3 ARTICOLI DI DOMANI TRUMP E I DAZI
CIAO, PRIMA DI RIPRENDERE IL NOSTRO LAVORO PRINCIPALE, TI INVIO 2 ARTICOLI DEL QUOTIDIANO DOMANI ED IN FONDO IL TITOLO DI UN ALTRO ARTICOLO CHE HAI GIA PROCESSATO. AVREI BISOGNO UN REPORT CHE ESPONGA I 3 ARTICOLI CON SOLITO MODO: SCHEDA SINTETICA INFORMATIVA SULLE FONTI, UNA BREVE ESPOSIZIONE DI SINTESI, UNA ELABORAZIONE BASATA SULLE TEMATICHE AFFRONTATE, CE LA FAI? È finita l’epoca dell’export, servono nuove regole per il capitalismo del futuro Roberto Antonio Romano DOMANI 22 aprile 2025 • 17:55 Nascondere sotto il tappeto le grandi contraddizioni sistemiche ha solo ritardato l’inevitabile, ossia la necessità di disegnare un equilibrio superiore tra capitale, lavoro e Stato e tra economie emergenti che ormai non possono più definirsi tali Sebbene nel mondo prevalga il caos economico, qualcosa negli equilibri internazionali e nel delicato rapporto tra capitale, lavoro e Stato sta cambiando. Quanto sta accadendo non è un accidente della storia economica, bensì l’inevitabile declino di un modello di governo del sistema internazionale che, necessariamente, dovrà fare i conti con l’attuale divisione di potere tra lavoro, capitale e Stato come agente economico. Il governo dell’economia ha attraversato numerose stagioni: è passato dall’economia classica all’economia di mercato neoclassica, all’economia liberale keynesiana, all’economia del benessere, fino a quella della cosiddetta globalizzazione. I modelli di governo di riferimento sono almeno due: quello rooseveltiano (1930-1980) e quello reaganiano-thatcheriano (1981-2008). Dopo il 2008 il sistema economico non ha più avuto un modello di riferimento e ha cercato di barcamenarsi tra piccole e grandi contraddizioni sistemiche. Tutti gli economisti pensavano che, dopo la crisi dei subprime (2008), qualcosa sarebbe cambiato, ma le speranze sono precipitate in meri accorgimenti, più o meno efficaci, sul modello reaganiano-thatcheriano. Nascondere sotto il tappeto le grandi contraddizioni sistemiche ha solo ritardato l’inevitabile, ossia la necessità di disegnare un equilibrio superiore tra capitale, lavoro e Stato e tra economie emergenti che ormai non possono più definirsi tali. Nulla sarà più come prima I dazi di Trump rappresentano il detonatore della crisi sistemica degli Stati Uniti e della necessità per Cina ed Europa di assumere un ruolo nell’attuale regionalizzazione dell’economia internazionale. Non si tratta di difendere la libera circolazione di merci e capitali, né il dollaro come moneta di riferimento mondiale, bensì di governare la regionalizzazione del sistema economico, evitando di scatenare guerre commerciali; sostanzialmente, occorre abbandonare la crescita economica fondata sulle esportazioni, trascurando la domanda interna che, teoricamente, dovrebbe tornare a essere il motore della crescita. Si tratta di restituire potere contrattuale al lavoro per garantire salari più elevati, di assegnare allo Stato il ruolo di governo e di sostegno del sistema economico, accompagnato da un sistema fiscale adeguato, capace di trovare nuovi ed efficaci presupposti d’imposta. Serve un’Europa responsabile Il richiamo principale è rivolto all’Europa, che non dispone di un bilancio pubblico, di una politica fiscale, né di una politica economica; Cina e Stati Uniti, a loro volta, dovrebbero impegnarsi a trovare un equilibrio economico coerente con l’attuale divisione internazionale del capitale, del lavoro e della gestione delle controversie internazionali. I dazi di Trump sollevano un tema di estrema delicatezza. Gli Stati Uniti, favoriti anche dal ruolo del dollaro come moneta di riserva, hanno assorbito la produzione mondiale di beni e servizi provenienti da paesi terzi (Cina ed Europa), spesso