Alcune questioni circa la Cina, confronto tra universalismi (1,2,3/3) ABSTRACT Claude, DeepAI
Parte 1 - Alcune questioni circa la Cina, confronto tra universalismi
di Alessandro Visalli
In vista di un dibattito sulla Cina, organizzato dalla redazione de L'Interferenza
per il 17 maggio, al quale parteciperò, pubblico la prima parte di tre
di una riflessione sull'universalismo cinese nelle sue differenze con
l'universalismo occidentale e nel quadro del progetto strategico della
"Comunità umana dal futuro condiviso". Lo sforzo è duplice: da una parte
contrapporre al suprematismo occidentale di marca americana un progetto
di contropotere fondato sul reciproco riconoscimento concretizzato
intorno al Brics; dall'altra fare da barriera selettiva alla modernità
occidentale che rischia di corrodere dall'interno la Cina tanto più
quanto più procede sulla via di una "moderato benessere" (Xiao Kang). Il
tentativo è di governare sul piano strategico la modernizzazione del
paese, ormai alla frontiera su molti livelli, senza con ciò dissolvere
l’identità collettiva o cadere in una subordinazione epistemica con
l’Occidente.
Quella di Xi Jinping è dunque una modernizzazione selettiva e centrata, che mira a produrre una soggettività collettiva “armoniosa”, in cui convivano un’identità culturale riconoscibile, un’economia aperta e una capacità di intervenire nel discorso globale da una posizione non subalterna. Un compito di enorme difficoltà e importanza.
Al contempo una prospettiva altamente delicata e critica, schematizzabile nella sintonia/opposizione tra dialettica e conflitto, da una parte, e armonia nel tianxia, dall'altra.
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Parte Prima
Scopo del testo e articolazione
Questo articolo è diviso in tre parti, di cui il presente rappresenta la prima. Si tratta di una riflessione che attraversa e mette a confronto due diverse forme di universalismo, riassumibili (pur con le commistioni storiche che si sono date nel tempo) in “Occidentale” e “Orientale”. Prestando la dovuta attenzione al carattere politico e ricostruttivo di queste due etichette, come insegna Said, affrontare questo nodo richiede valutazioni sulla filosofia della storia, le diverse ontologie sottostanti e antropologie filosofiche, la teoria politica e culturale, la geopolitica e i diversi pensieri critici che nel tempo sono stati prodotti intorno ai due centri tematici, quello marxista e quello decoloniale. Naturalmente sullo sfondo di tutto ciò è da considerare il conflitto ibrido in corso tra i due principali egemoni dei due campi, gli Stati Uniti e la Cina.
La tesi principale si può riassumere sommariamente nel seguente modo: l’Occidente ha sviluppato, intorno alla tradizione cristiana e in particolare negli ultimi secoli un universalismo verticale, lineare, escatologico e disponibile ad un uso imperialista (se pure contenente semi della sua stessa critica); la Cina, viceversa, propone, anche in chiave strategica e nel contesto del conflitto in corso, un universalismo orizzontale, imperniato sull’immagine-forza di Tianxia, dell’armonia nella diversità e nel rifiuto dell’egemonia imposta.
Il rischio, con questa opposizione ancora una volta binaria, è di reificare le due proposte, considerandole omogenee, complete e autosufficienti, parte di due “civiltà” che bastano a sé stesse e si proiettano sul mondo. Anche quando si ammettano più proposte (il ‘buen vivir’ sudamericano, l’islamismo, l’africanismo, il mondo ortodosso russo, e via dicendo) la reificazione di ognuna di queste proposte porterebbe in nuove versioni della proposta multiculturalista relativista, reciprocamente chiusa, che vince oggi; una sorta di multiculturalismo ‘da vetrina’, o ‘da supermercato’. Oppure nella sostituzione/scontro di opposti universalismi imperiali.
Per evitarlo bisogna riconoscere che ogni tradizione ha piena legittimità di esistere e deve essere rispettata; tuttavia, al contempo, è da sempre internamente plurale e deve essere pensata come aperta. Al contempo è plurale e attraversata dai conflitti.
Premessa, il contesto del confronto Cina-Occidente.
La questione del nostro tempo è la concorrenza oggettiva tra il sistema politico-economico cinese e quello Occidentale. Si tratta di una concorrenza oggettiva, ma non necessariamente agita da entrambe le parti al medesimo modo[1]. Il motivo principale è che nella mentalità cinese non è presente quella premessa escatologica e messianica, derivata dalla tradizione giudaico-cristiana, per la quale esiste una sola via alla ‘salvezza’ collocata in avanti nel tempo. Ciò anche se non mancano, da sempre, contaminazioni tra le due tradizioni culturali[2]. Influenze trasportate sulle gambe e nelle stive dei mercanti, le lance degli eserciti e la fatica dei traduttori, e da sempre esistono diversi livelli di esposizione al set di valori e posizioni ideologiche promosse dall’occidente collettivo. Anche se in entrambe le storie culturali, e nella evoluzione materiale, sono rintracciabili molti momenti di avvicinamento e allontanamento, la diversa prospettiva è stata cristallizzata dall’idealismo nel corso del XIX secolo; per esso, con una formula sintetica, la Storia ha una sua direzione nella via della salvezza, e questa è incarnata in ultima analisi dall’Occidente.
A questa prospettiva si oppone, dopo il “Secolo dell’umiliazione”[3], la ripresa cinese di fiducia e attenzione alle proprie tradizioni culturali e specifiche aperture al mondo. Attenzione immediatamente rivendicata da Mao, attenuata dopo la svolta di Deng, e particolarmente enfatizzata dal mandato di Xi Jimping, Presidente dal 2013. Una ripresa che si accompagna alla riaffermazione del proprio ruolo nel mondo da parte del colosso cinese.
La tesi di Xi del “Grande ringiovanimento” (中华民族伟大复兴) è interamente rivolta a superare l’epoca che prese avvio con l’imposizione da parte degli inglesi del traffico di droga, in cambio del tè, e le guerre conseguenti, ma proseguì in un contesto complesso con lo sforzo “riformista” di importare la cultura occidentale (secondo il doppio modello in competizione della democrazia “wilsoniana” o del marxismo “sovietico”[4]). La ripresa, secondo la lettura cinese, avvenne quindi al termine di un cinquantennio di grande confusione, negli anni di indebolimento e caduta della dinastia Qing. Anni nei quali si determinò una progressiva radicalizzazione, accelerata a partire dalla repressione giapponese di Shanghai del 1925. Si formarono in questo periodo i due attori-chiave della successiva storia cinese: il Partito Comunista e la versione finale del Partito Nazionalista. Dopo una breve fase di alleanza nel 1927 i nazionalisti del Guomindang, guidati da Chiang Kai-Shek, attaccarono infatti i comunisti a Shanghai e in tutta la Cina. Seguì la guerra civile che vide al termine la vittoria del PCC del 1949. A quel punto si pose il problema di ricostruire un’identità nazionale coesa, in grado di proiettare un modello culturale alternativo a quello Occidentale.
Nel modello che si affermò e che viene sempre più consolidato, al centro c’è il recupero della tradizione confuciana, l’armonia sociale, il dovere collettivo e l’ordine morale; il governo benevolo (renzheng) trasfigurato nel Partito, ed un marxismo sinesizzato[5] (马克思主义中国化) che, assumendo una prospettiva non eurocentrica del marxismo, recupera elementi maoisti[6]. Come ha detto Xi in un discorso del 2014[7], “solo senza dimenticare la storia potremo inaugurare un nuovo futuro, solo imparando dall’eredità del passato impareremo a innovare”. Quel che viene proposto è, quindi, una sorta di “decolonizzazione dell’immaginario”, promossa dall’alto, che si inserisce per certi versi nella vasta tradizione di pensiero post-coloniale che si oppone all’occidentalizzazione del mondo (ed i cui autori sono Franz Fanon[8], Aimé Césaire[9], Edward Said[10], Dipesh Chakrabarty[11], Josè Carlos Mariátegui[12], Boaventura de Sousa Santos[13], senza dimenticare il pensiero africano del Codesria di Dakar, Samir Amin[14] o il suo, per certi versi oppositore, Achille Mbembe[15]). Nel suo complesso è una costellazione di pensiero che rifiuta la cultura coloniale europea, ed il suprematismo che la contraddistingue, afferma la dignità culturale dei popoli, rivendica modi diversi di essere moderni e di accedere alla verità.
Il potenziale punto debole di queste impostazioni, pienamente comprensibili nel contesto di uno sforzo di rispondere a un’egemonia tanto più invasiva quanto più si presenta come natura (e si traveste in semplice modernità), è che presumono l’oggetto. Ovvero, lo reificano, immaginano una purezza monolitica che non si è mai data e per certo non esiste oggi[16]. Ancora, che rivendicando una “identità” propria, sia essa africana, indiana, amerinda (o cinese), rischiano di prediligere la logica del frammento, autoreferenziale, e quindi del multi-culturalismo che allinea i propri prodotti come merci sullo scaffale dell’eterno presente. Ovvero, che rischia di dimenticare che l’essenza dell’Uno è sempre l’Altro che è in lui.
Il rischio è ben espresso da un critico della posizione essenzialista, come Amselle:
“tutta la storia passata fatta di contatti fra le diverse culture e civiltà viene in tal modo negata, per riaffermare la definizione di specificità culturali irriducibili. Se in passato ogni cultura, ogni civiltà poteva e doveva essere considerata come esito di una complessa serie di scambi, contatti, prestiti con altre culture a essa più o meno vicine, adesso la regola consiste nel riaffermare identità pure e inalterabili. Così di fronte ad esse e contro la civiltà occidentale cristiana si schierano tutte le altre – anche quando non stiano affatto combattendo per rivendicare le proprie differenze radicali. Con una sorta di rovesciamento dello stigma queste civiltà extraeuropee, dopo aver rifiutato la civiltà occidentale, si impegnano in una battaglia senza quartiere nel tentativo di rivendicare a loro volta la propria esclusione – stavolta però in senso positivo e di riaffermazione”[17].
La questione si può riassumere così: la volontà di fuggire da una forma di universalismo apparentemente astratto, in realtà coloniale, quale quella praticata dall’Occidente suprematista, non deve esitare in forme di nazionalismo identitario e particolarismo culturale. Cioè nella guerra tra culture reificate (gioco nel quale buona parte dell’Occidente sembra da qualche decennio impegnato[18]).
Chiaramente Xi è ben cosciente di questa china, nel momento in cui rivendica l’orizzonte della “Comunità umana dal futuro condiviso”.
Come ricorda:
“Bisogna promuovere uno scambio armonioso tra civiltà, nel rispetto delle diversità, che non escluda nessuno. La varietà delle culture dona colore e bellezza a questo mondo: dalla diversità fioriscono gli scambi, incubatori di integrazione, la sola che possa generare progresso. L’interazione tra diverse culture necessita l’apertura all’armonia nella diversità. Questo mondo potrà essere variegato e fiorente solo se si rispetta reciprocamente nella diversità, si apprende gli uni dagli altri e si coesiste in armonia.
Civiltà diverse condensano la saggezza e il contributo di popoli diversi, senza distinzioni di alto e basso, tra forte e debole. Le culture devono dialogare tra di loro, non escludersi l’un l’altra, devono interagire e non soppiantarsi. La storia dell’umanità è un enorme quadro di interazioni, crescita reciproca e integrazione tra culture diverse; queste devono essere tutte ugualmente rispettate, nessuno deve essere escluso dal processo di reciproco apprendimento, perché la civiltà umana possa realizzare uno sviluppo creativo”[19].
Rileggere le “tradizioni”, dunque, non va interpretato come una reificazione delle identità, in quanto esse non sono mai statiche, sono attraversate da tensioni e incoerenze, sono reciprocamente aperte (nella formazione del pensiero illuminista europeo sono visibili esperienze extraeuropee come quella di Haiti e forse persino influenze del pensiero nativo americano, come sostiene Graeber[20], ma certamente del pensiero orientale e arabo, con la ricezione del taoismo nello stesso romanticismo tedesco). Procedere alla ‘decolonizzazione dell’immaginario’, nel contesto di un progetto di rivendicazione della propria autonomia strategica e di un mondo finalmente multipolare e post-coloniale, non deve comportare, in altre parole, la ricerca di un’impossibile purezza originaria, ma l’apertura reciproca e il rispetto. Le stesse tradizioni sono, in un certo senso, degli spazi nei quali trovano senso negoziati e strutture. Dove l’autonomia non deve essere interpretata come chiusura ma relazione e convivialità[21].
Ora, questo discorso, elaborato espressamente da Xi e dalla leadership che a lui si collega, va compreso in tensione strutturale rispetto almeno a due polarità (o minacce):
- il conflitto con le correnti “liberali” nel PCC, particolarmente accesa fino a pochi anni fa;
- le tensioni che promanano dall’apertura al mercato della stessa Cina. Una visita alle principali città, che ho fatto, mostra una pronunciata “occidentalizzazione” degli immaginari, a partire dalle pubblicità, dai negozi, dalle merci e soprattutto da quelle identitarie.
La prima minaccia, che passa anche come lotta al “nichilismo”, è l’arena di una battaglia decisiva contro le correnti legate al mondo accademico ed economico connesso all’Occidente e potenzialmente utilizzabili per una “rivoluzione colorata”. La seconda esprime tratti di lotta di classe, nel momento in cui manifesta una tensione tra parti diverse del paese, grandi città e nuova borghesia in crescita (che si appresta a diventare maggioranza).
