era doveroso da tempo, l’Europa può aspirare anch’essa a occupare il suo «posto al sole», e la rinascita di una locomotiva-Germania può accelerare questo aggiustamento nei portafogli degli investitori.

Sulla questione specifica del «dominio di Big Tech all’interno del dominio americano», altro tema che era maturo molto prima dell’arrivo di Trump, lascio la parola a un esperto di Bloomberg, Nir Kaissar, di cui vi suggerisco questa analisi:

«Il mercato azionario statunitense è in tensione. La recente correzione del 10% dell'S&P 500 ha preoccupato gli investitori, sebbene un ambiente politico altamente incerto e un mercato insolitamente concentrato rendano difficile capire cosa stia davvero spaventando gli investitori. Due punti critici emergono, uno evidente e l'altro più difficile da individuare. Il primo, ovvio, è il diluvio di dichiarazioni della Casa Bianca, alcune delle quali influenzano direttamente le aziende, in particolare quelle legate alla politica commerciale. Il clima economico è diventato così teso che persino i dirigenti d’azienda, solitamente apolitici, stanno iniziando a lamentarsi dell’agenda economica dell’Amministrazione. L’altra vulnerabilità è la forte dipendenza dell’S&P 500 dai "Magnifici Sette", i colossi tecnologici che rappresentano quasi un terzo dell’indice. Così come la loro straordinaria crescita ha sostenuto il mercato per anni, un rallentamento potrebbe trascinarlo verso il basso. Tuttavia, le due minacce probabilmente si manifesteranno in modi diversi. Una guerra commerciale colpirebbe in modo sproporzionato i settori più esposti ai dazi, come energia, industria, materiali e beni di consumo. Un rallentamento nel settore Big Tech, invece, avrebbe un impatto diretto sui Magnifici Sette: Apple Inc., Microsoft Corp., Nvidia Corp., Amazon.com Inc., Alphabet Inc., Meta Platforms Inc. e Tesla Inc. Consideriamo ora quanto accaduto nella recente svendita del mercato: tutte e sette le aziende hanno registrato ribassi, con un calo mediano del 14,4%. Le perdite di questo gruppo hanno contribuito a quasi metà del declino complessivo dell’S&P 500. Il resto dell’indice, invece, ha mostrato una tenuta maggiore. Circa un quarto delle azioni dell’S&P 500 ha registrato guadagni in quel periodo, con un calo mediano del 6,6% escludendo i Magnifici Sette. Inoltre, le vendite non si sono concentrate solo sulle aziende più esposte ai dazi. Settori come industria e beni di consumo hanno visto tra i vincitori aziende come Ford Motor Co. e il rivenditore di generi alimentari Kroger Co. Al contrario, il settore tecnologico, tra quelli meno vulnerabili ai dazi, ha subito un duro colpo. Osservando più da vicino, la recente ondata di vendite sembra più una resa dei conti con il futuro del Big Tech che un panico per i dazi. Guardando solo al calo complessivo dell’S&P 500, questa tendenza non è subito evidente, poiché gran parte della variazione è guidata da sette titoli che oscurano il resto del mercato, in particolare le 200-300 aziende più piccole per capitalizzazione. L’attenzione sui Magnifici Sette potrebbe essere parte di un riconoscimento più ampio che l’economia sta rallentando e l’inflazione rimane ostinatamente sopra l’obiettivo del 2% della Federal Reserve, come riconosciuto dal suo presidente Jerome Powell mercoledì scorso. Non è che Big Tech sia particolarmente vulnerabile a un rallentamento economico — al contrario, le sue dimensioni lo rendono più resistente. Tuttavia, i Magnifici Sette hanno registrato tassi di crescita straordinariamente alti per anni. Anche solo un rallentamento verso tassi di crescita più normali rappresenterebbe un significativo arretramento. Sarebbe anche una cattiva notizia per l'S&P 500, probabilmente più di qualsiasi evento politico a Washington. Questo perché Big Tech ha alimentato la maggior parte dei guadagni del mercato nell'ultimo decennio. L’indice Bloomberg Magnificent Seven è aumentato del 36% annuo da giugno 2015 fino a febbraio, escludendo i dividendi, un valore multiplo rispetto al rendimento medio a lungo termine del mercato, che si aggira intorno al 6% annuo dal 1928. Senza i Magnifici Sette, il rendimento dell’S&P 500 dal 2015 scenderebbe a un modesto 5% annuo. L’ascesa dei Magnifici Sette non può essere attribuita a una bolla speculativa come quella che aveva gonfiato i titoli Internet negli anni ’90 o i cosiddetti "Nifty Fifty" negli anni ’60. Il successo del Big Tech è stato trainato da una delle più spettacolari crescite degli utili mai registrate. Gli utili per azione dell’indice Magnificent Seven sono cresciuti del 37% annuo dal 2015, più di cinque volte il tasso di crescita annuo degli utili dell’S&P 500 dagli anni ’50. Il resto del mercato non è rimasto indietro — ha registrato una crescita degli utili dell’8% annuo nello stesso periodo — ma è stato eclissato dalla crescita straordinaria del Big Tech. Poiché la crescita degli utili aveva spinto al rialzo le azioni dei Magnifici Sette, è ragionevole supporre che gli utili siano anche alla base dei recenti ribassi, questa volta guidati da aspettative di crescita inferiori. Questo scenario è supportato dalle valutazioni del gruppo, che non sono a buon mercato ma, ad eccezione di Tesla, nemmeno eccessivamente elevate. Alphabet scambia a 17 volte gli utili attesi nei prossimi 12 mesi, Meta a 22 volte e gli altri a livelli intorno a 25 volte, non molto più alti rispetto al resto dell’S&P 500, che scambia intorno a 20 volte gli utili medi del gruppo. Se il mercato continuerà a concentrarsi sui Magnifici Sette, l’S&P 500 potrebbe subire ulteriori ribassi, anche se molte altre azioni dell’indice saliranno. In tal caso, le flessioni dell’indice potrebbero coincidere con eventi politici a Washington, ma senza che questi ultimi siano la causa principale. Potrebbe anche verificarsi il contrario: se una guerra commerciale si intensificasse, le aziende più piccole, con minor potere di trasferire i costi ai consumatori, potrebbero subire il colpo maggiore, mentre Big Tech ne uscirebbe relativamente indenne. Una cosa è certa: un mercato dominato da sette titoli è un pessimo indicatore della salute generale delle azioni».