sfruttando forme di dumping economico e sociale (si pensi al basso costo del gas russo o al costo del lavoro cinese), mentre l’avanzo commerciale di Europa e Cina veniva reindirizzato a sostenere la finanza e il debito statunitense. È stato un gioco non propriamente a somma zero, ma che ha funzionato per molti anni. Questo paradigma presupponeva una determinata divisione economica internazionale, ma l’attuale livello dei deficit gemelli statunitensi (deficit pubblico e disavanzo commerciale) costituisce un vincolo strutturale dalle forti implicazioni sociali. Una parte fondamentale dello stato sociale statunitense è legata a filo doppio all’andamento dei titoli di borsa; un problema enorme che il governo federale deve risolvere, ma che rappresenta anche un monito per tutti quei paesi europei che vorrebbero affiancare assicurazioni private (previdenza e sanità) allo stato sociale pubblico. Quanto sta accadendo, in realtà, era prevedibile. La globalizzazione è entrata in crisi già nel 2008, ma è stato con il Covid (2020) che ne sono emersi tutti i limiti, così come con l’inizio della guerra in Ucraina; catene del valore troppo lunghe non erano e non sono più ammissibili. È necessario accorciarle per rendere più sicura e resiliente la produzione industriale e la struttura economica nel suo complesso. La veloce regionalizzazione del sistema economico internazionale era inevitabile, e sperare di far crescere il Pil attraverso le esportazioni (Cina ed Europa) è tecnicamente impossibile. Lo stile di Trump è insopportabile per la storia cinese ed europea, ma stiamo facendo la storia, ed è il momento di impegnarsi a costruire le istituzioni dell’economia politica, evitando pregiudizi. Il multilateralismo economico sembrerebbe essere il nuovo orizzonte, ma va regolamentato. Gli Stati Uniti sono deboli e spaventati, sebbene facciano fatica a rinunciare ai privilegi degli ultimi sessant’anni; tuttavia, così come l’Inghilterra ha ceduto lo scettro del potere agli Stati Uniti, allo stesso modo Cina ed Europa devono oggi condividere questa nuova e inedita fase della storia del capitalismo mondiale. Roberto Antonio Romano =========== Cosa bisogna fare di fronte alla “gabella” non negoziabile di Trump? Niente DOMANI Innocenzo Cipolletta 21 aprile 2025 • 19:45 Aggiornato, 22 aprile 2025 • 16:43 Il tycoon sta portando gli Usa all’isolamento commerciale e noi non dobbiamo far nulla per frenarlo: dovranno farlo gli elettori americani quando capiranno gli errori che sta commettendo il loro presidente. Anzi, darsi da fare e agitarsi per negoziare con la Casa Bianca una modifica dei dazi appare operazione inutile e dannosa La missione negli Usa della presidente Giorgia Meloni ha prodotto quanto era previsto: nessuna marcia indietro sui dazi da parte di Trump. I dazi non sono negoziabili, semmai si può cercare di evitare gli extradazi, quelli del 20 per cento o più minacciati e poi sospesi per 90 giorni. Ma i dazi rappresentano la nuova forma fiscale con cui gli Stati Uniti (o meglio Trump) ritengono giusto finanziare lo Stato americano, quasi a remunerare il suo ruolo di dominatore del mondo che dispensa servizi di sicurezza e di polizia internazionale. Una compensazione anche per l’eccesso di valutazione del dollaro a causa del suo ruolo di moneta di riserva internazionale. È una specie di gabella messa su tutte le merci che entrano negli Usa, una sorta di “pizzo” da pagare a chi ha la forza e la protervia d’imporlo. Tasse sugli acquisti Ormai, bisogna chiamare le cose con il loro nome: i dazi di Trump sono tasse sugli acquisti degli americani con riferimento alle importazioni. Se Trump avesse messo queste tasse su tutti gli acquisti degli americani (importati o nazionali) non avremmo avuto nulla di