Dunque questa ripresa della tradizione principale (in realtà una commistione di confucianesimo e taoismo, invalsa nella Cina Han), intrecciata non senza tensioni con il marxismo a sua volta “sinizzato”, ha una espressa funzione di progetto politico. È un nodo di grande complessità e prospettiva; viene rivendicata la radice confuciano-marxista ed confrontata con un sistema economico e del consumo in rapida crescita, che, nel contesto della trasmissione culturale e materiale moderna, spinge per modelli di economia di mercato capitalisti e individualisti (in termini di lifestyle, mode, consumi distintivi). La soluzione politica di Xi è di fare barriera selettiva alla modernità occidentale, tentando di assorbire/ridefinire l’universalismo secondo codici cinesi. Valorizzando la continuità storica, anche in chiave di nazionalismo rivendicativo e patriottismo, e contestando vigorosamente la pretesa infondata di essere modello normativo dell’Occidente collettivo. In questa seconda direzione strategica, che peraltro riprende toni originari della rivoluzione cinese, la leadership cerca di riattivare l’esperienza anti-coloniale degli anni Cinquanta e Sessanta e di costruire (intorno ai Brics) nuove alleanze.
In sostanza, il tentativo è di governare sul piano strategico la modernizzazione del paese, ormai alla frontiera su molti livelli, senza con ciò dissolvere l’identità collettiva o cadere in una subordinazione epistemica con l’Occidente. In una formula sintetica Zhang Weiwei individua così il punto in questione: la Cina può diventare moderna senza diventare occidentale valorizzando la propria “civilizzazione statuale” millenaria e le proprie categorie di ordine e coesione. In questa ottica, la “cultura tradizionale” (confucianesimo incluso) viene ricodificata come infrastruttura spirituale del socialismo con caratteristiche cinesi. Si tratta di un’operazione di grande momento ed enorme complessità. La definizione della tradizione codificata come nucleo spirituale del marxismo sinesizzato implica in qualche modo la sostituzione del suo sostato universalista Occidentale (idealismo tedesco e positivismo) con un carattere che è ancora universalista, ma in modo del tutto diverso. Sotto questo profilo la parola d’ordine dell’armonia nella diversità punta a tenere insieme non solo i diversi paesi dei Brics, quanto i diversi registri culturali e ideologici e persino le oltre 50 etnie cinesi. La Cina di oggi è marxista, ma anche confuciana, rivendica il proprio orgoglio post-coloniale ed è, al contempo cosmopolita e multiculturale. Anche per un altro interprete, Wang Hui, la posta è la definizione di una modernizzazione concettualmente indipendente dall’universalismo astratto, la retorica dei diritti umani o la preminenza del mercato.
Quella di Xi Jinping è dunque una modernizzazione selettiva e centrata, che mira a produrre una soggettività collettiva “armoniosa”, in cui convivano un’identità culturale riconoscibile, un’economia aperta e una capacità di intervenire nel discorso globale da una posizione non subalterna. Un compito di enorme difficoltà e importanza.
Note
[1] - Anzi, è piuttosto evidente una diversa postura da parte della potenza americana, che veste (o forse vestiva, dato che la retorica dell’amministrazione Trump è significativamente diversa) il suo bisogno di potenza di abiti missionari e quella cinese, che promuove una cooperazione orizzontale spoglia di rivendicazioni di civilizzazione.
[2] - I contatti tra l’Occidente e la Cina sono in realtà millenari, ma raramente diretti. Le relazioni tra l’Europa (sia al tempo dell’Impero romano, sia nei secoli successivi), sono stati per lo più mediati dal mondo arabo e persiano. A partire dal XVI e XVII secolo si intensificarono per via dei crescenti scambi commerciali diretti (portoghesi, olandesi, francesi, inglesi), sostanzialmente acquistando tè e vendendo oppio. Ma la Cina si difese sempre limitando gli scambi diretti, ed i luoghi di interscambio, e facendo uso di mediatori. Le cose cominciano a cambiare dopo le “Guerre dell’Oppio”, nelle quali il celeste impero viene sconfitto due volte e costretto ad aprirsi. Il primo momento è il cosiddetto “Movimento di autopotenziamento”, dopo il 1861, quando vengono mandati studenti in Europa, tradotti testi scientifici e tecnici, importate tecnologie. Ma, al contempo, il mondo tradizionale cinese piano piano comprese che non si trattava solo di qualche tecnica isolata, l’esperienza della trasformazione del Giappone della Restaurazione Meiji che in venti anni si era trasformato in una potenza regionale all’occidentale, mostrò che bisognava fare di più. Dall’inizio del Novecento una n nuova generazione di riformisti, organizzati da Kang Youwei, avviò lo studio di Hobbes, Adam Smith, Darwin e Rousseau, la cultura e filosofia europea. La reinterpretazione dello stesso Confucio come un coraggioso riformista. Il fallimento del tentativo, dopo solo cento giorni, fu il preludio alla rivolta dei Boxer nel 1900, ed all’intervento multinazionale che la schiacciò. Liang Qichao propose di introdurre in Cina la democrazia e i “diritti”, diventare una nazione. L’emergere del nazionalismo cinese prese una connotazione antimancese, ovvero razziale Han. Ciò innescò la rivoluzione del 1911 e la nascita della Repubblica di Sun Yat-Sen che promulgò i “Tre principi del popolo”, nazionalismo, democrazia, benessere. La sua immediata caduta diede avvio ad un’epoca di disordini che portò al “Movimento del 4 maggio” e il ricostituito Guomindang di Sun e poi, alla sua morte, di Chiang Kai-shek. Seguono gli eventi noti, con la Seconda Guerra, l’invasione giapponese, la guerra civile e la vittoria finale del Partito Comunista.
[3] - Il “Secolo dell’umiliazione” è il periodo dal 1840 al 1949 che intercorre tra la prima “Guerra dell’Oppio” e la vittoria del PCC.
[4] - Nel 1840-42 la Cina perde la Guerra dell’oppio contro l’Inghilterra, causata dalla decisione imperiale di proibire e sequestrare l’oppio che stava provocando enormi danni alla società cinese. Negli anni successivi, l’allargamento del traffico e le indennità accordate drenano la ricchezza liquida dall’economia e provocano un drastico impoverimento dei contadini nella Cina meridionale. Di fatto gran parte del surplus affluisce in Occidente (in particolare in Gran Bretagna e negli Stati Uniti). Le tensioni che si accumulano innescano nel 1851 una vastissima rivolta contadina Han, viene proclamato il Taiping Tianguo (“Celeste regno della grande pace”) il quale, sulla base di una radicale riforma agraria di tipo religioso e comunistico, si impossessa della Cina meridionale e centrale e minaccia la capitale Manciù a Nord. La rivolta dura fino al 1864 e costa decine di milioni di morti. Seguono anni di espansione in tutto il mondo dei domini coloniali occidentali e l’avvio della Prima Guerra Mondiale. La Cina attraversa una fase di pronuncia dissoluzione del controllo centrale, aggredito dai Giapponesi, mentre crescono fermenti nella gioventù colta delle aree urbane. L’8 gennaio del 1918 il Presidente Wilson annuncia i suoi 14 punti, che creano grande attesa in tutto il mondo coloniale. A Baku, dal 1° al 8 settembre del 1920 si tiene il “Congresso dei popoli di Oriente”, che orienta le lotte in senso antimperialistico.
[5] - Il marxismo, in termini di formazione ideologica originaria, è sicuramente ed interamente occidentale. Come mostra efficacemente Cedric Robinson in Black marxism, ciò a partire dalla “concezione materialista della storia” di Marx (poi trasposta in “materialismo dialettico” da Engels e successivamente, ovvero positivizzato) innervata nella filosofia della storia hegeliana, che viene messa “sui suoi piedi”. Ma anche alla visione incentrata sulla “interna officina” del capitalismo che sottostima i rapporti di con-fusione e contaminazione che da sempre contraddistinguono la storia europea e la nativa e strutturale importanza della relazione costitutiva dell’accumulazione capitalista con il sistema-mondo (non solo “originaria”). Le due cose innervano la scelta, e caratterizzazione, della “classe lavoratrice” (senza attribuzioni) come motore della rivoluzione e di questa come movimento che promana dall’interno (secondo una rilettura della tradizione filosofica europea, di Aristotele in particolare). Secondo questa declinazione razionalista e universalista (specificamente connessa con la tradizione ebraica che giunge a Marx dalla madre e cristiana nella quale è immerso), la società borghese è interpretata come compimento della storia precedente e trampolino del salto finale e veicolo di una compiuta razionalizzazione di tutte le relazioni sociali. Alcune declinazioni della tradizione marxista, in particolare sulla linea delle concrete rivoluzioni nel Novecento (ovvero quella da Lenin a Mao, e poi il marxismo caraibico, quello africano e via dicendo), e riarticolazioni teoriche (il marxismo newyorkese di Baran e Sweezy e la seguente “teoria della dipendenza” di provenienza sia Sud Americana sia Africana o le teorie del capitalismo razzializzato e post-coloniale intorno a figure come Maurice Thorez, José Carlos Mariategui, Ceril James, Huey Newton, Amilacar Cabral, Raymond Williams, Gayatri Spivak, e altri) hanno cercato di superare alcuni di questi limiti. Limiti riconducibili soprattutto alla posizione storicista, teleologica e universalista che presuppone il modello Occidentale storicamente dato come modello.
[6] - La storia del PCC è intrecciata con la storia della decolonizzazione della Cina dal dominio occidentale, dall’aggressione giapponese, e successivamente alla vittoria allo sforzo di costruire un corpus teorico che si inserisse nel movimento internazionalista senza perdere le specificità date dalla situazione e tradizione culturale. I problemi originari sono la situazione derivante dalla dialettica città-campagna, la dominazione economica occidentale, la lotta antimperialista e per la sopravvivenza come nazionale, la lotta di classe. La rivoluzione è la risposta all’esigenza di sviluppare istituzioni efficienti in un’epoca di disgregazione ed umiliazione e di governare una modernizzazione ineguale che produceva effetti disgreganti profondamente sentiti dalle strutture comunitarie contadine. Alla fine, contrariamente alla vulgata marxista, è il mix di tutte le rivoluzioni affermate, invariabilmente avvenute durante fasi di accelerazione e trasformazione disordinate. Certo, la rivoluzione riempie un vuoto culturale, mettendosi al posto dell’autorità imperiale, ma nella prima fase distrugge intenzionalmente la base economica del potere sociale nei villaggi, i lignaggi, le associazioni religiose e le società segrete, e collettivizza eliminando o ponendo sotto strettissimo controllo il commercio privato. La prima parte della storia ideologica marxista cinese è caratterizzata dal confronto e scontro con la prospettiva russa, e stalinista in specie. La prima recezione, intorno alle figure di Li Dazhao (1889-1927) si concentrò sull’applicazione della prospettiva del materialismo storico all’analisi delle radici sociali e strutturali della crisi, ma negli anni Trenta il modello stalinista di lettura del processo storico (il “diamat”) venne contestato da alcuni intellettuali marxisti come Jian Bozan (1898-1968), Fan Wenlan (1893-1969), Li Shu (1916-1988), che misero a tema il carattere “europeo” del marxismo e quindi di “modello generale”. Lo scontro formativo è quello tra Wanh Ming, il leader dei cosiddetti “ventotto bolscevichi” (di stretta osservanza staliniana) e lo stesso Mao che oppose la tesi dell’assenza di un solo marxismo “astratto”, in favore di un marxismo che si articolava e dispiegava nelle forme nazionali e locali. Dunque “sinizzato”. A partire dalla Conferenza di Zunyi del 1935 la linea di Mao si afferma (per consolidarsi a partire dal 1941 per consolidarsi nel 1944) la tesi di Mao è che bisogna legare strettamente la teoria generale del marxismo-leninismo con la pratica della lotta rivoluzionaria nelle campagne e la mobilitazione della piccola borghesia. Linea maoista che, a parere di Li Zheou, alla fine affondava le proprie radici in una rivisitazione della tradizione cinese e non nel marxismo originario. In questo senso, il marxismo cinese non è solo un adattamento, ma una vera e propria reinvenzione del progetto moderno, nella quale il partito prende il posto dell’impero, e la dialettica storica si intreccia con la continuità profonda del pensiero politico e cosmologico cinese. Il rapporto tra marxismo sinizzato, sin dall’origine, e tradizione confuciana riscritta è dialettico, selettivo e strategico al tempo. Fino agli anni Settanta si tratta di un conflitto esibito, poi, da Deng in poi con la messa in sordina della lotta di classe in favore di una più esibita spinta alla modernizzazione i valori di ’armonia (和), la gerarchia funzionale, il culto dell’educazione e del bene pubblico, la centralità del dovere comunitario vengono in primo piano. Confucio in Xi e nei suoi predecessori è letto come un nazionalista morale, in tensione potenziale con il carattere egualitario e universalista del marxismo. Tu Weiming lo definisce questa sintesi “umanesimo confuciano con caratteristiche cinesi moderne”. Il maoismo – pur nella sua retorica iconoclasta – non si limita a distruggere la tradizione, ma la reinventa, attraverso un processo di dislocazione e reinsediamento del marxismo all’interno dell’universo culturale cinese. Ciò che viene assunto dal confucianesimo, anche nella sua fase di critica, è il valore della totalità etico-politica, l’idea di una moralità pubblica fondata su relazioni armoniche, la centralità del bene comune, la responsabilità dell’intellettuale e del sovrano come guida morale della collettività. Una delle principali traslitterazioni è quindi tra Partito e Impero, garante della stabilità, mediatore tra Cielo e Terra, custode della continuità culturale. In questo senso, la risemantizzazione del confucianesimo non è semplicemente ideologica, ma ontopolitica: serve a garantire la legittimità profonda dello Stato come autorità morale oltre che politica. Lo sforzo è di creare una forma alternativa di modernità che sia imperniata su un’etica pubblica post-individualista. In questo quadro, il confucianesimo stesso smette di essere una tradizione “chiusa” e viene risignificato come dispositivo moderno, selezionato, scolpito, talvolta manipolato, ma comunque riattivato come forma di memoria utile al governo del presente. La tradizione, come la rivoluzione, non viene semplicemente “subita”, ma usata come archivio di senso, campo di battaglia, risorsa strategica. Un punto di equilibrio tra i più importanti tra l’impulso universalista e storicista del marxismo e la prospettiva morale e umanista cinese è nell’immagine (non “concetto”) di tianxia di cui parleremo più avanti.