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Occhiello:
I mercati finanziari americani subiscono un riequilibrio strutturale, con la discesa di Borse e dollaro. L’Europa potrebbe beneficiarne, mentre il dominio delle Big Tech si ridimensiona.

Sintesi schematica:

  • Fuga di capitali dagli USA: Gli investitori diversificano i portafogli riducendo l’esposizione all’America, favorendo Europa e altre economie.
  • Non è solo colpa di Trump: Il riequilibrio era atteso da tempo; la politica di Trump è solo un catalizzatore, non la causa principale.
  • Sovrarappresentazione degli USA: L’America pesa per il 30% del PIL globale, ma raccoglie oltre il 60% degli investimenti finanziari mondiali, creando uno squilibrio e una sopravvalutazione dei mercati USA.
  • Big Tech e il loro peso eccessivo: Le "Magnifiche Sette" (Apple, Microsoft, Nvidia, Amazon, Alphabet, Meta, Tesla) dominano l’S&P 500 e hanno guidato i mercati, ma ora il rallentamento della crescita ridimensiona il loro valore.
  • Valutazioni eccessive: Le azioni USA, pur con il recente calo, restano sopravvalutate rispetto alla media storica.
  • Effetti del riequilibrio: L’Europa potrebbe beneficiarne, specie con una Germania più forte. La dipendenza dai Magnifici Sette espone l’S&P 500 a ulteriori ribassi.
  • Dazi e mercati: Una guerra commerciale penalizzerebbe settori tradizionali, mentre il Big Tech potrebbe reggere meglio.
  • Conclusione: Il ridimensionamento dell’eccessivo peso degli USA nei mercati finanziari globali potrebbe portare a un equilibrio più sano e meno dipendente da pochi colossi tecnologici.


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