ridire. Sarebbe stata una misura fiscale restrittiva volta a contenere la domanda interna, ovvero a racimolare risorse finanziarie da devolvere ad altri scopi (altra spesa pubblica o riduzione di tasse a specifici cittadini). Aver limitato la tassazione alle sole importazioni ha determinato una discriminazione che è contraria alle regole del commercio internazionale in vigore dal dopoguerra. Ecco allora che la prima reazione che dobbiamo effettuare è quella di deferire gli Usa al Wto perché siano condannati per pratiche discriminatorie. La Cina ha proceduto su questa strada e non c’è ragione che l’Italia e tutta l’Unione europea non facciano altrettanto. Certo, la denuncia non porterà soluzioni a breve e Trump sembra del tutto allergico alle regole internazionali che ha già sfidato in diverse occasioni. Ma noi, che invece crediamo nelle regole internazionali, dobbiamo farne ricorso e, alla fine, torneranno utili. La denuncia al Wto ci autorizza a reagire cercando di colpire nei settori dove ci siano minori danni per la nostra economia. Se anche noi mettessimo per ripicca tasse indiscriminate su tutte le importazioni dagli Usa, finiremmo per aumentare i costi delle nostre produzioni e/o per ridurre il potere d’acquisto delle nostre famiglie a causa dell’aumento dei prezzi che ne deriverebbe. Quindi, non conviene reagire in maniera speculare per non fare la stessa fine che rischiano di fare gli Usa. Inutile replicare a una manovra fiscale restrittiva negli Usa con una manovra fiscale restrittiva in Europa. Meglio agire, eventualmente, col prelievo fiscale sulle big tech americane che operano “sulle nuvole” e pagano ben poche tasse nei nostri paesi. Poi sarà necessario allargare il commercio ad altre aree mondiali. Certo, ci vorrà tempo e non sarà la stessa cosa per tutti i prodotti, dato che ogni mercato ha le sue esigenze e le sue particolarità, mentre sono necessari investimenti anche importanti per affermarsi in nuovi mercati. Ma se andiamo indietro nella storia degli ultimi 50 anni, possiamo constatare che l’Italia ha brillantemente convertito le sue esportazioni dalle aree più disparate del mondo: dall’Europa al Medio Oriente all’epoca delle crisi da petrolio, poi verso gli Stati Uniti e l’America Latina, quindi verso la Russia con la caduta del muro di Berlino e l’Estremo Oriente al momento dell’apertura della Cina, infine ci siamo riconvertiti all’Europa. Insomma, ci vuol un po’ di tempo, ma ci si adatta ai nuovi mercati di sbocco e gli Usa sono solo il 13 per cento del commercio mondiale. Trump sta portando gli Usa all’isolamento commerciale e noi non dobbiamo far nulla per frenarlo: dovranno farlo gli elettori americani quando capiranno gli errori che sta commettendo il loro presidente. Darsi da fare e agitarsi per negoziare con Trump una modifica dei dazi appare operazione inutile e dannosa. Inutile, perché Trump ha bisogno dei dazi come fonte di raccolta fiscale, senza la quale il bilancio pubblico americano allargherà il suo disavanzo e gli sarà impossibile ridurre anche marginalmente la pressione fiscale. Quindi Trump manterrà comunque un livello di dazi almeno a quel 10 per cento che ha introdotto come base. Dannoso, perché insistere a tutti i costi di negoziare offrendo possibili contropartite, finisce per concedere a Trump un vantaggio tattico che lui sfrutterà: come ha recitato nel suo volgare discorso dove ha affermato che: molti paesi fanno la fila, mi pregano di negoziare e, per farlo, sono disposti a tutto (tralascio il resto del suo scurrile discorso). Effetto boomerang Più passa il tempo e più i consumatori americani capiranno che Trump ha fatto una politica fiscale restrittiva che aumenterà l’inflazione e ridurrà la capacità di spesa, nello stesso tempo in cui i