Il mito del dollaro ABSTRACT
Il mito del dollaro
Come il finanzcapitalismo portò al declino dell’occidente
di Silvana Niutta
Il 23 marzo, nella sala Consiglio di Siderno è stato presentato il libro ‘Il mito del dollaro’ alla presenza di Giuliano Marrucci, coautore con Vadim Bottoni.
L’evento, moderato da Nicola Limoncino e introdotto da Antonio Sgambelluri, è stato organizzato dal Movimento per la Rinascita Comunista e Comunisti uniti per Siderno. L’evento era rivolto principalmente ai giovani, ma anche a tutta quella fascia di popolazione che non si riconosce più nei partiti che negli ultimi decenni si sono avvicendati al governo, aldilà del colore politico. Si è discusso dei principali problemi che da tempo affliggono l’occidente a causa del paradigma incentrato sulla supremazia del dollaro, partendo dagli accordi di Bretton Woods, che prevedevano cambi di tasso stabili, l’oro come standard di riferimento della conversione del dollaro per equilibrare i pagamenti internazionali, quando però vi era ancora una forte presenza dello Stato nell’economia, fino ad arrivare ai nostri giorni in cui possiamo ormai constatare che la democrazia è diventata una parola vuota, che serve per mantenere una propaganda gestita a livello mediatico da una stampa servile e finanziata da agenzie internazionali, create ad hoc dal potere finanziario. Il Welfare, la scuola e la sanità sono stati distrutti, le imprese si sono convertite in società che speculano in borsa, mentre vengono continuamente distrutti milioni di posti di lavoro o si schiavizzano milioni di giovani, spogliandoli nella dignità, costretti ad accettare salari da fame, o qualche misero sussidio, senza prospettive sul futuro.
Con la guerra nel Vietnam iniziata negli anni ‘60, gli USA ebbero un forte aumento della spesa pubblica che portò ad una crisi del sistema e l’allora Presidente Nixon decise di sganciare il dollaro dalla convertibilità in oro e si tornò a cambi flessibili.
Fu da allora che l’economia statunitense si è progressivamente finanziarizzata e si è passati da un economia reale secondo la teoria marxiana D-M-D a un’economia D-D rivolta a creare denaro col denaro.
Gli Stati Uniti imposero in tutto il mondo l’egemonia del dollaro negli scambi commerciali internazionali e, mentre da una parte le grandi imprese delocalizzavano la produzione di beni e servizi nei paesi a basso costo di manodopera, dall’altra convertivano la loro economia in una finanziarizzazione spinta, gonfiata da bolle speculative, fino a essere costretti a collocare il loro debito pubblico in vari Paesi per ottenere investimenti, i cui interessi ricadevano sui paesi vassalli, che ripianavano anche i fallimenti finanziari causati dallo scoppio delle bolle speculative.
Il re è nudo da tempo e con l’avvento di Trump sono caduti gli ultimi veli. Si può ormai notare anche nei paesi europei, dove, soprattutto dopo il trattato di Maastricht, è stato importato il modello americano, implementate le regole del Washington Consensus e come dalla crisi del 2008 si passa da una crisi all’altra, da un’emergenza all’altra, senza riuscire a vedere la luce in fondo al tunnel. I governi degli ultimi decenni dovevano compiacere Washington e Wall Street e abbiamo assistito così all’ascesa di governi tecnocratici o fantoccio in tutti i paesi dell’UE (e non solo), con le peggiori classi dirigenti e partiti di governo, veri e propri comitati di affare proni alle lobby di potere, oggi diventati i partiti della guerra, dietro generose ricompense alle imposizioni di quei grossi gruppi finanziari predatori dei risparmi dei lavoratori, dei diritti sociali, oltre che di aziende pubbliche. I più importanti padroni del mondo sono BlackRock, Vanguard e State Street, che si sono infiltrati nelle aziende e nei monopoli pubblici, acquistando progressivamente percentuali di azioni sempre più cospicue.
Se ci si reca negli Stati Uniti, nelle periferie delle grosse città americane, si può vedere lo scempio di modelli di povertà assoluta di migliaia e migliaia di persone espulsi dal mercato del lavoro e riversati per le strade, senza potersi permettere una fissa dimora o uno straccio di welfare. Tanto per fare qualche nome, Los Angeles o Detroit, completamente deindustrializzata e interi quartieri residenziali che riversano in uno stato di abbandono assoluto, ma anche molte altre città.