[7] - Xi Jimping, “Sforzarsi di realizzare una evoluzione creativa e uno sviluppo innovativo della cultura tradizionale”, in Governare la Cina, II, Giunti 2019, p. 405.
[8] - Franz Fanon, Pelle nera maschere bianche, Edizioni ETS, 2015 (ed. or. 1952); Franz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, 1962 (ed.or. 1961); Franz Fanon, Scritti politici I e II, Hydra, 2006 (ed. or. 2001)
[9] - Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo, Ombre corte, 2010 (ed. or. 1955).
[10] - Edward Said, Orientalismo, Einaudi 2001 (ed. or. 1978); Edward Said, Cultura e imperialismo, Feltrinelli, 2023 (ed.or. 1993).
[11] - Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, 2004 (ed. or. 2000)
[12] - José Carlos Mariategui, Difesa del marxismo, PGreco, 2021
[13] - Boavenura De Sousa Santos, Epistemologie del Sud. Giustizia contro l'epistemicidio, traduzione di Samuele Mazzolini, Roma, Castelvecchi, 2021.
[14] - Samir Amin, Eurocentrismo, La Città del Sole, 2008
[15] - Achille Mbembe, Critica della ragione negra, Ibis 2016 (ed.or. 2013); Achille Mbembe, Emergere dalla lunga notte, 2018 (ed. or. 2012)
[16] - Si veda la critica che fa Jean-Loup Amselle in Il distacco dell’Occidente, Meltemi 2009
[17] - Amselle, cit., p p. 216
[18] - A partire dagli anni del secondo decennio del XXI secolo nelle principali università anglosassoni, e poi in parte della società orientata verso la sinistra, è diventato necessario mostrarsi woke (sveglio, attento alle discriminazioni e alle microviolenze). Se pure essere attento a non rendere a nessuno discriminazione e violenza è fondamentale per la vita civile, in realtà questo movimento va molto oltre. In un contesto di critica alle “grandi narrazioni” di liberazione (come il marxismo e il liberalesimo, ma anche le religioni), invalso a partire dagli ultimi decenni del XX secolo intorno ad autori iconici come Michel Foucault, Jacques Derrida e Gilles Deleuze, Lyotard, Baudrillard e molti altri, al posto di discorsi generali di liberazione dal taglio universalista ed incentrati sulle condizioni materiali (anziché su diritti e apertura) venne impostato un discorso che focalizzava direttamente i gruppi in diversa misura “oppressi”. Se alcune radici di questa posizione sono rintracciabili nel lavoro di Said, Spivak, Derrick Bell e Kimberlé Crenshaw, che svilupparono critiche situate e per certi versi anche condivisibili si inserisce in un vasto movimento di riflusso che segue alla caduta del mondo sovietico, delle speranze della decolonizzazione e alla fase unipolare. Questo movimento vede l’affermazione di una nuova sinistra concentrata sui temi culturali e dà il via a nuove specializzazioni universitarie (e solo dopo movimenti di opinione) il cui nomi sono African American Studies, queer studies, gender studies, latino studies e Asian american studies. Autori come Chela Sandoval, Richard Delgado, Judit Butler, svilupparono un discorso che l’ultimo Said tacciò di “vittimismo”. D’altra parte, come sintetizza Andrea Zhok in un suo recente libro, se manca una verità morale alla quale appellarsi, o collettività che lo fondi, e ogni giudizio è esito di rapporti di potere, come voleva Foucault, allora ogni esercizio è ingiustificabile e legittimato solo dai risultati. In fine vengono ad avere una preminenza le forme di soggettività emarginate, vittime di effetti di verità narrativi infondati. Il folle, il carcerato, il pervertito. Se nessun potere si legittima per la maggiore razionalità, l’aderenza a valori, un qualche fondamento sociale dato e preesistente, allora nello scontro delle ‘volontà di potenza’, tutto sommato, non resta che dire che i marginali, i pochi e gli sconfitti hanno un vantaggio di legittimazione. O, almeno, lo possono pretendere più di altri. Si tratta in sostanza di un discorso non criticabile, imperniato su una postura autoreferente e schermata, che esibisce il suo spirito antiautoritario e la vocazione ribelle, sostanzialmente aristocratica. Cfr. da posizioni anti-liberali Andrea Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi 2020, p. 242 e seg. Yascha Mounk, La trappola identitaria, Feltrinelli 2024 (sia pure da posizioni liberali).
[19] - Xi Jimping “Creiamo insieme un nuovo partenariato di cooperazione reciprocamente vantaggioso e poniamo le basi per una comunità umana dal futuro condiviso”, Discorso all’ONU, 28 settembre 2015, in Governare la Cina, II, cit., p. 674
[20] - Che racconta la straordinaria vicenda di Kondiaronk, stratega dei Wendat, una confederazione di quattro popoli irochesi il quale cercò all’inizio del Settecento di evitare che inglesi, francesi e la coalizione hanfenosaunee si unissero contro la sua. Presumibilmente inviato come ambasciatore del suo popolo in Francia, si fa critico sia del cristianesimo sia della logica della trasposizione del potere sulle cose (la proprietà) in potere sugli uomini. I suoi arguti argomenti, secondo Graeber, influenzano profondamente lo stesso dibattito europeo contemporaneo sulla ineguaglianza. Uno dei più specifici argomenti portati da Kondiaronk, e riportati in Dialogues curieux: entre l’auteur et un sauvage de bon sense qui a voyagé, del 1703, dell’aristocratico francese Louis-Armand de Lom d’Arce, è che le leggi punitive di stampo europeo, e la stessa dottrina cristiana della punizione eterna, non sono rese necessarie dalla naturale cattiveria umana, ma da una forma di organizzazione sociale che incoraggia il comportamento egoista e l’avidità. Sono quindi le distinzioni tra “mio e tuo”, per usare le sue parole riportate nel libro, a rendere “disumana” la vita in Francia. Come dice, “affermo che quello che chiamate denaro è il diavolo dei diavoli; il tiranno dei francesi, la causa di tutti i mali; il flagello delle anime e il mattatoio dei vivi”. Insomma, “un uomo motivato dall’interesse non può essere un uomo ragionevole”. David Graeber, David Wengrow, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli 2022, p. 67
[21] - Alcuni autori per approfondire tale concetto possono essere Edouard Glissant e Walter Mignolo. Il secondo è un pensatore argentino, capofila del pensiero decoloniale latinoamericano che con Aníbal Quijano, Enrique Dussel, Ramón Grosfoguel, sostiene che la modernità occidentale è inseparabile dalla colonialità, un sistema globale di gerarchie di potere, sapere che è emerso con la conquista delle Americhe. E’ quindi necessario promuovere “altre geografie del sapere” che si sottraggano al pensiero epistemico eurocentrico. Un concetto chiave è la “pluriversalità”, ovvero la legittima coesistenza di molteplici cosmologie, razionalità e forme di vita chiamate a convivere. Edouard Glissant, poeta della Martinica, e voce del pensiero caraibico, vede l’identità come aperta, molteplice e interdipendente (non ci si conosce se non attraverso la relazione all’altro”, e promuove il concetto di “Tout-Monde” (Tutto-Mondo) una visione come rete di interconnessione senza centro e periferia. Ne segue una poetica della “creolizzazione” e della “opacità” (non ridurre l’altro alla nostra misura). Rispetto al concetto cinese di tianxia, imperniato sulla attrazione morale, l’armonia e la centralità relazionale, il concetto di Tutto-Mondo è relazione caotica, invece che ordinata, ma in entrambi i casi sono respinte le separazioni fisse e poste tra essere e mondo, identità ed alterità, molteplicità separate e competitive.
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Claude
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DeepAI
Presentazione/Abstract
Questo saggio di Alessandro Visalli, prima parte di una riflessione più ampia, confronta l'universalismo occidentale con quello cinese nel contesto del progetto strategico di Pechino per una "Comunità umana dal futuro condiviso". L'autore argomenta che l'universalismo occidentale, radicato nella tradizione giudaico-cristiana e consolidato dall'idealismo, è verticale, lineare, escatologico e incline all'imperialismo. Al contrario, la Cina propone un universalismo orizzontale, ispirato al concetto di Tianxia (tutto ciò che è sotto il cielo), che enfatizza l'armonia nella diversità e il rifiuto dell'egemonia imposta. Visalli analizza la "modernizzazione selettiva e centrata" di Xi Jinping, volta a produrre una soggettività collettiva armoniosa che integri identità culturale, economia aperta e capacità di intervenire nel discorso globale da una posizione non subalterna. Questo sforzo di "decolonizzazione dell'immaginario", pur rischiando forme di nazionalismo identitario e particolarismo culturale, mira a contrastare il suprematismo occidentale e a costruire un contropotere basato sul riconoscimento reciproco, come si concretizza nei BRICS. L'autore sottolinea la complessità di questo progetto, che deve fare i conti con le correnti "liberali" interne e l'occidentalizzazione degli immaginari dovuta all'apertura al mercato, cercando di governare strategicamente la modernizzazione senza dissolvere l'identità collettiva o cadere nella subordinazione epistemica con l'Occidente.
Sintesi Analitica
Il saggio di Alessandro Visalli si propone di analizzare le differenze fondamentali tra l'universalismo occidentale e quello cinese, inserendole nel quadro del conflitto ibrido tra Stati Uniti e Cina e del progetto cinese di una "Comunità umana dal futuro condiviso".
Scopo del testo e articolazione:
- L'articolo è il primo di tre parti e mira a confrontare due forme di universalismo: quello "Occidentale" e quello "Orientale" (principalmente cinese).
- L'analisi considera diverse dimensioni: filosofia della storia, ontologie e antropologie filosofiche, teoria politica e culturale, geopolitica e pensieri critici (marxismo, pensiero decoloniale).
- Il contesto è il conflitto ibrido tra USA e Cina, visti come i principali egemoni dei rispettivi campi.
Tesi principale:
- L'universalismo occidentale è descritto come verticale, lineare, escatologico e incline all'imperialismo, derivato dalla tradizione cristiana e dall'idealismo.
- L'universalismo cinese è presentato come orizzontale, basato sull'idea di Tianxia (armonia nella diversità) e sul rifiuto dell'egemonia imposta. Questa proposta ha anche una valenza strategica nel conflitto attuale.
Premessa: Il contesto del confronto Cina-Occidente:
- La concorrenza tra il sistema politico-economico cinese e quello occidentale è vista come una questione centrale del nostro tempo.
- La differenza fondamentale risiede nella mentalità cinese, priva della premessa escatologica e messianica dell'Occidente (derivata dalla tradizione giudaico-cristiana), che postula un'unica via alla "salvezza" futura.
- L'idealismo del XIX secolo ha cristallizzato la prospettiva occidentale, vedendo la Storia con una direzione precisa incarnata dall'Occidente.
- Dopo il "Secolo dell'umiliazione" (1840-1949), la Cina ha riacquistato fiducia nelle proprie tradizioni culturali, un processo enfatizzato sotto la leadership di Xi Jinping.
- Il "Grande ringiovanimento" di Xi mira a superare l'epoca dell'umiliazione e a riaffermare il ruolo della Cina nel mondo, riprendendo la tradizione confuciana (armonia sociale, dovere collettivo, ordine morale, governo benevolo) e un marxismo "sinesizzato".
- Questo recupero è visto come una "decolonizzazione dell'immaginario", un tentativo di costruire un modello culturale alternativo a quello occidentale, inserendosi nella tradizione del pensiero post-coloniale.
Rischi e sfide:
- Il rischio di questa opposizione binaria è la reificazione delle due proposte culturali, considerandole monolitiche e chiuse, il che potrebbe portare a un multiculturalismo relativista o a uno scontro tra universalismi imperiali.
- Per evitarlo, è necessario riconoscere la legittimità e il rispetto per ogni tradizione, ma anche la loro pluralità interna e apertura reciproca.
- La "decolonizzazione dell'immaginario" promossa dalla Cina, pur comprensibile come risposta all'egemonia occidentale, non deve sfociare in nazionalismo identitario e particolarismo culturale, che porterebbero a una "guerra tra culture reificate".
Il progetto di Xi Jinping e la "Comunità umana dal futuro condiviso":
- Xi è consapevole di questi rischi e propone l'orizzonte della "Comunità umana dal futuro condiviso", che promuove lo scambio armonioso tra civiltà nel rispetto delle diversità.
- Le diverse culture sono viste come ugualmente rispettate e chiamate a dialogare e interagire, non a escludersi o soppiantarsi.
- Rileggere le tradizioni non significa reificarle, poiché sono dinamiche, attraversate da tensioni e aperte. L'autonomia non è chiusura, ma relazione e convivialità.
Tensioni strutturali e minacce al progetto cinese:
- Il progetto di Xi si confronta con due minacce principali:
- Le correnti "liberali" interne al PCC, legate al mondo accademico ed economico connesso all'Occidente, potenzialmente utilizzabili per una "rivoluzione colorata". Questa lotta è vista come una battaglia decisiva contro il "nichilismo".
- Le tensioni derivanti dall'apertura al mercato e dall'occidentalizzazione degli immaginari nelle città, che spingono verso modelli capitalisti e individualisti. Questo esprime tratti di lotta di classe tra diverse parti del paese.
Funzione politica del recupero della tradizione:
- La ripresa della tradizione cinese (confucianesimo e taoismo), intrecciata con il marxismo sinesizzato, ha una funzione esplicita di progetto politico.
- Mira a fare da barriera selettiva alla modernità occidentale, tentando di assorbire e ridefinire l'universalismo secondo codici cinesi.
- Si valorizza la continuità storica (anche in chiave di nazionalismo rivendicativo e patriottismo) e si contesta la pretesa occidentale di essere un modello normativo.
- La leadership cerca di riattivare l'esperienza anti-coloniale e costruire nuove alleanze (intorno ai BRICS).