mercati azionari sono crollati, decurtando patrimoni e rendite. Il crollo delle azioni si ripercuoterà su milioni di cittadini americani anziani perché le loro pensioni sono valutate sui rendimenti azionari, mentre verranno decurtati anche i redditi di fondazioni ed enti che esercitano attività di carattere sociale e culturale, dato che tali redditi derivano da patrimoni investiti in gran parte nella borsa americana che ha subìto perdite rilevanti. Il capo della Casa Bianca sta preparando il campo per una recessione che purtroppo finirà per colpire anche noi. Speriamo serva almeno per far comprendere agli elettori americani l’errore che hanno fatto eleggendo un presidente che sta facendo proprio quello che aveva promesso in campagna elettorale. ========== DOMANI Economia Il piano strampalato di Trump, sui dazi la Cina era preparata Francesco Saraceno economista
===============
Ecco il report strutturato sui tre articoli indicati, composto da:
-
Scheda sintetica informativa sulle fonti
-
Sintesi dei contenuti
-
Elaborazione critica integrata
1. Scheda sintetica informativa sulle fonti
Autore | Titolo | Testata | Data | Argomenti principali |
---|---|---|---|---|
Roberto Antonio Romano | È finita l’epoca dell’export, servono nuove regole per il capitalismo del futuro | Domani | 22 aprile 2025 | Crisi del modello export-led, regionalizzazione economica, nuova governance tra Stato, lavoro e capitale |
Innocenzo Cipolletta | Cosa bisogna fare di fronte alla “gabella” non negoziabile di Trump? Niente | Domani | 21-22 aprile 2025 | Dazi USA, politica fiscale protezionista, reazioni europee, WTO, isolamento USA |
Francesco Saraceno | La nuova guerra commerciale degli Stati Uniti | Domani | 19 aprile 2025 | Strategia economica USA, declino del libero commercio, conseguenze per Europa e Cina |
2. Sintesi dei contenuti
1. Romano: La crisi dell’export e il nuovo equilibrio globale
Romano analizza la crisi irreversibile del paradigma fondato sull’export e propone la necessità di una nuova architettura istituzionale ed economica globale. Dopo decenni di egemonia del modello reaganiano-thatcheriano, il mondo post-2008 ha navigato a vista, tra crisi e adattamenti inefficaci. Il ritorno alla domanda interna come motore della crescita, un riequilibrio dei rapporti tra capitale, lavoro e Stato, e la regionalizzazione dell’economia sono elementi chiave della transizione. L’Europa deve uscire dall’impotenza fiscale e istituzionale per partecipare alla costruzione del nuovo ordine multipolare.
2. Cipolletta: L'inutilità di reagire ai dazi di Trump
Cipolletta sostiene che reagire attivamente ai dazi imposti da Trump sarebbe controproducente. I dazi, equiparabili a una tassa di consumo, rappresentano per Trump una fonte strutturale di entrata fiscale. L’Europa dovrebbe evitare ritorsioni simmetriche e invece agire legalmente presso il WTO, tassare le big tech americane e cercare nuovi mercati di sbocco. La strategia di Trump è destinata a ritorcersi contro gli stessi consumatori e pensionati americani, che ne subiranno gli effetti negativi su prezzi e mercati finanziari.
3. Saraceno: Il protezionismo USA e il tramonto del libero commercio
Saraceno descrive la svolta protezionista americana come una scelta consapevole e strutturale, volta a rimettere sotto controllo una globalizzazione diventata ingestibile. La nuova politica commerciale americana si muove fuori dal WTO e mira a ricondurre la produzione entro i confini nazionali, favorendo la rilocalizzazione industriale. Per l’Europa il rischio è doppio: perdere il mercato americano e non avere una strategia autonoma né industriale né commerciale. Si invoca un nuovo multilateralismo regolato, alternativo tanto al caos globale quanto all’unilateralismo USA.