Quella a cui stiamo assistendo adesso è la militarizzazione del dollaro entrato in una fase di declino dalla quale si è cercato di uscire implementando varie guerre, in quei paesi che cercavano di sganciarsi dalla stretta egemonica del tallone occidentale. Le due guerre in Iraq, in Afganistan, in Libia, in Somalia, le guerre civili del Congo e della Somalia e in Ucraina dentro la quale siamo coinvolti anche noi europei fino al midollo, sono guerre che servono al potere per resistere al superamento tecnologico di altri modelli economici, basati su un capitalismo di Stato, come la Cina, ricca di materie prime e industrie ad alto livello tecnologico, dove le oligarchie sono sotto il controllo dello Stato. Un’economia reale basata ancora sulla produzione e sulla trasformazione di materie prime, e che, secondo i dati della Banca Mondiale, ha riscattato dalla povertà assoluta 600 milioni di persone su una popolazione di un miliardo e 400 mila, in meno di 3 decenni, con percentuali sempre più in aumento. Intanto la Cina investe in infrastrutture in Africa o in paesi in via di sviluppo, che gli occidentali si sono limitati a saccheggiare e a distruggerne gli ecosistemi per la rapina delle risorse, delle terre e dell’acqua costringendo milioni di persone ad avventurarsi su barconi per raggiungere i paesi europei, considerati terra di bengodi.
Accusata per anni nei vari consessi sul clima, da Rio ‘92 a quello di Parigi, di non volersi allineare, la Cina è il Paese che più di ogni altro ha sviluppato energie rinnovabili e sviluppato tecnologie digitali altamente avanzate, mentre l’occidente ha distrutto la propria economia e guidato da figure di carta, corrotte dai potenti della finanza, per nascondere il fallimento delle proprie scelte e compiacere un potere egemonico in declino, fomenta una terza guerra mondiale, convertendo le industrie fallite, a causa dell’abbandono del gas russo a basso costo, in industrie belliche.
Se per anni ci hanno raccontato che dobbiamo ridurre la spesa pubblica a causa dell’aumento del debito pubblico, introducendo perfino il pareggio di bilancio in Costituzione, oggi ci narrano che è necessario indebitarci di una spesa di 800 miliardi in armamenti, per sostenere una guerra persa in partenza, contro un ipotetico nemico dell’Europa. Una carità pelosa verso l’Ucraina che ha mandato al macello un milione di giovani tra russi e ucraini, mentre dall’altro lato si sostiene un criminale che in Palestina ha massacrato una intera popolazione.
Questo evento svolto a Siderno, come tanti altri, vuole essere un invito ai giovani di organizzarsi e aggregarsi, sviluppando un pensiero critico contropropagandistico, per rovesciare una classe dirigente corrotta e agli sgoccioli che pur di sopravvivere è disposta a trascinarci nella terza guerra mondiale. Sgretolare l’attuale architettura europea, diventata un covo di belligeranti al servizio di un potere predatore di diritti e libertà dei popoli, oltre che delle nostre economie, per poi rifondare una nuova Unione Europea o più unioni con gruppi di paesi affini, su base democratica e di coesione economica e sociale, per ricostruire una società in cui i giovani possano riconoscersi e godere appieno dei diritti, riuscire a costruire fra di essi una nuova classe dirigente guidata da un nuovo spirito “socialista”, consapevole che il benessere collettivo è superiore all’arricchimento di un manipolo di corrotti che escludono dall’accesso alle risorse, artatamente limitate, il 90% della popolazione e soprattutto tutti quei giovani al di fuori dei giochi di potere, che non godono della protezione di qualche lobby che consente, invece, a questi corrotti affaristi di passare in eredità il potere solo ai propri figli, parenti stretti o compagni di merende.
Ma per realizzare una società più giusta, cooperativa e pacifica, è necessario mandarli TUTTI A CASA!
Il libro "Il mito del dollaro", presentato il 23 marzo a Siderno con l’intervento del giornalista Giuliano Marrucci, analizza in chiave critica l’evoluzione del sistema economico occidentale, dominato dal cosiddetto finanzcapitalismo. A partire dagli accordi di Bretton Woods fino alla deregolamentazione post-Nixon, l’opera descrive come il dollaro sia diventato uno strumento di potere globale, contribuendo alla crisi della democrazia, all’erosione del welfare e alla precarizzazione del lavoro.
