La fine del mercantilismo e il nuovo sistema economico che ha in mente Trump ABSTRACT
La fine del mercantilismo e il nuovo sistema economico che ha in mente Trump
di Loretta Napoleoni*
Liberation Day ha innescato una spirale verso il basso degli indici di borsa mondiale e dato alito a migliaia di economisti, un coro che canta all’unisono. Molti si sono forgiati durante la globalizzazione sotto l’ombrello del neoliberismo ed è quindi logico vedere scatenarsi da parte loro una rivolta di parole contro l’attacco diretto a questo sistema. Ma mettiamo da parte per un momento le loro critiche e concentriamoci sui fatti.
Il crollo dei mercati azionari è determinato dalla paura che il giocattolo si rompa, che gli equilibri commerciali, finanziari e geopolitici cessino di esistere. Ciò significa che a tutti stavano bene, eppure le lamentele nazionali e internazionali sono state e continuano a essere molte. Anche le crisi che questo sistema ci ha regalato hanno prodotto pene e sofferenze, in primis l’aumento vertiginoso delle diseguaglianze, l’avvento dell’oligarchia tecnologica fino al l’inflazione attuale per non parlare della proliferazione delle guerre, tutte naturalmente in luoghi lontani fatta eccezione delle ultime due in Ucraina e a Gaza. Non è dunque possibile prendere in prestito la frase storica di Winston Churchill e affermare che “la globalizzazione e’ un sistema imperfetto ma e’ quello migliore che abbiamo”.
Ciò che questi giorni di fuoco e fiamme ci hanno fatto capire è che la globalizzazione altro non e’ stata che un sistema di mercantilismo travestito da libero mercato che ha scatenato l’avvento o meglio, il ritorno, dell’economia canaglia. E vediamo perché.
Il crollo degli indici di borsa confermano che l’economia americana era ed è il mercato di sbocco principale, di gran lunga il più significativo al mondo. Il sistema di interdipendenze della catena di produzione della globalizzazione è stato costruito e strutturato per approvvigionare il mercato americano, vedi la produzione della Apple avvenuta a prezzi stracciati in Cina grazie al mercato del lavoro cinese. Grazie all’offshoring e all’outsourcing i prodotti americani, e susseguentemente anche quelli degli altri paesi industrializzati, sono stati assemblati in Cina e in altri mercati dove il costo del lavoro era basso e non esisteva una legislazione che garantiva i diritti dei lavoratori, per essere poi venduti a basso prezzo in America e negli altri paesi ricchi. Il crollo dei costi di trasporto e l’abbattimento delle tariffe e barriere doganali ha contribuito al successo di questo sistema.
Si è cosi’ creato un circolo simile a quello classico del mercantilismo dove le imprese americane erano in grado di produrre nelle periferie dell’impero economico a prezzi stracciati prodotti che poi rivendevano in a casa propria e nel resto del mondo e cosi facendo intascavano ingenti profitti. Simile perché la dipendenza della periferia da questi prodotti era minima per un semplice motivo, non avevano i soldi per acquistarli. Ma man mano che la globalizzazione ha creato ricchezza, pero’, anche la periferia ha iniziato a domandare tali prodotti.
Il mercato dei falsi è nato cosi’, dalle borse di Gucci fino agli iPhone, la periferia è stata inglobata nel sistema. Questo fenomeno dura da almeno tre decadi ed è stato fonte di ricchezza per il centro dell’impero e per la periferia. Come nel mercantilismo classico, pero’, questo sistema ha alimentato le diseguaglianze, diseguaglianze relazionate al fatto che il polo produttivo, e cioè le imprese che gestiscono il sistema produttivo sono ubicate negli Stati Uniti e negli altri paesi ricchi. Chi le guida, come l’oligarchia tecnologica, ha potuto godere di un vantaggio comparato mantenuto nel tempo anche grazie alla neutralizzazione della concorrenza straniera. E questo spiega perché paesi come il Vietnam non hanno mai prodotto il loro smartphone o le loro chip.