3. Elaborazione critica integrata
I tre articoli delineano, da prospettive differenti ma complementari, una trasformazione epocale dell’economia internazionale e dei suoi rapporti di forza. Ciò che emerge con chiarezza è la crisi strutturale della globalizzazione neoliberista e il ritorno del conflitto tra i grandi blocchi economici, non più come incidente della storia ma come esito inevitabile di un modello ormai esausto.
Un capitalismo senza bussola
Romano evidenzia come, dopo la crisi del 2008, il mondo non abbia saputo elaborare un nuovo modello di governance. L’ideologia del libero mercato ha continuato a dominare, mentre le contraddizioni si accumulavano: dumping sociale, squilibri nelle catene del valore, crescita diseguale. La pandemia e la guerra in Ucraina hanno solo accelerato un processo già in corso: la disintegrazione dell’integrazione globale e il ritorno della politica economica come strumento di potenza.
Il protezionismo come strumento fiscale
Cipolletta spiega che i dazi di Trump non sono solo una misura protezionistica, ma un dispositivo fiscale alternativo, legittimato dal ruolo globale (militare e monetario) degli USA. È un tributo imposto ai partner commerciali e, di riflesso, ai consumatori americani. Ma questa logica finisce per colpire gli stessi fondamenti del modello statunitense: mercato finanziario e potere d’acquisto, mettendo in pericolo la coesione interna.
La posta in gioco: istituzioni o conflitto?
Saraceno, infine, avverte che il protezionismo USA è sintomo della crisi delle istituzioni internazionali nate dopo la Seconda guerra mondiale. L’uscita dal WTO e l’attacco al multilateralismo implicano che il conflitto commerciale non è un incidente, ma il nuovo strumento per ridefinire le gerarchie globali. Per l’Europa, la scelta è tra subalternità e assenza di strategia oppure rilancio autonomo, con una politica industriale, tecnologica e fiscale integrata.
Conclusione
I tre articoli, letti congiuntamente, configurano un quadro coerente: la globalizzazione come l’abbiamo conosciuta è finita, e stiamo assistendo alla nascita conflittuale di un nuovo ordine economico. I dazi, il ritorno dello Stato, la regionalizzazione delle catene produttive e la crisi del multilateralismo sono segni anticipatori di una nuova fase storica. È il tempo della politica economica, non più tecnica, ma scelta di campo tra modelli di sviluppo, sistemi di valori e potenze globali in competizione.
Se vuoi, possiamo elaborare ulteriormente questi spunti in un articolo o saggio strutturato. Vuoi procedere in questa direzione?
=====================
Perfetto! Ti propongo ora un indice dettagliato per il saggio, coerente con i temi affrontati nei tre articoli e con una struttura adatta a un’elaborazione critica solida. Subito dopo ti fornisco il testo completo del saggio, pronto per l’uso o per eventuali modifiche.
🧭 Titolo del saggio (provvisorio)
Fine della globalizzazione? Dazi, transizione e conflitto nel nuovo ordine economico internazionale
🧱 Indice del saggio
-
Introduzione: la crisi del modello globale
-
La nuova strategia economica degli Stati Uniti
-
L’illusione dell’export-led e la fine del multilateralismo
-
Il protezionismo fiscale come arma geopolitica
-
Europa tra subalternità e rilancio strategico
-
Conclusione: verso una nuova economia politica mondiale
✍️ Testo del saggio
1. Introduzione: la crisi del modello globale
Dopo oltre trent’anni di dominio incontrastato della globalizzazione neoliberista, il sistema economico mondiale sta entrando in una fase di trasformazione radicale. Le crisi multiple – finanziaria, sanitaria, geopolitica – hanno mostrato la fragilità di un ordine basato sull’iper-integrazione produttiva, la delocalizzazione selvaggia e il primato del mercato sulla politica. Oggi, con il ritorno del protezionismo e della competizione tra blocchi, si delinea un nuovo paradigma: meno globale, più conflittuale, inevitabilmente politico.