Attraverso un’analisi storica, economica e politica, Niutta denuncia il ruolo delle élite finanziarie, delle grandi multinazionali e dei governi compiacenti nel trasformare l’economia da reale a speculativa (dal ciclo D-M-D al D-D), svuotando di significato le istituzioni democratiche. Viene inoltre sottolineata la militarizzazione del dollaro e la strumentalizzazione dei conflitti internazionali per mantenere l’egemonia americana, in contrapposizione all’ascesa di nuovi modelli come quello cinese, più orientati al controllo statale e allo sviluppo produttivo.
Il testo è anche un invito rivolto ai giovani a organizzarsi per rovesciare l’attuale classe dirigente, considerata corrotta e responsabile del declino socioeconomico, e a rifondare un’Europa più equa e solidale, fondata su principi democratici e socialisti.
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OttolinaTV by OttolinaTV 02/04/2025 in Cultura, Economia, In evidenza, Spin8ff 0
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La dittatura del dollaro è bella, ma, alla lunga, fa male: è questa, in soldoni, la tesi di fondo del nuovo pamphlet di Ottolina Tv scritto a 4 mani da Vadim Bottoni e dal nostro direttore Giuliano Marrucci e dedicata, come recita il sottotitolo, alla storia dell’ascesa (prima) e del declino (poi) dell’arma per eccellenza che ha permesso negli ultimi 50 anni agli USA di imporre la loro egemonia su tutto il pianeta. “Un instant book pensato da tempo” come lo definisce argutamente il sempre ottimo Alessandro Volpi nella prefazione; il testo infatti, sottolinea sempre Volpi, prende le mosse da una serie di episodi recentissimi, a partire dal vertice BRICS di Kazan, “ma li inserisce in un contesto di lungo periodo”, che è esattamente l’idea che sta alla base dei pamphlet di Ottolina Tv: fissare periodicamente gli elementi strutturali che emergono dal lavoro quotidiano di analisi e di approfondimento che come redazione facciamo a partire dalla cronaca, da un lato per cercare di dotarci degli strumenti che ci permettono di dare un ordine all’infinita serie di eventi epocali e solo apparentemente caotici che accadono continuamente sotto il nostro naso, dall’altro per sottoporre continuamente alla prova dei fatti i principi generali che pensiamo di aver individuato. Da questo punto di vista, questo pamphlet sul Mito del Dollaro è la continuazione ideale di quello precedente sulla Riscossa Multipolare, nel quale il Marrucci aveva provato a ricostruire perché attraverso la dittatura del dollaro gli USA erano riusciti a superare la crisi strutturale degli anni ‘70, a permettere alla grande borghesia internazionale di vincere a mani basse la lotta di classe contro il lavoro e il 99% e a rafforzare la sua egemonia durante tutta la fase gloriosa della globalizzazione neoliberista; con questo volume i nostri due autori ricostruiscono invece le gigantesche contraddizioni che l’aver elevato il dollaro a pilastro portante del sistema imperiale ha scatenato, fino a diventare – oggi che gli USA, per combattere la grande guerra contro la transizione al nuovo ordine multipolare, avrebbero bisogno di rilanciare in grande stile la propria capacità industriale – una vera e propria trappola che, mentre continua a ingrossare le tasche di una ristrettissima oligarchia, impedisce al sistema Paese di ritornare agli antichi fasti.