La "civilizzazione statuale" e l'universalismo alternativo:
- Zhang Weiwei suggerisce che la Cina può modernizzarsi senza diventare occidentale valorizzando la sua millenaria "civilizzazione statuale" e le sue categorie di ordine e coesione.
- La "cultura tradizionale" viene ricodificata come infrastruttura spirituale del socialismo con caratteristiche cinesi.
- Questo implica la sostituzione del sostrato universalista occidentale del marxismo (idealismo tedesco, positivismo) con un carattere universalista diverso.
- La parola d'ordine dell'armonia nella diversità mira a tenere insieme non solo i paesi dei BRICS, ma anche i diversi registri culturali, ideologici e le etnie cinesi. La Cina è vista come marxista, confuciana, post-coloniale, cosmopolita e multiculturale.
- Wang Hui vede la posta in gioco nella definizione di una modernizzazione concettualmente indipendente dall'universalismo astratto occidentale (diritti umani, primato del mercato).
Conclusione della prima parte:
- La modernizzazione di Xi Jinping è selettiva e centrata, volta a creare una soggettività collettiva "armoniosa" che integri identità, economia aperta e una posizione globale non subalterna.
- Questo è un compito di enorme difficoltà e importanza, che implica una tensione tra dialettica/conflitto (nella tradizione occidentale) e armonia nel Tianxia (nella tradizione cinese).
In sintesi, Visalli presenta la Cina di Xi Jinping impegnata in un complesso progetto di costruzione di un'identità moderna non occidentale, che recupera la tradizione per contrastare l'egemonia culturale e politica occidentale e proporre un modello di universalismo alternativo basato sull'armonia e la cooperazione, in un mondo multipolare.
DeepAI 2
Parte 2 - Alcune questioni circa la Cina, confronto tra universalismi. Parte Seconda
di Alessandro Visalli
Scopo del testo e articolazione
Questo articolo è diviso in tre parti, di cui il presente rappresenta la seconda, la prima qui. Si tratta di una riflessione che attraversa e mette a confronto due diverse forme di universalismo, riassumibili (pur con le commistioni storiche che si sono date nel tempo) in “Occidentale” e “Orientale”. Prestando la dovuta attenzione al carattere politico e ricostruttivo di queste due etichette, come insegna Said[1], affrontare questo nodo richiede valutazioni sulla filosofia della storia, le diverse ontologie sottostanti e antropologie filosofiche, la teoria politica e culturale, la geopolitica e i diversi pensieri critici che nel tempo sono stati prodotti intorno a due centri tematici, quello marxista e quello decoloniale.
Naturalmente sullo sfondo di tutto ciò è da considerare il conflitto ibrido in corso tra i due principali egemoni dei due campi, gli Stati Uniti e la Cina. E’ utile a tal fine la lettura di un recente intervento in tre parti di Giacomo Gabellini, alla cui lettura rimando[2]. In sostanza Giacomo racconta, con l'usuale abbondanza di fonti e particolari, la storia degli ultimi venti anni durante i quali si è manifestata (dalla Presidenza Obama) la sempre crescente divaricazione strategica tra l'economia debitrice e quella creditrice, la prima impegnata a consumare e la seconda a produrre, rispettivamente americana e cinese. Parte da lontano, dalle ragioni della rottura di Bretton Woods da parte di Nixon (1971) e della crisi degli anni Settanta, risolta dalla cosiddetta “globalizzazione” e dalla caduta dell'Urss; parte essenziale di questo processo, durato un trentennio, è stata l'estensione alla Cina delle filiere produttive in uno scambio per il quale le merci a buon mercato contenevano la perdita di capacità d'acquisto interna americana e il riciclo via finanza dei surplus (da parte di Cina, Giappone e paesi arabi) consentiva l'indebitamento. Questo meccanismo alla lunga non era e non è stato sostenibile, gli Usa sono passati da creditori netti nel 1983 a debitori oggi.
Il blocco “geoeconomico” che Gabellini chiama “Chimerica” si è dunque rotto. La Cina prima ha accumulato riserve in Treasury (titoli americani) per oltre 1.000 miliardi nel 2005, poi ha ampliato la propria domanda interna, riequilibrando le esportazioni (e facendo crescere una classe media interna), poi, dopo la crisi del 2008, ha accelerato la trasformazione strutturale della propria economia (e società) da fornitrice di prodotti di base a paese alla frontiera della tecnica. Quindi, nel secondo articolo[3], descrive le forme del ‘contrattacco’ statunitense per fare fronte alla fine di “Chimerica”. Fine causata dal fatto piuttosto semplice che i benefici reciproci dello scambio merci vs credito (ovvero riacquisto dei titoli) nel sistema “socialista con caratteristiche cinesi” sono stati progressivamente investiti in infrastrutture (fisiche e sociali) e reddito distribuito (cetomedizzazione), mentre nel sistema a “capitalismo predatorio” statunitense sono andati in debito (de-cetomedizzazione) e capitalizzazione del primo 10% (per lo più in isole fiscali). Il risultato cumulato in ca. quaranta anni è che il tessuto produttivo e sociale americano si è indebolito e sfilacciato. Di questo è figlio Trump (e con biografica evidenza Vance). Nella descrizione che fa Gabellini si parte dall'azione di Obama, che muove i passi consolidati da Trump, in via dell'isolamento della Cina e del disaccoppiamento dei sistemi economici, e racconta la lunga storia dei dazi. Il riassunto di Howard Lutnick, riportato nell'articolo è semplice: «occorre resettare e ridefinire i rapporti di potere degli Stati Uniti sia nei confronti degli alleati che dei nemici. L’idea che tutti i Paesi del mondo possano accumulare eccedenze commerciali con gli Stati Uniti e acquistare con il ricavato i nostri asset da noi non è sostenibile. Stiamo parlando di quasi 1,2 trilioni di dollari [di passivo, nda] all’anno ormai». Infatti: «Nel 1980 eravamo un investitore netto. Possedevamo cioè il più asset del resto del mondo di quanto il resto del mondo ne possedesse di nostri […]. E ora gli stranieri possiedono 18 trilioni di dollari di asset in più rispetto a noi. Sono diventati creditori netti».
Nel terzo articolo[4] Giacomo Gabellini descrive la risposta della Cina alla mossa di Trump. L'esibita sicurezza cinese, nel rispondere ad ogni mossa con una contromossa attentamente calibrata e di grande impatto su filiere produttive e consumi americani, nasce dalla dimensione ormai autocentrata della propria economia. Solo il 19% delle esportazioni sul pil (mentre l'Italia è al 33% e la Germania al 43%), dominio di 60 settori tecnologici chiave su 64, principale mercato per 17 categorie merceologiche su 20, una classe media che nel 2030 è stimata al livello combinato di quelle europee e statunitensi. In pratica la Cina sta “risucchiando” i paesi vicini dell'Asia orientale nel proprio sistema economico per via della forza della propria capacità di acquisto (esattamente come fecero gli Usa nel secondo dopoguerra). Il volume del commercio nel Rcep[5] supera quello tra Usa ed Europa di gran lunga e cresce. Per questo le politiche di reshoring e friedshoring stanno fallendo (e, peraltro, ove riuscissero sarebbero produttrici di ben poca occupazione). L'analisi di Giacomo qui prende una direzione interessante. Da una parte i dazi, in questa ottica, si presentano come una ripresa fiscale mascherata, dall'altra, tutto ciò minaccia la stabilità del dollaro e la sua egemonia.
Se la Cina ha il “dominio dell'escalation”[6] e gli Usa stanno sostanzialmente gestendo una ritirata alla Monti-Draghi (riduzione potere di acquisto della popolazione, contenimento dello squilibrio finanziario ed economico, deprezzamento della valuta), mentre il "paese di mezzo" torna nel posto che ha tenuto per millenni, la tentazione del sistema militare-industriale americano (ed europeo, come si vede) di rovesciare il tavolo usando l'unico sottosettore in cui sono ancora competitivi (la morte) è alta.
Dentro questo quadro complesso, nella Prima Parte abbiamo definito il difficile obiettivo della leadership cinese come sforzo per promuovere nel paese una “modernizzazione selettiva”, nel contesto del crescente confronto ideologico, culturale, economico e di potenza con l’Occidente e la sua nazione-leader, gli Stati Uniti d’America. Il controllo dei sentieri di modernizzazione, e quindi anche di conservazione di specificità ed elementi culturali, è, nel contesto della “guerra ibrida” senza risparmio che è in corso, la posta. Da ciò dipenderà la forma che il mondo prenderà in questo secolo. Le forme sociali, e le forme culturali sono, infatti, esse stesse forze materiali. Queste orientano l’autocomprensione di sé e la narrazione della propria direzione, contribuiscono all’attivazione o disattivazione di forze potenziali, inibiscono direzioni possibili o rendono ‘naturali’ azioni. Producono e sono prodotte da forze politiche che in esse si addensano. Sono fattori della forza con la quale opporsi, della sicurezza di sé e del fascino con il quale assorbire le energie esterne. Essere in grado di governare la dinamica della “modernizzazione”, controllando in essa il nuovo con il familiare e con il recuperato, rende possibile anche proiettare la capacità, come scrive Joseph Nye, di “plasmare le preferenze altrui”[7]. Ovvero di sviluppare la “capacità d’attrazione verso valori comuni”. Insomma, lo sforzo di controllare lo sviluppo della “modernità” in modo “selettivo” è un obiettivo strategico, espressamente politico, per evitare di subire un’egemonia e proiettarla, se pure nel senso dell’esempio e non del programma.
Può essere utile rileggere se pur brevemente, l’impiego che ne fa Antonio Gramsci: la parola “Egemonia”, nei Quaderni[8] è nominata con plurime accezioni, ad esempio in riferimento alla combinazione di forza e consenso nel regime parlamentare, alla distinzione tra direzione intellettuale e morale nei rapporti tra “direzione” e “dominio”, alle relazioni tra Nord e Sud nella storia italiana, al commento alla posizione di Lenin (dal quale riprende il termine), alla crisi della classe dirigente e dello Stato (spiegando l’insorgere del fascismo), al carattere del dominio straniero sull’Italia, all’influenza del Partito Moderato sul Partito d’Azione nella storia del risorgimento, alla funzione degli intellettuali, alla pedagogia sociale e all’influenza culturale, allo sdoppiamento della coscienza teorica e la lotta politica come lotta di egemonie, al superamento della formula della “rivoluzione permanente” e alla lotta all’economicismo. Antonio Gramsci, ne le “Notarelle sul Machiavelli”[9], individua una semi-indipendenza dell’economico dall’emozionale e quindi dalla volontà, internamente connessa all’azione. L’azione che consiste nella capacità di suscitare una “volontà collettiva nazionale-popolare” e al contempo, necessariamente (che, altrimenti, si tratta di mero adattarsi al flusso, ovvero nei nostri termini di una “modernizzazione” subita e non selettiva, o di una “egemonia” passiva) di “organizzare una riforma intellettuale e morale”. Quel che fa il “Partito” gramsciano, e in questo sembra leggere un’assonanza, è trasformare il senso comune[10] di strati sociali ampi, potenzialmente egemonici perché maggioritari, ma al momento disgregati, e, in quanto “filosofia della prassi”, al contempo e necessariamente, muoverli all’azione collettiva.
Dentro un confronto esistenziale, che non è solo economico e tanto meno solo militare, con l’Occidente collettivo, ogni azione e politica istituzionale ed economica deve radicarsi, per non venire assorbita, in quella che Gramsci chiamava una “riforma intellettuale e morale”. Si tratta, secondo una formula famosa, di esercitare la “fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva”[11].
Riprendendo elementi, che, come vedremo, hanno una profonda assonanza nella tradizione cinese Gramsci continua individuando una concezione dell’azione dello Stato come “educatore” e maieuta di un “nuovo tipo o livello di civiltà”, ovvero di operatore non solo sulle forze economiche, ma anche sulla “soprastruttura” (che non va abbandonata allo sviluppo spontaneo, ma razionalizzata, accelerata e “taylorizzata”), definisce il “politico in atto”, come un creatore, un suscitatore che, tuttavia e ciò fa tutta la differenza, non si muove nel vuoto dei suoi desideri (definito con una bella immagine “torbido”) o sogni, ma “si fonda sulla realtà effettuale”, cioè su “un rapporto di forze in continuo movimento e mutamento di equilibrio”[12]. Il politico applica la volontà alla creazione di nuovi equilibri delle forze, che tuttavia sono realmente esistenti e operanti, e per farlo “si fonda su quella determinata forza che si ritiene progressiva, e la potenzia per farla trionfare”. Ovvero si muove “sul piano della realtà effettuale ma per dominarla e superarla”[13].
Qui nasce il tentativo, di natura strategica e non tattica, di dirigere una “modernizzazione selettiva” e non subire il passo ed i tempi e modi di quella “Occidentale”. In questo nulla di nuovo, dal tempo di Deng la Cina cerca di governare la trasformazione, ma Xi rappresenta un cambio di passo (non a caso percepito come autoritario secondo i nostri canoni per i quali al mercato ‘si lascia fare’, in quanto espressione della ‘provvidenza’, o della ‘storia’). La battaglia di Xi per il “Grande ringiovanimento” della nazione cinese, e quello per la conquista del cuore della modernità attraverso una “decolonizzazione dell’immaginario” e l’orizzonte universalista della “Comunità umana dal futuro condiviso”, è rivolta contemporaneamente:
- all’interno, per sconfiggere le correnti “liberali” nel Partito e nella società, oltre che per dare una prospettiva diversa della modernizzazione che contrasti il ‘soft power’ Occidentale che passa attraverso le sue merci glamour, le immagini e stili di vita connessi.
- Ma anche all’esterno, per proporre una nuova logica post-coloniale alle relazioni internazionali intorno a progetti strategico-epocali come i Brics e le “vie della seta”.