Sulla carta e per le borse questo sistema è stato una manna dal cielo. Le magnifiche sette, le sette imprese dell’oligarchia tecnologica hanno sostenuto gli indici di borsa e agito come un’aspirapolvere dei risparmi globali; tutti i fondi di investimento posseggono enormi pacchetti azionari e per anni hanno scremato la ricchezza creata dall’ascesa dei loro valori distribuendola ai fortunati che potevano permettersi di investire i loro risparmi. Inizialmente anche chi non apparteneva a questa categoria ne ha goduto, i prezzi di molti prodotti high-tech sono infatti scesi, ma a un certo punto, e inevitabilmente, le cose sono cambiate.
Gli Stati Uniti da paese manifatturiero e agricolo è diventato un esportatore netto di servizi e un importatore netto di beni di consumo. Una transizione che ha necessariamente messo fuori gioco la classe operaia americana, ormai inutile per il sistema di produzione globalizzato. L’ingresso della tecnologia nel settore dei servizi ha poi sferrato un duro colpo anche ai colletti bianchi, molti dei quali si sono visti escludere dalla classe media. La gig economy, corollario di questo cambiamento, si è nutrita nei paesi ricchi di una vasta forza lavoro ormai disorientata.
A questo punto, il cerchio virtuoso della globalizzazione si è rotto.
Non sappiamo se Trump la pensa cosi’, sappiamo che è sempre stato un vocifero oppositore della globalizzazione, ma forse solo perché il suo è un mondo immobiliare chiuso tra due oceani – quando si e’ avventurato fuori le cose sono andate male. Sappiamo pero’ che è stato eletto per cambiare il sistema, che chi ha votato per lui era profondamente insoddisfatto a causa dell’impoverimento verificatosi durante la globalizzazione. Che l’imposizione delle tariffe sia una mossa per mantenere il consenso all’interno di questo elettorato? Difficile crederci dal momento che la rottura del giocattolo creerà caos, possibilmente una recessione e una ristrutturazione dell’ordine geopolitico di lunga durata, quindi fenomeni impopolari.
Piuttosto, e questa è una supposizione, Donald Trump vuole creare un nuovo sistema economico e lo vuole fare e completare in quattro anni, la durata del suo mandato. Questo sistema dovrebbe produrre per gli Stati Uniti altri vent’anni di vantaggi simili a quelli che la globalizzazione ha regalato alle sue oligarchie e la leva è il settore tecnologico, una leva che oggi funziona benissimo ma che tra qualche anno potrebbe non essere così dal momento che paesi come la Cina stanno recuperando velocemente lo svantaggio iniziale. Il tempismo e’ dunque cruciale.
E’ probabile che dopo le negoziazioni delle prossime settimane con i singoli paesi la tariffa del 10 per cento rimarrà a livello globale. Con quelle entrate Trump conta di ridurre le tasse. Le tariffe costringeranno l’oligarchia tecnologica a riportare in patria l’assemblaggio dei prodotti, rimettendo in moto il sistema produttivo americano, e chi pagherà saranno gli azionisti, ma gli indici di borsa si possono permettere un taglio ben maggiore di quello attuale. Tutti coloro che hanno investito subiranno perdite ma chi ha mezzo milione, un milione di dollari o molto di più investiti, ad esempio in Nvidia o in borsa pagherà un prezzo maggiore di chi ne ha solo 50 mila. Se così fosse si scremerebbe una buona parte della ricchezza dai più ricchi, certo è poca cosa di fronte alla magnitudine delle diseguaglianze, ma e’ pur sempre qualcosa da offrire all’elettorato trumpiano.
La variabile imprevedibile sono i mercati finanziari e l’indicatore da seguire sono i titoli di stato statunitensi, barometro della fiducia del mercato nella politica americana. Venerdì c’era molta domanda e molta calma sul mercato delle obbligazioni di stato mentre sul mercato azionario imperversava l’uragano. Fintantoché la domanda mondiale del debito pubblico statunitense rimane stabile, la ristrutturazione in corso potrebbe funzionare e aprire un ventaglio di scenari possibili, alcuni anche apocalittici, per l’Europa e per il resto del mondo. Ne sapremo di più la settimana prossima e quella ancora dopo.
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