Una lunga battaglia per rendere la speculazione finanziaria del tutto autonoma dall’economia reale: è questa la lente attraverso la quale Vadim Bottoni ripercorre la storia economica statunitense degli ultimi 50 anni. Se gli accordi di Bretton Woods erano serviti a offrire agli USA gli strumenti per mettere la finanza al servizio della sua impetuosa crescita industriale, lo scoppio delle contraddizioni di quel modello che, all’inizio degli anni ‘70, avevano portato all’accerchiamento del potere del grande capitale a stelle e strisce, ha imposto un completo ribaltamento di paradigma: tutto doveva essere piegato alla necessità di fare del dollaro il pilastro fondamentale dell’architettura monetaria e finanziaria globale dominata dagli Stati Uniti e per farlo, appunto, i mercati finanziari USA dovevano emanciparsi completamente dalle ristrettezze imposte dall’economia reale. Il punto è che affinché il monopolio globale del dollaro sia garantito e sia sufficiente a tenere in piedi tutto il sistema, i mercati finanziari USA si devono “trasformare in una gigantesca spugna in grado di assorbire la liquidità del resto del mondo”: ed ecco così che a partire dall’amministrazione Carter, anno dopo anno, amministrazione dopo amministrazione, gli USA introducono continuamente nuove regole e nuovi meccanismi per fare in modo che i prodotti finanziari si possano moltiplicare sostanzialmente senza limiti, e quando poi qualcosa va male, ecco che magicamente interviene il senso di responsabilità. E’ la retorica del too big to fail, lo stratagemma narrativo col quale, sin dal lontano 1984 (l’anno del salvataggio con soldi pubblici della Continental Illinois, allora la settima banca del Paese), amministrazioni di ogni colore riescono ad imporre ai contribuenti USA la logica della privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite: da allora, come scrive Vadim nel titolo di uno dei capitoli, alla “risposta a ogni crisi” causata proprio dall’eccessiva finanziarizzazione, si è risposto immancabilmente e senza eccezione con “ancora più finanza”.
Al crollo dei mercati azionari del Black Monday del 1987, ad esempio, si è risposto introducendo i cosiddetti derivati di seconda generazione che permettono di moltiplicare all’infinito le scommesse sugli andamenti di qualsiasi sottostante possibile immaginabile e spostando le contrattazioni dai mercati ufficiali a nuovi mercati ombra completamente deregolamentati; ovviamente il tutto sempre con la garanzia che, alla malaparata, a parare il culo alla baracca sarebbero stati i contribuenti, come quando nel 1991, con l’emendamento all’articolo 33 del Federal Reserve Act, si stabiliva che “anche le banche d’investimento, gli hedge fund e le società di private equity, nel caso di rischio default, potevano essere salvate con soldi pubblici, anche nel caso in cui avessero gestito fondi offshore che avevano operato fuori da ogni regola”. “L’unica vera controindicazione” di questo meccanismo che faceva incetta di tutti i capitali accumulati dagli stati con un surplus commerciale, sottolinea Bottoni, era “il rischio del passaggio di pacchetti azionari di controllo delle principali imprese nazionali strategiche in mani estere”: ed ecco, allora, così che “nonostante la retorica liberista, nel 1988 viene adottata una misura di protezionismo finanziario come l’emendamento all’Omnibus Trade Act che attribuisce al governo federale la facoltà di bloccare l’acquisto da parte di investitori esteri di una partecipazione maggioritaria in società ritenute, arbitrariamente, strategiche”. Insomma: tutti i dollari accumulati devono tornare nei mercati statunitensi, ma solo per fare quello che fa comodo all’egemonia statunitense.
L’iper-finanziarizzazione con la quale si è cercato di rimediare ai danni del Black Monday del 1987, una decina abbondante di anni dopo, ha portato alla colossale bolla delle dot.com, incentrata, appunto, su un mercato allora sostanzialmente deregolamentato come quello del Nasdaq, dove verso la fine dello scorso millennio, per le aziende tecnologiche pompate dai media si è arrivati a capitalizzazioni di borsa che erano in media 40 volte gli utili; lo scoppio della bolla, a partire dal marzo 2000, ha portato nell’arco di 18 mesi a un crollo dell’indice composito del Nasdaq di oltre l’80%. Una bella fetta di quella liquidità, ancora una volta, è stata dirottata verso i derivati, che dal 2000 al 2008 sono passati da un valore complessivo di 100 trilioni ad – addirittura – 600 trilioni, in gran parte veicolati attraverso le banche che, a partire dagli accordi di Basilea, “da una valutazione di carattere quasi artigianale sul livello di rischio del singolo cliente” diventano sempre di più “una vera e propria catena di montaggio, dove mutui concessi indiscriminatamente sulla base di semplici moduli prestampati vengono raggruppati alla cieca e diventano la base per prodotti finanziari da vendere su scala industriale”: è il famigerato meccanismo delle cartolarizzazioni che, dopo lo scoppio della crisi del 2008, ha reso sostanzialmente impossibile risalire ai colpevoli. La crisi del 2008 ha una portata talmente devastante che impone una revisione radicale del vecchio paradigma e spinge le banche centrali ad abbracciare una lunga fase di politiche monetarie espansive, ma è troppo tardi: l’iper-finanziarizzazione dei decenni precedenti ha fatto in modo che per quanta liquidità immetti nel sistema, l’economia reale rimane a secco. Quella liquidità, allora, prende un’altra strada: i colossi del risparmio gestito, ed ecco così che nasce quello che viene definito l’asset manager capitalism, il capitalismo finanziario a immagine e somiglianza degli interessi delle Big Three che, nell’arco di poco tempo, accumulano patrimoni da gestire che superano i PIL delle grandi potenze industrializzate e li trasformano nei veri padroni del mondo. Questi colossi del risparmio gestito, poi, a loro volta veicolano il grosso della liquidità verso le azioni di una manciata di mega-corporation dell’high tech: sono le famigerata Magnifiche 7, da Apple a Nvidia, che da sole capitalizzano il 50% in più di quanto non capitalizzino tutte le borse dell’Unione europea messe assieme; grazie alla loro gigantesca liquidità, le Big Three oggi hanno trasformato i titoli dove hanno deciso di puntare negli asset più sicuri disponibili sul mercato, con prezzi stabilmente in crescita a prescindere dal reale andamento economico.