2. La nuova strategia economica degli Stati Uniti
Il cuore di questa transizione è rappresentato dal cambiamento della politica economica americana. Come evidenzia Francesco Saraceno, gli Stati Uniti non si limitano a reagire alla crisi: la guidano. La nuova strategia – iniziata sotto Trump e proseguita, seppur in forma diversa, anche sotto Biden – punta a rilocalizzare la produzione, a ridurre la dipendenza dalla Cina e a riaffermare il primato tecnologico americano. I dazi, il disconoscimento del WTO, gli incentivi alle imprese nazionali (come l’Inflation Reduction Act) non sono deviazioni momentanee, ma l’inizio di una nuova dottrina economica americana, fondata sulla “sicurezza economica” e sull’uso attivo dello Stato.
3. L’illusione dell’export-led e la fine del multilateralismo
Roberto Antonio Romano individua in questo contesto la crisi irreversibile del modello export-led, che aveva permesso a molte economie (Germania, Cina, Giappone) di crescere sfruttando la domanda altrui. Con la chiusura del mercato americano e la crisi delle istituzioni multilaterali, quel modello si scontra oggi con i suoi limiti: eccessiva dipendenza dalla domanda esterna, compressione salariale interna, scarsa resilienza. La pandemia prima, e le guerre commerciali poi, hanno mostrato che le catene globali del valore non sono solo strumenti di efficienza, ma anche fonti di vulnerabilità strategica. Il ritorno alla domanda interna come motore della crescita diventa allora una necessità, non solo economica ma anche politica.
4. Il protezionismo fiscale come arma geopolitica
Innocenzo Cipolletta analizza il nuovo protezionismo non solo come barriera commerciale, ma come vera e propria tassa di frontiera, un’imposta mascherata a carico dei consumatori e partner esteri. I dazi trumpiani, strutturali e non negoziabili, trasformano la bilancia commerciale in uno strumento fiscale e di potere. Il paradosso è che i principali danneggiati potrebbero essere proprio i cittadini americani, colpiti da prezzi più alti e da una potenziale instabilità finanziaria. Ma per Washington il dazio non è più una misura difensiva: è un dispositivo permanente di governo dell’economia internazionale. Un “tributo” imposto a chi vuole esportare negli Stati Uniti.
5. Europa tra subalternità e rilancio strategico
Tutti e tre gli autori convergono su un punto: l’Europa è assente. Incapace di definire una politica industriale autonoma, frenata da regole fiscali che impediscono gli investimenti pubblici, priva di una strategia tecnologica e commerciale coerente, l’Unione Europea rischia la marginalizzazione. Il paradosso è che, mentre invoca il multilateralismo, è uno dei soggetti meno attrezzati a difenderlo nella pratica. Romano suggerisce che occorra ripensare radicalmente la governance europea, con nuove regole che riequilibrino i rapporti tra Stato, capitale e lavoro. L’alternativa è la subalternità al blocco USA o la frammentazione interna. Il tempo delle scelte rimandate sembra finito.
6. Conclusione: verso una nuova economia politica mondiale
Il mondo che emerge da questa trasformazione non sarà né più giusto né più stabile di quello che lo ha preceduto. Ma sarà diverso. Il ritorno della politica economica come strumento di potenza, la regionalizzazione della produzione, la crisi del multilateralismo e il declino dell’egemonia americana aprono una fase di transizione conflittuale, in cui vecchie categorie (libero mercato, concorrenza perfetta, vantaggio comparato) sembrano ormai anacronistiche. In questo nuovo contesto, sarà decisiva la capacità dei singoli attori – in primis l’Europa – di dotarsi di una strategia autonoma, realista e inclusiva. Non si tratta solo di adattarsi, ma di decidere quale modello di capitalismo vogliamo costruire.
Se vuoi, posso adattare questo saggio a una versione più breve (per pubblicazione su rivista), o ampliarlo con riferimenti bibliografici e teorie economiche (Keynes, List, Mazzucato, ecc.). Fammi sapere come procedere!
==========
Commenti
Posta un commento