Si tratta, in altre parole, da una parte di costruire una sorta di barriera selettiva alla modernità occidentale nel quadro di una guerra “ibrida” che segnerà il destino del secolo. Ma, dall’altra, anche di innestare nel corpo del marxismo uno spirito ‘confuciano’ che per molti versi gli è profondamente alieno. Interpretare lo spirito dialettico-materialista dell’hegelo-marxismo con elementi relazionali e armonici di matrice confuciana che sono profondamente alieni alla logica del conflitto.
Universalismi a confronto. Dalla via della salvezza al Tianxia.
Ma vediamo quindi a cosa si oppone questo progetto: nella tradizione Occidentale, che si è affermata non per caso durante l’epoca degli imperialismi, dalla fine del XVIII secolo, mentre in India si espandeva il traffico di droga (oppio) verso la Cina a partire dal Bengala inglese (e gli enormi profitti defluivano in Europa[14]), una compatta filosofia della storia trovò una sistemazione in Fichte e Hegel. questa presumeva la direzione dell’umanità e quindi della sua storia verso l’espansione della “libertà”, intrinsecamente connessa all’affermazione della “ragione” e quindi del “progresso”[15]. Tutto andava giudicato a partire dalla posizione rispetto a questa direzione, in termini quindi di “avanzamento” o “arretratezza”.
L’essenza di questo schema concettuale potente, e altamente utile alla giustificazione dell’evidentemente necessaria violenza praticata nel frattempo nel mondo coloniale, è una concezione del tempo derivata dalla scienza newtoniana: cumulativo, lineare, orientato. Nel suo complesso è un’idea per la quale solo l’Occidente è la casa della Ragione e tutti gli altri sono ‘barbari’ che possono divenire solo occidentali, se vogliono evolvere. L’idea, in altre parole, che la storia universale è quel processo in cui alla fine tutti sono europei (o, con Hegel, prussiani).
D’altra parte, bisogna riconoscere e tenere sempre presente, e ci torneremo ancora al termine, che la dinamica di sviluppo della modernità europea (scienza, tecnica, diritto, macchinismo e capitalismo) è espressione di un’interna ambiguità: da una parte ha visto sé stessa come universale e in ciò fatto violenza agli altri pensieri della generalità o dell’universale; al contempo ha, nella dialettica agita da parte dei deboli e degli sconfitti verso gli infiniti tradimenti dell’ideale proclamato, ispirato lotte di liberazione e continua a farlo. Questa contraddizione interna, tra la liberazione e la conquista, l’universale e la violenza, la critica ed il superamento, è contemporaneamente sia potenziale politico sia evento storico. Sulla base di questo lascito occorre quindi, con doppia mossa, evitare sia l’universalismo imperiale sia il multiculturalismo astratto e identitario. Tenere insieme, in altre parole, la memoria delle lotte, la consapevolezza delle contraddizioni, e l’apertura a un mondo in cui ogni cultura è sempre già ibridata, e ogni verità è sempre cercata da un punto di vista altro, o per meglio dire dove l’io e l’altro sono rimando.
Per esplorare questo nodo sarà necessario, da una parte esplorare ancora il particolare movimento dell’ispirazione universalista cinese, così intenzionalmente e strategicamente diversa da quella occidentale, dall’altra ritornare sulla relazione interna tra l’universalismo astratto occidentale e le tradizioni critiche che pure ne promanano.
L’universalismo cinese
Il punto di vista orientale, e cinese in specie, è al contempo meno ambizioso e più paziente. Un cinese ritiene tradizionalmente di essere già al centro del mondo, ma anche che ogni parte di questo sia “sotto il cielo”. Come sotto il medesimo cielo sono anche le altre tradizioni che non si lasciano ridurre ad ombra della via Occidentale-cristiana, e ordinare sulla strada di un maggiore o minore “avanzamento” verso l’unico e comune progresso. Progresso che quindi coincide con la modernità e questa, infine, con il possesso della tecnica.
La tradizione cinese vede le cose in modo del tutto diverso. Le civiltà non sono “stadi”, parti di uno sviluppo unico rispetto al quale giudicarle, ma forme co-esistenti di espressione del Dao, forme di espressione di una “armonia senza conformità”. Lo stesso soggetto non è realmente autonomo, ma immerso in una rete di interdipendenze e relazioni. La “verità” non è uno stato, un modello, che può essere contemplato e rivelato, un essere cui corrispondere, ma il processo nel quale emerge un’armonia da una situazione. Il tempo non assomiglia ad un piano liscio, ad una macchina o all’espressione di una formula matematizzabile, ma anch’esso un processo; un processo che ha come modello la crescita di organismi. In conseguenza gli eventi non vanno prodotti e forzati, esercitando forza e ragione, ma occorre piuttosto un adattarsi (wu wei, non-azione secondo il flusso), il cui scopo è la massimizzazione del potenziale (shi). Se pure la formula citata appartiene alla tradizione daoista (o taoista), e altre scuole (come quella confuciana, moista) hanno diverse accentuazioni, esprime una sorta di comune per differenza dalla tradizione occidentale.
Uno dei concetti centrali da contemplare per provare a intuire questo diverso universo è il concetto di tianxia (天下), ‘tutto sotto il cielo’, che non è fondato su norme astratte e quindi generali/universali, ma su una sorta di interdipendenza “io sono in te, tu sei in me”, e quindi su un’armonia come coesistenza di diversità. Quindi l’universo appartiene a tutti (tianxia wei gong) per un movimento di appartenenza reciproca. Una radicale differenza rispetto all’ontologia occidentale dell’Uno come fondamento, in favore della contemplazione di un molteplice in relazione. Un molteplice che alcune scuole vedono sinteticamente come un Dao, 道, che è vivente ed in mutamento. Dao (o Tao) è termine intraducibile[16] che ha avuto significativo riverbero sullo stesso Occidente.
Ciò al quale invita questo pensiero è di superare la visione egemonica della storia come conquista e uniformazione senza rinunciare per questo alla verità o al progresso, ma ridefinendoli come processi plurali, relazionali e situati. Articolando quella che non è una metafisica del dominio, dell’Uno, piuttosto una sorta di cartografia dell’interdipendenza.
Secondo il detto confuciano ripreso da Sun Yat-sen:
「天下為公」
Quando prevarrà la Grande Via, l’Universo apparterrà a tutti.
Anche in molti discorsi della leadership cinese contemporanea[17] vengono riprese queste antiche immagini confuciane, come quella di he er bu tong (和而不同): armonia nella diversità[18], senza annullamento delle differenze. Nel quale la differenza è piuttosto condizione dell’incontro, la ‘razionalità’ diventa per questo situazionale, e la ‘verità’ deriva da un equilibrio dinamico, senza soggiacere a una logica binaria. La vera universalità, perciò, non si raggiunge imponendo una forma unica, sia essa la libertà individuale e la democrazia liberale, ma attraverso la moltiplicazione delle forme, un po’ come in un’orchestra in cui strumenti diversi suonano insieme, senza fondersi. Anche la ‘modernità’, in questa lettura, non è un destino comune, ma una possibilità storica tra altre, che ogni civiltà può assumere secondo il proprio ritmo (shi 勢) e la propria forma di vita (li 禮 – i riti).
Dunque, volendo sintetizzare, secondo questa posizione si può dire che:
- La temporalità storica non va considerata una sola, allineata sulla freccia del progresso o la strada della libertà, ma pluralità di tempi incarnati e trasformazioni;
- La soggettività storica non è né individuale né universale, ma piuttosto collettiva, situata e relazionale;
- L’universale non è dato (e da raggiungere secondo il movimento di conformarsi ad un modello), ma costrutto nel dialogo tra diversi, quindi mondi, pratiche, civiltà;
- La razionalità non è astratta, ma è inscritta nel vivente;
- L’armonia può essere un principio generativo della storia, alternativo alla lotta per l’egemonia.
Non si tratta più di imporre un ordine al mondo, secondo un suo telos[19], ma riconoscere i molteplici ordini e aprire lo spazio per una co-esistenza creativa, trasformativa e dinamica.
Nel pensiero confuciano ciò ha implicazioni non solo etiche e politiche, ma anche cosmologiche. L’universo è concepito come una rete dinamica di relazioni (tra cielo, terra e uomo), dove l’ordine (zhi) e il disordine (luan) sono continuamente bilanciati da un processo di armonizzazione. Non c’è quindi una “legge dell’essere” eterna o trascendente, come nella tradizione ontologica greca, ma una via del mezzo (zhongyong) che si rinnova continuamente nel tempo e nello spazio. In questo senso, il concetto di he entra in tensione con la pur raffinata e complessa dialettica hegeliana o con la logica binaria greco-occidentale (vero/falso, essere/nulla, soggetto/oggetto), e propone invece una logica della co-differenza e dell’inclusione. La diversità non è ostacolo da superare, ma la condizione necessaria per l’armonia. La virtù del junzi (il “nobile”) non consiste infatti nel dominare o assimilare, ma nell’ascoltare, bilanciare, accordare, come un direttore d’orchestra che fa emergere l’armonia tra strumenti diversi, senza fonderli in un suono uniforme. Nel Lunyu 13.24, Confucio afferma: 君子和而不同,小人同而不和。(“Il nobile è armonioso ma non identico; il meschino è identico ma non armonioso”).
In altre parole, dove la tradizione post-illuminista europea - in particolare quella idealista (Hegel, Marx) - ha posto il conflitto (di classi, idee, forze produttive) al centro del processo storico (la verità come processo, aufhebung e negazione determinata), il pensiero cinese ha privilegiato la trasformazione graduale (hua 化), la risonanza (ganying) e l’integrazione dinamica dei poli opposti.
Ci sono in effetti assonanze nel progressivo movimento della coscienza verso il sapere di Hegel, e nel suo negare e conservare, oltre che nella famosissima formula per la quale “il vero è l’intero”[20]; ed assonanze si leggevano anche in Gramsci, profondamente influenzato dal pensiero idealista post-hegeliano, però l’impresa del nostro è comunque inserita in una concezione della Verità come ottenimento e possesso, sia pure attraverso un “sistema”[21]. Anche se, per Hegel, secondo una formula sintetica e potente, “la proposizione deve esprimere cos’è il vero. Il vero, però, è essenzialmente soggetto, e in quanto tale non è altro che il movimento dialettico, questo cammino che produce sé stesso, si proietta in avanti e ritorna entro sé”[22]. Alla fine si resta entro i termini di ‘possesso della verità’ propri della ‘filosofia del soggetto’ (razionale) occidentale.
Provando a soffermarsi, mentre per Hegel, concludendo una tradizione che origina in Plotino[23], la storia è la realizzazione dello Spirito attraverso la negazione, per Confucio è il processo interminabile di coltivazione dell’umanità (ren) nella costruzione relazionale e armoniosa dell’ordine sociale.
La tradizione che ascende a Platone, nella filosofia occidentale (se pure Platone non è strettamente e solo occidentale[24]) vede l’ente assoluto, possessore degli attributi di perfezione, bontà, spiritualità, distinguersi dagli altri enti nel senso in cui l’unico e necessario, eterno e vero, si distingue dal molteplice, contingente, quindi apparente e passeggero. Da Hegel questa relazione (che è paradossalmente ancora tra ‘cose’ e ‘cose’) viene, per così dire, fluidificata dialetticamente.
Invece, la tradizione della filosofia orientale (da Confucio a Mozi, nel contesto pre-buddista) non conosce e concepisce nessuna frattura ontologica tra trascendente e immanente. Quindi non vede l’Assoluto come ente separato (al quale la Storia deve conformarsi, se pure in senso variamente secolarizzato), perfetto e immobile, rispetto al mondo dei fenomeni, delle azioni e del molteplice. Nella filosofia cinese originale il riferimento cosmico è il Tian (天), che volendo si può tradurre come “Cielo”, ma non è affatto una “cosa” o un “ente”; piuttosto è un processo vitale, ordine morale e naturale insieme. Una sorta di trascendenza immanente, una legge profonda, alla quale ci si può connettere tramite l’introspezione e coltivazione del sé (diventando ‘il saggio’, strada possibile a tutti). Vivere in modo morale, divenire ‘saggio’, significa in sostanza risuonare con il cielo ed armonizzarsi al suo ritmo; non ascendere, piuttosto accordarsi tramite l’etico, il quotidiano, il rituale (li 禮). Questo in linea generale, naturalmente nelle diverse scuole ci sono tante sfumature; ad esempio, il Maestro Mo (Mozi) vede, in polemica con Confucio di poco più anziano, il ‘Tian’ come principio personale più attivo e fondamento di un amore imparziale (jian ai 兼愛).
Provando una sintesi, nel pensiero cinese classico non si cerca di superare il mondo per raggiungere il divino (come nella maggior parte della tradizione Occidentale): il mondo è già sacro, se abitato correttamente. L’alterità radicale dell’Essere non si impone, il Dao, il Tian, il Ren sono tutte forme diverse con cui si nomina una medesima presenza silenziosa, diffusa, attiva nella relazione, non un Essere assoluto distinto dai fenomeni.
- Non ente tra enti, né oltre gli enti: ma trama del divenire, vuoto fertile, ritmo.
- Per questo, il divino non si contempla, si segue; non si conquista, si incarna.
- Il sapere non è conquista della verità, ma trasformazione del sé in accordo con ciò che è.
In altre parole, laddove la tradizione post-illuminista europea — in particolare quella idealista, da Hegel a Marx — ha collocato il conflitto (di classi, idee, forze produttive) al centro del processo storico, concependo la verità come movimento dialettico, negazione determinata e Aufhebung, il pensiero cinese ha privilegiato invece la trasformazione graduale (hua 化), la risonanza (gǎnyìng 感應), l’integrazione dinamica dei poli opposti. Scrive Zisi, nipote di Confucio: “la verità è la via del cielo. Conseguire la verità è la via dell’uomo”[25].
Non si tratta, ovviamente, di negare la possibilità del conflitto, ma di collocarlo in un orizzonte di mediazione e non di superamento violento (o di annientamento). Questo permette di concepire un altro tipo di universalismo, non gerarchico né centrato su un punto di vista unico, ma orizzontale, pluralista e orientato alla convivenza.