E proprio mentre l’asset sicuro per eccellenza, i titoli di stato del tesoro USA, per la prima volta cominciano a fare paura: l’anno scorso, infatti, Fitch s’è unita a Standard & Poor e, per la prima volta, ha declassato il rating dei titoli del debito USA; e anche Moody’s, che è l’unica delle tre ad averli mantenuti al massimo, ha comunque rivisto l’outlook – e, cioè, le previsioni – da stabile a negativo. Questo, a prescindere dalle sparate retoriche dei MAGA e di Trump, fa dei colossi del risparmio gestito l’asset fondamentale che permette ancora oggi agli USA di continuare ad attrarre capitali da tutto il mondo; peccato, però, che il loro interesse, sottolinea Bottoni, sia incompatibile con l’altro interesse esistenziale dell’impero, vale a dire quella reindustrializzazione necessaria per emanciparsi dalla dipendenza da quelli che gli USA considerano necessariamente i suoi più acerrimi nemici (a partire dalla Cina) e per tornare a costruire una base industriale sufficiente per affrontare la Grande Guerra che hanno dichiarato contro il resto del mondo per provare a ostacolare la transizione a un nuovo ordine multipolare. “Di fronte a questa lunga sequenza di contraddizioni apparentemente irrisolvibili” sottolinea Bottoni “l’esito sembrerebbe essere piuttosto ineluttabile e scontato: l’imperialismo statunitense, fondato sul dominio del dollaro, ha gli anni contati”, ma, tronca gli entusiasmi Bottoni “una nuova configurazione imperiale in realtà è sempre possibile: basta trovare un numero di vassalli sufficientemente ampio da permettere di replicare, anche se su scala un po’ ridotta, quello stesso identico meccanismo di rapina generalizzata delle risorse della periferia per alimentare il centro imperiale”; “D’altronde” si aggancia Marrucci “non è la prima volta che le oligarchie USA riescono efficacemente a superare una situazione di accerchiamento sia sul fronte interno, sia su quello esterno”: il riferimento, ovviamente, è alla genesi della grande controrivoluzione neoliberista che, a partire dagli anni ‘70, ha permesso agli USA di uscire da un impasse che sembrava potenzialmente esistenziale e che Marrucci ha descritto in dettaglio nel precedente pamphlet.
Rispetto ad allora, però, le condizioni sono drasticamente cambiate: la prima differenza macroscopica è, appunto, che il baricentro della capacità produttiva globale si è spostato radicalmente verso est; la seconda è che anche solo per motivi meramente tecnici, a differenza di allora, l’economia globale per funzionare non ha più necessariamente bisogno di un unica valuta di riserva globale. Per sostituire all’unipolarismo del dollaro un nuovo sistema valutario multipolare, però, il Sud globale ha bisogno di intraprendere un percorso lungo, complicato e ricco di contraddizioni per rendere le rispettive valute sufficientemente stabili e liquide e per costruire alternative concrete tangibili alle istituzioni che costituiscono l’architettura monetaria e finanziaria globale monopolizzata dal dollaro e dall’egemonia USA, un percorso che richiede una maturità politica che le classi dirigenti del grosso del Sud globale ad oggi non sono state in grado di dimostrare. Fortunatamente, però, “a facilitare il compito delle cosiddette potenze revisioniste” sottolinea Marrucci “ci sta pensando la stessa Washington”: il riferimento è alla scelta scellerata di trasformare, a suon di sanzioni unilaterali che, ormai, colpiscono una quantità sterminata di Paesi, sempre di più il dollaro in una vera e propria arma, una scelta che necessariamente ha indebolito l’affidabilità del dollaro stesso come valuta di riserva globale e che ha aperto enormi contraddizioni anche all’interno dei vassalli più fedeli dell’impero; da qui prende l’avvio una delle parti più originali del volume, dove Marrucci entra nel dettaglio delle dinamiche che, a livello strutturale, dividono lo stesso campo imperialista e che fino ad oggi sono state ricomposte esclusivamente in virtù di una sottomissione incondizionata dei vassalli al centro imperiale, a partire da quelle che Marrucci definisce le due grandi anomalie del blocco imperialista – Germania e Corea del Sud. Un’ intuizione quasi profetica: nell’arco di pochi giorni dalla pubblicazione del libro, sotto il peso di queste contraddizioni apparentemente irrisolvibili prima è definitivamente crollato il governo tedesco e poi, in Corea del Sud, abbiamo addirittura assistito a un tentato golpe che ha lasciato basito l’intero pianeta. Non è un caso: le categorie e la cassetta degli attrezzi messi insieme in questo volume, infatti, sembrano essere quello che ci serviva per provare a vedere una qualche forma di ordine razionale dietro all’apparenza caotica degli eventi che accadono sotto ai nostri occhi in questa fase di cambiamenti turbolenti ed epocali. Insomma: un testo fondamentale per ogni vero ottoliner che vuole costruire insieme a noi i presupposti per una vera riscossa multipopolare. A questo punto possiamo davvero costruire un media veramente libero e indipendente che racconti il mondo per quello è veramente e non per quello che vorrebbero raccontarci per nascondere queste dinamiche politiche ed economiche reali dietro una montagna di manipolazione e spazzatura. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina
Il 23 marzo, nella sala consiliare di Siderno è stato presentato un libro, ‘Il mito del dollaro’, alla presenza di Giuliano Marrucci, coautore con Vadim Bottoni. L’evento, moderato da Nicola Limoncino e introdotto da Antonio Sgambelluri, è stato organizzato dal Movimento per la Rinascita comunista e Comunisti uniti per Siderno. L’evento era rivolto principalmente ai giovani, ma anche a quella fascia di popolazione che non si riconosce più nei partiti che negli ultimi decenni si sono avvicendati al governo che, aldilà del colore politico, perseguono tutti un’agenda liberista.
Silvana Niutta
Si è discusso dei principali problemi che da tempo affliggono l’Occidente a causa del paradigma incentrato sulla supremazia del dollaro, partendo dagli accordi di Bretton Woods, che prevedevano cambi di tasso stabili, l’oro come standard di riferimento della conversione del dollaro per equilibrare i pagamenti internazionali, quando però vi era ancora una forte presenza dello Stato nell’economia, fino ad arrivare ai nostri giorni in cui possiamo ormai constatare che la democrazia è diventata una parola vuota, che serve a mantenere una propaganda gestita a livello mediatico da una stampa servile e finanziata da agenzie internazionali, create ad hoc dal potere finanziario. Il welfare, la scuola e la sanità sono stati distrutti, le imprese si sono convertite in società che speculano in borsa, mentre vengono continuamente distrutti milioni di posti di lavoro o si schiavizzano milioni di giovani, spogliandoli nella dignità, costretti ad accettare salari da fame, o qualche misero sussidio, senza prospettive sul futuro.
Con la guerra nel Vietnam iniziata negli anni ‘60, gli USA ebbero un forte aumento della spesa pubblica, che portò ad una crisi del sistema e l’allora Presidente Nixon, decise di sganciare il dollaro dalla convertibilità in oro e si tornò a cambi flessibili. Fu da allora che l’economia statunitense si è progressivamente finanziarizzata e si è passati da un economia reale secondo la teoria marxiana D-M-D ad un’economia D-D rivolta a creare denaro col denaro.
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