Quello cinese è comunque un universalismo in un senso specifico. Nel contesto delle diverse “culture”, quella indiana, islamica, il buen vivir sudamericano, le tante civiltà africane o del pacifico orientale, si tratta di decidere se le tradizioni incarnate, internamente plurali e dal margine sfocato, vadano prese ciascuna come una “cosa” autosufficiente e meramente affiancate l'una a l'altra, ovvero se lo spazio tra queste possa essere 'abitato' da una idea, o da un’immagine, che, tuttavia, le rende in qualche modo ‘traducibili’. Chiamo “universalismo” il tianxia perché mi pare faccia nell'essenza questa mossa. Al contrario, il “multi-culturalismo” all'Occidentale lascia il compito di tradurre al mercato, al denaro alla fine (un medium impersonale e non linguistico), e vede quindi le “culture” come intimità.
Il particolare universalismo del Tianxia, dunque, poiché non esclude il diverso ma lo integra gradualmente attraverso la coltivazione di relazioni etiche e rituali, induce a concepire il centro (ovvero il Zohongguo, “paese del centro”) autoattribuito alla Cina, ovviamente, come una funzione di equilibrio e non come il principio del possesso e dell’uniformazione. Funzione che non può essere imposta, pena l’autocontraddirsi, ma che, al contempo, sussiste e non viene lasciata al “mercato”. Si raggiunge l’unità (e quindi l’universalità) tramite una risonanza e non tramite un’uniformazione (se pure “conservante/superante”)[26]; neppure attraverso una ragione incarnata nel ‘mercato’. Ovvero in “cattivo infinito”[27] che imprigiona le speranze dell’esistente, secondo una perversa teologia implicita[28].
Continuando la nostra esplorazione[29], secondo la grande scuola Daoista (o Taoista) la “virtù” (De) confuciana deve piuttosto essere sostituita dal non-agire (wuwei). Mentre la dottrina confuciana implica una critica politica, ed una spinta a cambiare il mondo (se pure non dispone di una nozione di male assoluto, come le religioni occidentali), il taoismo (come il buddismo) insegna il distacco dalla politica e il ritiro dal mondo.
Come si può leggere nella Stanza 47[30] del Dao De Jing[31], (道德經), attribuita a Laozi:
1. Non serve varcare la porta di casa
2. per comprendere ciò che sta sotto il Cielo;
3. né dalla finestra scrutare
4. per comprendere il dao del Cielo.
5. Più esci e più t'allontani,
6. meno comprendi.
7. Il Saggio, pertanto, comprende [le cose] senza muoversi [verso di loro],
8. [le cose] nomina, senza bisogno di averle prima scorte.
9. [Agli esseri] assicura piena realizzazione, senza farne oggetto delle proprie mire.
Questa stanza esprime una concezione del sapere radicalmente diversa da quella occidentale, ed opposta peraltro anche a quella confuciana o moista[32], entrambe più attive e soprattutto rivolte al sociale e al politico. La conoscenza non avviene attraverso l’esplorazione esterna, la conquista, l’estensione del dominio (come nella scienza moderna o nell’episteme coloniale), ma attraverso l’interiorità, l’intuizione, la consonanza con il Dao, il distacco.
Il termine zhi, che ricorre più volte in questo brano (conoscere, sapere, agire nel mondo) indica un esperire integralmente, dislocando la vera conoscenza (che passa anche per il linguaggio) attorno e non dentro il soggetto, perché nel Laozi a questo, al soggetto, non è riconosciuto il privilegio di detenere un sapere in senso esclusivo. Più che comprendere oggetti, secondo la tradizione Occidentale, qui si tratta dell'insieme delle relazioni che rendono gli oggetti tali, in un circolo che comprende il soggetto. Il Dao (il mondo nella sua totalità di destini che interagiscono) è esperibile solo perdendosi e abbandonandosi. Il riferimento al “senza muoversi”, indica una forma di comprensione che non dipende né da esperienze cognitive precedenti o da dati empirici; una comprensione che deriva dall'essere connessi al Dao. Per questo il ‘Saggio’ si può estraniare dal governo del mondo secondo una caratteristica linea di non-ingerenza, la quale, proprio per questa profonda immersione (ma originaria) assicura la piena realizzazione delle predisposizioni delle cose stesse. Cose, per così dire, lasciate a sé stesse. L'immobilismo produce contemporaneamente il massimo di armonia. È così che il saggio può ‘nominare’ le cose (v. 8).
Si tratta, peraltro, ancora una volta di un’idea che ha riverberi anche nella recezione occidentale. In particolare, nella riflessione di Heidegger[33]; il quale ad esempio in “La questione della tecnica”[34], nel 1953, distingue tra la techné come poiesis, che porta alla luce delle relazioni, e la tecnologia come gestell che appresta in una sorta di telaio ed è letta come conseguenza necessaria della metafisica occidentale[35]. Questa critica, pur nei suoi limiti, fu accolta da diversi pensatori orientali, in particolare nella Scuola di Tokyo e nella critica taoista della razionalità tecnica. In quest’ultima il gelassenheit (serenità, tranquillità, opposta alla volontà di potenza[36]) heideggeriano viene riletto come wu wei (non-azione)[37]. La trascrizione reciproca di questo pensiero deriva, in entrambi i paesi, dallo sconcerto per gli effetti destabilizzanti e distruttivi della tecnica (in occidente guerra, industrializzazione di massa ed estensione degli effetti anomici del consumo, in oriente le rapide trasformazioni industriali e il loro effetto sulla cultura tradizionale e popolare).
Questa idea ha profonde implicazioni:
- L’universale non è fuori, ma dentro, o meglio: l’universale è presente ovunque, ed è accessibile ovunque, perché ogni cosa è parte della totalità.
- La conoscenza non è accumulazione di dati (episteme), ma riconoscimento di un’armonia pre-esistente. In questo senso, è simile alla aletheia greca (disvelamento), ma priva della tensione tragica dell’Occidente.
- Il movimento verso l’esterno (conquista, viaggio, missione civilizzatrice), tipico della storia occidentale, è qui visto come distorsione, allontanamento dalla comprensione vera.
Dunque, non c’è bisogno di dominare il mondo per comprenderlo, bisogna piuttosto risuonare con esso, e per questo esercitare la “virtù”.
Note
[1] - Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli 1999 (ed.or. 1978).
[2] - Giacomo Gabellini, “Il matrimonio di interessi tra Stati Uniti Cina è saltato”, Krisis, 16 aprile 2025;
[3] - Giacomo Gabellini, “Gli Stati Uniti al contrattacco: riscrivere la globalizzazione per contenere la Cina”, Krisis, 23 aprile 2025.
[4] - Giacomo Gabellini, “Sistema contro sistema: la controffensiva silenziosa della Cina”, Krisis, 30 aprile 2025.
[5] - Accordo di libero scambio, firmato ad Hanoi il 15 novembre 2020 ed entrato in vigore dal 1 gennaio 2022, che include i dieci paesi dell’ASEAN e Cina, Giappone e Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda.
[6] - La condizione nella quale «un contendente dispone della capacità di intensificare un conflitto in modi che risultano particolarmente svantaggiosi o costosi per l’avversario».
[7] - Joseph S. Nye, “Soft Power”, Einaudi, 2005 (ed. or. 2004).
[8] - Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere [1948], Einaudi, Torino 1975 (scritti tra il 1929 e il 1935).
[9] - Antonio Gramsci, “Notarelle sul Machiavelli”, in op.cit.
[10] - Il Partito, questo è essenziale, non assorbe il senso comune, senza sottoporlo a critica e facendosene trasportare, ma lo trasforma, contribuendo, sulla base di un fondo di esistenza, a creare una volontà collettiva che sia parte di una riforma sia intellettuale (nuovi concetti e critica dei concetti esistenti, ridefinizione dell’egemonia ideologica) sia morale (nuovi valori, scale di priorità, metri di giudizio).
[11] - Antonio Gramsci, op. cit., vol. Xiii, p. 1556.
[12] - Ivi, p. 1578.
[13] - Come fece Machiavelli, si tratta di “mostrare come avrebbero dovuto operare le forze storiche per essere efficienti”. Chiaramente per riuscire in questo difficile compito bisogna “impostare esattamente e risolvere” il problema dei rapporti tra struttura e soprastrutture, attraverso una “giusta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo e determinare il loro rapporto”. Per questo occorre distinguere tra i “movimenti organici” e quelli di congiuntura, di minore portata storica. Occorre anche evitare di immaginare che le crisi storiche fondamentali, nelle quali possono darsi diversi rapporti di forza e possono determinarsi opposizioni “politico-militari” efficaci, siano direttamente definite da crisi economiche. Per Gramsci è evidente che non è così, esse possono certo creare condizioni più favorevoli per la diffusione di un certo modo di pensare, o per impostare delle questioni; tuttavia, la cosa dipende sempre dall’insieme dei rapporti sociali di forza.
[14] - Si veda il bellissimo Amitav Ghosh, Fumo e ceneri. Il viaggio di uno scrittore nelle storie nascoste dell’oppio, Einaudi 2025 (ed. or. 2023).
[15] - Un movimento, della Storia, il cui soggetto è l’individuo razionale e quindi libero in Kant o lo Spirito Assoluto in Hegel. Spirito che poi Marx trasfigurerà nel “Capitale” e nella “classe universale” del proletariato.
[16] - Come scrive Chow yin-Ching in La filosofia cinese, (Ghibli 2015) il Tao (o Dao, secondo il sistema di trascrizione) è un principio immanente che non agisce dall’esterno, anima e trasforma gli esseri senza sforzo o scosse. Granet, in Il pensiero cinese (Adelphi 1971) fa notare che sia concepibile più come forza che come essere, la ricerca di una forza latente nei mutamenti delle cose.
[17] - Xi Jimping, “Gli scambi ed il mutuo apprendimento rendono le civiltà più ricche e variopinte”, discorso al quartier generale dell’Unesco, 27 marzo 2014, in Xi Jimping, Governare la Cina, Giunti Editore 2016.
[18] - Dialoghi di Confucio, “Zilu”. Si veda anche Lunyu 13,24, “he er bu tong”, dove “he” indica la corrispondenza tra i suoni, nella quale ognuno esprime pienamente la propria potenzialità articolandosi in perfetta sintonia con gli altri, questa parola implica consenso (gongshi) che tiene tutti in gioco. Esclusione e conflitto sono l’opposto del concetto di ‘armonia’ (una traduzione possibile di “he”) che implica l’impegno di mediazione tra tutte le parti in gioco allo scopo di realizzare una società che incontri il massimo consenso di tutti, dando ascolto anche ad istanze diverse e contraddittorie, senza indulgere né nell’autoritarismo di sceglierne una né nel libertarismo di lasciarle senza armonia. La tensione tra ordine (zhi) e disordine (luan), sia a livello sociale sia individuale e spirituale, è alla radice del perseguimento dell’armonia nella ricerca costante del miglior punto di equilibrio tra le forze in gioco.
[19] - Per una messa in discussione delle premesse antropologiche dell’uomo liberale si può guardare, tra i tantissimi, il testo classico di Michael Sandel “Il liberalismo
e i limiti della giustizia”, Feltrinelli (ed. or. 1982). Nella tradizione contrattualista liberale (Kant), la legge morale deve essere fondata sull’essere fine in sé. Ovvero non nell’essere ancorata a qualche fine o scopo buono per qualcuno di specifico. Solo così diventa possibile una società nella quale “le esigenze di ciascuno siano in armonia con i fini di tutti”. Si tratta di trovare una base antecedente a tutti i fini concreti e particolari. Proprio perché scaturisce da un soggetto che è capace di volontà autonoma, o, come scrive Sandel, un “soggetto che precede i suoi fini”. L’unico modo di essere libero è quello di essere antecedente e indipendente dall’esperienza (sempre particolare). Per Sandel questa concezione in primo luogo è impossibile, ogni volta che si individuano dei diritti e dei valori, come universali, si è inevitabilmente soggetti ad un autoinganno, si tratta infatti sempre di alcuni valori di qualcuno. La relazione storicamente fondata del liberalismo con l’egemonia della forma di vita borghese occidentale, e con l’immediatamente presente colonialismo (con conseguente accumulazione originaria e creazione delle condizioni di esistenza e affermazione del capitalismo), poi tradotto in imperialismo, e sempre in sciovinistica affermazione della presunta superiorità della forma di vita occidentale sulle altre, è parte e movente di questa illusione. D’altra parte, il liberalismo in sostanza non capisce la natura “sociale” dell’uomo. E quindi attribuisce una priorità all’individuo, e quindi ai valori individualisti, che necessariamente determina la neutralizzazione dei più importanti valori di altruismo e benevolenza propri della natura sociale dell’uomo. L’uomo non è, come voleva Hume, un mero e semplice “fascio di percezioni”. D’altra parte, la mossa economizzatrice e parsimoniosa del liberalesimo si fonda sempre sulla ipotesi antropologica (di derivazione Hobbesiana) che gli uomini siano portati verso l’egoismo, che si tiene a freno con l’interesse economico e la conseguente cooperazione di mercato. un’antropologia filosofica che presume una pluralità ed individualità delle persone e per questo necessita di postulare l’Io come “soggetto di possesso” e capace del più radicale “disinteresse reciproco” (p.68). Un soggetto di possesso, individuato antecedentemente e che si trova anche sempre ad una certa distanza dai suoi interessi. Un individuo per il quale “nessun impegno dovrebbe coinvolgermi così profondamente da non potermi riconoscere senza di esso”. Ciò significa che la teoria liberale deontologica non ammette tutti i fini, ma esclude anzi in anticipo qualsiasi fine “la cui adozione o il cui perseguimento possa impegnare o trasformare l’identità dell’io, e respinge in particolare la possibilità che il bene della comunità possa consistere in una dimensione costitutiva di questo genere”. Ciò nega in radice la stessa possibilità di una comunità sociale che sia sopra l’individuo, postulando, per Sandel, un’esistenza separata di ciascuno.
[20] - “Il vero è il tutto. Il tutto, però, è solo l’essenza che si compie mediante il proprio sviluppo”, George Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, Rusconi 1995, p.69
[21] - Nella Prefazione alla Fenomenologia della Spirito, Hegel scrive che “la vera figura nella quale la verità esiste può essere soltanto il pensiero scientifico”.
[22] - Hegel, Fenomenologia, cit., p. 131.
[23] - Nel cosmo di Plotino, un intellettuale egiziano alessandrino vissuto in epoca imperiale e turbolenta, le energie vitali spirituali, reciprocamente contrapposte, partono dall’Uno e si riversano sulle ipostasi dello spirito, dell’anima e della natura, dalle quali poi, invertendosi, rifluiscono. Il movimento del mondo ha natura processuale (una energeia ed una dynamis). Cfr. Jurgen Habermas, Una storia della filosofia, Vol II, Feltrinelli 2024 (ed. or. 2019), p. 73.
[24] - Nel senso di essere il ricettore di influssi e tradizioni di pensiero anche medio-orientali, che gli giungono per via dell’influenza della grande tradizione egiziana, a sua volta intrecciata da millenni con le tradizioni assira e babilonese, poi persiana. Si veda, ad esempio, Martin Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, Il Saggiatore 2011 (ed. or. 1987).
[25] - Cit. in Jurgen Habermas, Una storia della filosofía, Vol I, Feltrinelli 2022 (ed.or. 2019), p. 360.
[26] - Si veda anche l’importante filosofo cinese Zhao Tingyang (赵汀阳), professore all’Accademia cinese delle scienze sociali, celebre per il libro Il sistema Tianxia, del 2005 (The Tianxia System: An Introduction to the Philosophy of a World Institution, Polity, 2021), ed il suo concetto di “governare il mondo come una famiglia” (治天下如一家). Concetto che prevede una nuova architettura globale, anche se centrata sulla tradizione cinese come “luogo di maggiore responsabilità” per la tenuta del mondo (in una espressa critica sia dell’ordine westfaliano, sia della egemonia occidentale).
[27] - Come noto termine della critica di Hegel a Kant, che identifica un continuo spingersi avanti senza mai determinarsi. Ovvero, senza risolversi nel finito, nella vita concreta.
[28] - Si veda, Alessandro Visalli, Classe e partito, Meltemi 2022, p. 128 e seg.
[29] - Il periodo classico è detto anche delle “Centro scuole”, nel quale, secondo la più antica lista di libri del periodo Han (25-220 d.c.) vede nove scuole principali, tra le quali: confucianesimo, taoismo, mohisti, legisti, logici e dialettici.
[30] - Laozi, Daodejing. Il canone della Via e della Virtù, Einaudi, Torino, 2018, p. 127 e seg.
[31] - “Il classico della Via e della Virtù”, è un testo poetico e politico ad un tempo, che viene normalmente letto come critica al potere autoritario, all’interventismo nelle cose del mondo. Predilige il lasciar fare, il valorizzare la debolezza come forza, in echi che alla luce della tradizione Occidentale si direbbero simili ad un Tolstoj, ad elementi anarchici e per certi versi stoici. Si tratta dell’altra grande corrente del pensiero cinese, quasi coeva a quella di Confucio ed a esse opposta.
[32] - Una terza grande scuola politico-filosofica cinese classica è quella del Maestro Mo (Mozi) che enfatizza per la prima volta il rifiuto della tradizione in favore della discussione razionale (bian), la quale, tuttavia, non ha lavorano sull’ordine epistemologico, quanto sul piano pratico e comportamentale. Cfr, Anne Cheng, Storia del pensiero cinese, vol I, Einaudi 2010, p.84.
[33] - E poi, anche tramite questi il pensiero post-moderno di Derrida, Deleuze e Foucault, ma anche, ed ovviamente la cultura della non-violenza in molte sue declinazioni.
[34] - Martin Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia 1991, “La questione delle tecnica”.
[35] - Per Heidegger l’essenza della tecnologia moderna non è a sua volta tecnologica, ma filosofica, nel senso che consiste nell’imporre una trasformazione della relazione tra uomo e mondo per la quale ogni essere è ricondotto ad essere ‘fondo’ o ‘riserva’, ovvero è ridotto ad oggetto che può essere misurato, calcolato e sfruttato. Questa linea di riflessione, che può essere compresa come riferita alla tecnica nella modernità (in quanto la tecnologia è antica come l’uomo, ma questi ha vissuto per quasi tutto il suo tempo in un mondo ‘incantato’ al quale sarebbe temerario proiettare le nostre categorie e comprensioni) è stata pensata come propria dell’Occidente. Conseguenza necessaria della metafisica occidentale.
[36] - Martin Heidegger, L’abbandono, Il melangolo, Genova, 1983
[37] - Yuk Hui, Cosmotecnica. La questione della tecnologia in Cina, Nero 2021
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Certamente! Ecco una breve presentazione, una sintesi analitica, focus e parole chiave (KW) del saggio di Alessandro Visalli.
Presentazione
Il saggio di Alessandro Visalli analizza il confronto tra due forme di universalismo, quello occidentale e quello orientale, con particolare attenzione alla filosofia, alla geopolitica e alle strategie di modernizzazione di Cina e Occidente. La seconda parte si concentra sulla storia delle relazioni tra Stati Uniti e Cina negli ultimi decenni, evidenziando le dinamiche di disaccoppiamento e le strategie di potere. Viene inoltre esplorata la visione cinese della modernità e l’approccio culturale e filosofico che la connota, in contrapposizione alle radici occidentali di progresso e dominio.
Sintesi analitica
Il testo si divide in tre parti: la seconda, oggetto di questa analisi, confronta i due universalismi — occidentale e orientale — evidenziando come la Cina, attraverso la sua filosofia e strategia politica, promuova un “universalismo” basato sulla relazione, l’armonia e il rispetto della diversità, piuttosto che sulla supremazia o il dominio. La riflessione si inserisce nel contesto della competizione geopolitica tra USA e Cina, analizzando come quest’ultima abbia sviluppato un modello di sviluppo “selettivo” e “plurale”, con un forte richiamo alla tradizione del Tianxia, che privilegia l’interdipendenza e la coesistenza senza imposizione di un’unica forma universale. La Cina mira a controllare la propria modernizzazione e a promuovere un progetto di “decolonizzazione dell’immaginario”, contrastando la visione occidentale di progresso lineare e violento, radicata in una filosofia della storia imperiale e coloniale. La differenza tra i due universalismi risiede nella concezione di tempo, soggettività e verità: occidentale, lineare e conflittuale; cinese, circolare, relazionale e armoniosa. L’autore riflette anche sulla possibilità di un universalismo “orizzontale” e non gerarchico, capace di valorizzare le diversità senza imporre un modello unico.
Focus
- Confronto tra universalismo occidentale (basato su progresso, razionalità, dominio e linearità storica) e universalismo cinese (centrato su armonia, relazioni, interdipendenza e pluralismo).
- La geopolitica tra USA e Cina come sfondo di questa contrapposizione, con le strategie di disaccoppiamento e le risposte cinesi alla sfida occidentale.
- La filosofia della storia e le ontologie sottostanti: la visione occidentale come progresso lineare e quella cinese come circolare e relazionale.
- La decolonizzazione dell’immaginario cinese e il ruolo della cultura e filosofia tradizionale nel progetto geopolitico contemporaneo.
- La potenzialità di un universalismo che valorizzi la diversità e favorisca una coesistenza armonica senza gerarchie.
Parole chiave (KW)
- Universalismo Occidentale
- Universalismo Orientale / Tianxia
- Geopolitica Cina-USA
- Disaccoppiamento economico
- Modernizzazione selettiva
- Filosofia della storia
- Interdipendenza / Relazioni
- Decolonizzazione dell’immaginario
- Harmonia / Wu Wei
- Differenza culturale
- Pluralismo
- Culturalità relazionale
- Egemonia / Egemonia cinese
- Resilienza culturale
- Critica all’universalismo imperialista
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Presentazione dettagliata del saggio di Alessandro Visalli
Il saggio di Alessandro Visalli si propone di esplorare il confronto tra due modelli di universalismo, ovvero due visioni del mondo e della storia che si sono sviluppate secondo specifiche tradizioni culturali e filosofiche: l’Occidentale e l’Orientale (in particolare quella cinese). Questa seconda parte del lavoro si inserisce in un’analisi più ampia delle relazioni geopolitiche tra Stati Uniti e Cina, focalizzandosi sulla storia recente, sulle strategie di potere, e sulla differenza tra i due paradigmi culturali e filosofici che guidano le rispettive visioni del mondo.
Contesto storico e geopolitico
Il testo inizia analizzando il lungo processo di disaccoppiamento tra l’economia americana e quella cinese, che si è sviluppato nel corso di circa 50 anni, a partire dalla rottura del sistema di Bretton Woods e dalle crisi degli anni ’70. La globalizzazione, la crescita della Cina come gigante produttore e la sua trasformazione da paese di esportazione a potenza tecnologica sono al centro di questa analisi. La strategia degli USA, culminata con l’ascesa di Trump, mira a isolare la Cina, rafforzare la propria posizione di debitore netto e contenere la crescita cinese, attraverso dazi, restrizioni e politiche di disaccoppiamento economico.
Il lavoro evidenzia come la crisi del modello “Chimerica” (combinazione di capitale e produzione tra USA e Cina) abbia portato a un indebolimento strutturale del tessuto produttivo e sociale americano, che ha spinto verso politiche protezionistiche e di contenimento. La Cina, invece, ha rafforzato la propria domanda interna, ampliato il mercato e sviluppato una visione strategica di lungo periodo, con l’obiettivo di costruire un nuovo ordine internazionale basato sul concetto di “Tianxia” — l’idea di un mondo ordinato attraverso relazioni di armonia e interdipendenza, non di dominio.
Visione cinese della modernità e strategia politica
Il saggio sottolinea come la Cina, sotto la guida di Xi Jinping, si muova verso una “modernizzazione selettiva”: essa cerca di governare il proprio sviluppo in modo autonomo, valorizzando la propria cultura e tradizione filosofica, e opponendosi alle logiche di omologazione occidentali. La “decolonizzazione dell’immaginario” e il progetto di una “Comunità umana dal futuro condiviso” sono strumenti simbolici e politici di questa strategia. La Cina si propone di integrare e armonizzare le proprie tradizioni filosofiche, come il confucianesimo e il taoismo, nel suo modello di sviluppo, promuovendo un approccio relazionale e non egemonico.
Il concetto di “egemonia culturale” si trasforma così in un’egemonia “relazionale”: la Cina mira a preservare la propria specificità e identità, promuovendo una forma di universalismo che non impone, ma integra e dialoga. La sua strategia di “guerra ibrida” mira a creare barriere selettive alla modernità occidentale e a diffondere un modello di relazioni internazionali basato sul rispetto reciproco e sulla cooperazione, piuttosto che sulla dominanza unilaterale.
Confronto tra i due universalismi
Il cuore del lavoro risiede nel confronto tra l’universalismo occidentale, che si è sviluppato a partire dal XVIII secolo e che si basa su un progresso lineare, razionalità, dominio e conquista del mondo, e l’universalismo cinese (Tianxia), che si fonda su un principio di armonia, relazioni di reciprocità e coesistenza delle diversità.
L’universalismo occidentale si caratterizza per una concezione di storia come progresso continuo, con una visione teleologica e gerarchica basata sulla superiorità della ragione e del dominio dell’uomo sulla natura e sugli altri popoli. Questa visione, storicamente, ha giustificato le imprese coloniali, le guerre e l’imperialismo.
In contrasto, il modello cinese considera la storia come un processo circolare, in cui ogni civiltà, cultura e tradizione ha il proprio ritmo e forma di sviluppo, e tutte sono parte di un insieme più grande. La nozione di “tianxia” rappresenta questa idea: un mondo di relazioni di interdipendenza e armonia, senza sovrapposizioni di gerarchie o superiorità. La verità, secondo questa visione, non è un punto di arrivo, ma un processo di equilibrio dinamico tra le parti.
Il pensiero cinese privilegia la transformatione graduale (hua 化), la risonanza (ganying 感應), e la cooperazione rispetto alla lotta e alla conquista. La sua concezione di universale non si basa su un modello unico imposto dall’alto, ma su un dialogo plurale tra civiltà, con un’attenzione particolare alla relazione, all’armonia e al rispetto delle differenze.
Implicazioni filosofiche e culturali
Il saggio approfondisce anche le implicazioni filosofiche di queste differenze. La tradizione occidentale si fonda su una ontologia dell’Uno, del soggetto, e sulla dialettica del conflitto come motore della storia (Hegel, Marx). La filosofia cinese, invece, si basa su una concezione di realtà come rete di relazioni dinamiche, dove il sapere deriva dall’intuizione e dall’armonia con il flusso della vita (Dao, Tian).
Questa differenza si riflette anche nel modo di concepire l’azione politica e culturale: l’Occidente tende a imporre un ordine attraverso la conquista e l’innovazione radicale, mentre la Cina preferisce un’azione “selettiva” e “armoniosa”, che mira a integrare e non a sopprimere le diversità.
Conclusione e prospettive
Il saggio conclude sottolineando che questa contrapposizione tra i due modelli di universalismo non è semplicemente teorica, ma ha profonde ripercussioni sulla geopolitica globale e sul modo in cui le società si rapportano tra loro. La Cina propone un modello di universalismo relazionale e plurale, che potrebbe offrire un’alternativa più sostenibile e rispettosa delle diversità, rispetto alla logica occidentale di dominio e progresso lineare. La sfida consiste nel costruire un mondo in cui le differenze siano valorizzate, e non cancellate, e in cui sia possibile una coesistenza armonica tra culture e civiltà.
Alcune questioni circa la Cina, confronto tra universalismi. Parte terza
di Alessandro Visalli
Scopo del testo e articolazione
Questo articolo è diviso in tre parti, di cui il presente rappresenta la terza. Si tratta di una riflessione che attraversa e mette a confronto due diverse forme di universalismo, riassumibili (pur con le commistioni storiche che si sono date nel tempo) in “Occidentale” e “Orientale”. Prestando la dovuta attenzione al carattere politico e ricostruttivo di queste due etichette affrontare questo nodo richiede valutazioni sulla filosofia della storia, le diverse ontologie sottostanti e antropologie filosofiche, la teoria politica e culturale, la geopolitica e i diversi pensieri critici che nel tempo sono stati prodotti intorno ai due centri tematici, quello marxista e quello decoloniale. Naturalmente sullo sfondo di tutto ciò è da considerare il conflitto ibrido in corso tra i due principali egemoni dei due campi, gli Stati Uniti e la Cina.
L’articolo è stato redatto in vista di un dibattito dal titolo “Pianeta Cina. Appunti per il futuro”, organizzato da L’interferenza, che si terrà a Roma, sabato 17 maggio, a Largo dello Scoutismo 1, e vedrà la presenza in mattinata di Fabrizio Marchi, Vladimiro Giacché, Alessandro Volpi, e nel pomeriggio di Giacomo Rotoli, Carlo Formenti, Andrea Catone e mio.
Nella Prima Parte abbiamo letto nella battaglia di Xi per il “Grande ringiovanimento” della nazione cinese lo sforzo di promuovere nel paese una “modernizzazione selettiva”, nel contesto di un crescente confronto ideologico, culturale, economico e di potenza con l’Occidente e la sua nazione-leader, gli Stati Uniti d’America. Scontro che prende la forma di “guerra ibrida” senza risparmio, che ha come posta la forma che il mondo prenderà in questo secolo.
Si tratta di agire per la conquista del cuore della modernità operando una “decolonizzazione dell’immaginario” che lavori entro quel particolare orizzonte universalista con modalità cinesi rappresentato dalla formula della “Comunità umana dal futuro condiviso”. Dunque, verso l’esterno, per proporre una nuova logica post-coloniale alle relazioni internazionali intorno a progetti strategico-epocali come i Brics e le “vie della seta”. D’altra parte, verso l’interno, per sconfiggere le correnti “liberali” nel Partito e nella società, e, a tal fine, dare una prospettiva diversa della modernizzazione che contrasti il ‘soft power’ Occidentale. Un potere che passa attraverso le sue merci glamour, le immagini e gli stili di vita connessi.
Si potrebbe dire, in base a una illustre tradizione ermeneutica occidentale[1], che passa attraverso la ‘tecnica’. Senza entrare in questo complesso tema, che richiederebbe ben altri approfondimenti, sono qui necessarie alcune glosse: la tecnica non è un’impresa occidentale, la quale arriva quindi dall’esterno alla società e cultura cinese, e non lo è neppure la forma di produzione industriale (che è stata potenziata dentro un ecosistema di enorme potenza in occidente a partire dall’Ottocento, ma aveva antesignani nel mondo orientale e arabo, e nel Rinascimento si è sviluppata da Sud a Nord[2]); non è neppure specificamente connessa con il capitalismo, perché se lo fosse se ne dovrebbe concludere che questo è ubicuo e coincidente con la storia dell’umanità, la parola perderebbe senso; ne consegue che il solo fatto di usare delle tecniche, e ormai si dovrebbe dire essersi portati al confine della maggior parte delle tecniche, non rende di per sé il paese occidentale e capitalista; né le tecniche sono necessariamente incompatibili con le diverse forme dell’umano, rappresentando unica fuga l’arte o la depense[3]. Un interessante tentativo, che esula per la complessità dei temi a questo breve testo, è compiuto da Yuk Hui[4] ed il suo orientamento verso il superamento della tecno-logia universale (che, in effetti, è mera proiezione razzistica dell’Occidente) in diverse ‘cosmotecniche’, che riapproprino le categorie metafisiche proprie di ogni cultura (come vedremo non schermata ed esclusiva) adottando in essa la tecnologia e le sue forme.
Tornando a Xi, in altre parole, la posta in gioco del “Grande ringiovanimento” è di costruire una sorta di barriera selettiva alla modernità occidentale nel quadro di una guerra “ibrida” che segnerà il destino del secolo. Ma si tratta anche di innestare nel corpo del marxismo di matrice occidentale uno spirito ‘confuciano’ che per molti versi gli è profondamente alieno. Interpretare, quindi, lo spirito dialettico-materialista dell’hegelo-marxismo con elementi relazionali ed armonici che sono profondamente alieni alla logica del conflitto.
Nella Seconda Parte abbiamo messo a confronto un abbozzo della logica dell’universalismo ‘verticale’, quindi anche gerarchica, lineare e conflittuale, dell’Occidentale, su cui torneremo più specificamente in questa Terza Parte, e la logica ‘orizzontale’ e relazionale della Tianxia che contraddistingue l’universalismo sui generis cinese. In effetti nella lingua italiana si dovrebbe piuttosto parlare di cosmo, o di spazio della compresenza nella differenza. L’universalità riconduce necessariamente la molteplicità al dominio dell’Uno: sia nella forma cristiana della “via di salvezza” per l’intera umanità, alla quale ogni soggettività è chiamata a conformarsi, sia nella sua secolarizzazione moderna, incarnata nella “ricetta” liberale e progressiva del mondo unico del mercato (o dell’impero delle merci).
L’orizzonte del tianxia riconosce la legittimità di una pluralità non riducibile di tempi incarnati e trasformazioni, soggettività relazionali, dialogo tra mondi, pratiche e civiltà, forme di verità inscritte nei viventi concreti e spinta all’armonia. Non si tratta, quindi, di imporre (o riconoscere) un telos al mondo, quanto far risuonare tra di loro i molteplici ordini fattualmente esistenti e aprire lo spazio per la loro co-esistenza creativa. Al posto dell’aufhebung (che nega, conserva e supera) mette la hua (trasformazione graduale) e il ganying (risonanza). L’universo comanda dall’alto; il cosmo risuona dall’interno. Se vogliamo provare a esplorare i limiti del linguaggio si potrebbe confrontare, non già opporre, a un universalismo dell’Uno, occidentale, un cosmocentrismo della relazione e risonanza, orientale. Due ordini diversi della normatività e della gerarchia, modi diversi di pensare l’unità nella molteplicità.
In questa Terza Parte approfondiremo il confronto tra le concezioni di storia e universalismo proprie dell’Occidente moderno e quelle emergenti da altre tradizioni, tenendo al centro quella cinese e accennando solo, nell’economia di questo testo, ad altre che occorrerà riprendere altrove.
L’universalismo occidentale, forgiato nella sua forma classica nel crogiolo dell’idealismo tedesco e del marxismo (ma anche del liberalesimo anglosassone), si fonda su una filosofia della storia chiaramente escatologica. Il movimento della libertà, e della ragione, si dispiega in modo necessario, cumulativo, e orientato verso un telos finale. Questa concezione, se da un lato, quando è stata presa sul serio ha alimentato lotte emancipative fornendo un punto di vista ideale, dall’altro, e principalmente, ha giustificato pratiche imperialiste e colonizzatrici, proiettando l'Occidente come unico soggetto legittimo della Storia universale. Si è trattato, comunque, di uno strumento per il potere (o il contropotere).
Questa tensione interna tra emancipazione e dominio è una contraddizione reale, ma contiene anche il rischio di saturare ogni alternativa. Ovvero di naturalizzare l’universalismo occidentale come unica forma possibile, impedendo il riconoscimento di altre genealogie storiche e culturali. O, in altre parole, di altre “logiche della liberazione”. Oppure, in altri termini, di altre “cosmotecniche” o “cosmologie”.
È quindi necessario, e lo faremo in questa Parte, esplorare la possibilità di concepire una cosmologia plurale:
- non imposta come modello unico,
- non frammentata in relativismi statici e reciprocamente rivendicativi o schermati,
- ma emergente dal dialogo tra mondi, tempi e soggettività storiche diverse.
In quest’ottica, il pensiero cinese del Tianxia, insieme ad altre tradizioni del Sud globale (andina, africana, islamica), suggerisce modelli di coesistenza e trasformazione che superano la dialettica egemonica della Aufhebung occidentale, senza negare la possibilità stessa di un comune orizzonte di liberazione. La sfida, dunque, non è ripudiare l’universalismo come tale, ma reinventarlo come apertura relazionale, come tensione incompiuta tra differenze, come memoria viva delle lotte e dei mondi negati. Come scoperta e invenzione.
Procederemo in questo modo:
- in una prima sezione espliciteremo ancora una volta le implicazioni dei diversi modelli, in una chiave più esplicitamente geopolitica;
- in una seconda, torneremo sul nodo cruciale, anche per la stabilità interna del progetto di Xi di un ‘marxismo sinizzato’, sul tema della contraddizione tra dominio e liberazione nella modernità Occidentale che rischia di rimanere invischiato nel ‘provvidenzialismo’ della tradizione cristiana, e in elementi di determinismo ed evoluzionismo profondamente connessi con la storia del continente europeo;
- infine, la conclusione la spenderemo nella ricerca di una sorta di via mediana, che si ritrae da ogni astrazione cercando al contempo di riconoscere le diverse traiettorie culturali senza reificarle e quindi si sforza di creare le premesse per disimplicare in esse quelle premesse di libertà e liberazione che sono presenti. Ciò che va compreso ed accettato è che non esistono valori, principi e culture universali, se non per effetto di una decisione, di un’imposizione. Che la creazione di unità e universalità è sempre potere. Un’imposizione in primo luogo, interna, volta a ridurre la pluralità e la storia dei conflitti che sono stati dati. Si tratta, in altre parole, di divenire coscienti della differenza incolmabile, per tutti, tra interpretazione e verità, ma anche della necessità di coltivare la tensione a percorrere il cammino della sua ricerca. Di ricostruire cosmi internamente plurali ma densi di senso. Comprendere, infine, che la ricerca stessa è possibile solo nel decentramento e solo se si coltiva lo stupore curioso per l’apertura all’altro da sé, possibile solo perché anche il sé è un altro. Un altro da scoprire.
Alcune implicazioni nel confronto tra modelli geopolitici
Per iniziare si può ricordare il discorso alla sessione plenaria del Forum economico internazionale di San Pietroburgo[5] nel quale Xi ha sottolineato che un autentico multilateralismo significa “rispettare e sostenere tutti i paesi nell'intraprendere un percorso di sviluppo adatto alle loro condizioni nazionali”. È questa mossa che crea un “ambiente favorevole allo sviluppo” di tutti e aiuta a “costruire un'economia mondiale aperta”. Per farlo il Presidente cinese propone, riecheggiando i toni che Zhou Enlai nel 1955 propose a Bandung[6], di “rafforzare la rappresentanza e la voce dei paesi dei mercati emergenti e dei paesi in via di sviluppo nella governance economica mondiale” (ovvero sostituire al G7 un modello di cooperazione alternativo) e promuovere “equilibrio, sviluppo coordinato e inclusivo”. Il concetto di “sviluppo coordinato” (促进全球平衡) è uno dei due concetti chiave (in quanto dal contesto si comprende trattarsi di sviluppo orizzontale e sul piano di complementarità ed equilibrio). Quindi si tratta, concretamente, di rafforzare la cooperazione Nord-Sud, e Sud-Sud, mettere in comune le risorse in cooperazione, garantire reti e piattaforme per lo sviluppo, aumentare l'assistenza allo sviluppo, formare sinergie e colmare i divari. In terzo luogo, promuovere la globalizzazione economica (推动经济全球化进程), ma attraverso la “connessione morbida” (l'altro concetto-chiave, Ruǎn lián 软 联) delle politiche di sviluppo; quindi la condivisione di regole e standard internazionali (lo strumento principe del dominio occidentale, grazie al fermo controllo degli organismi di standardizzazione); l’abbandono del disaccoppiamento, dei tagli all'offerta, delle sanzioni unilaterali, le barriere e pressioni; per mantenere la stabilità delle catene industriali (la cui interruzione provoca una crescente inflazione in occidente), e lavorare insieme per la crisi alimentare ed energetica. Infine, per aderire all'innovazione guidata, sfruttare il potenziale dell'innovazione e della crescita, approfondire gli scambi scientifici, condividere i risultati.
La Cina, ha concluso Xi, è disposta su queste basi a collaborare con i paesi di tutto il mondo, inclusa la Russia e gli Usa, per creare insieme prospettive di sviluppo, condividere opportunità di crescita e dare contributi all'approfondimento della cooperazione allo sviluppo globale e alla promozione di quella che chiama “una comunità con un futuro condiviso per l'umanità”. Attraverso questi toni la Cina, ma in linea con una lunga tradizione del ‘paese di mezzo’ (chung-kuo), cerca di qualificarsi come centro immobile del mondo, come difensore e costruttore dell’ordine internazionale (concepito implicitamente nella forma della relazione con il ‘cielo’). Per essa aderire al multilateralismo significa mantenere una “stabilità strategica globale”, e fornire attivamente beni pubblici internazionali[7].
Ciò che rende per noi difficile comprendere questo modo di dire, e ce lo fa interpretare come semplice inautenticità e retorica vuota, è, come abbiamo visto nella Prima e Seconda parte, la forma di universalismo astratto che è profondamente connotata nella nostra tradizione (o in alcune nostre tradizioni, se non in tutte). Come abbiamo invece visto la civiltà cinese è universalista in altro modo, e lo rivendica anche in chiave di progetto politico. È il Tianxia (la “via del cielo” o il “tutti sotto il cielo”) che connota più profondamente lo spirito del pensiero filosofico, religioso e geopolitico cinese. La formula “futuro condiviso per l’intera umanità” non è altro che questo segno. Non si tratta di una “finalità”, quanto di un orientarsi “nella direzione della luce” (Ér guāngmíng suǒ xiàng); di dirigersi verso la propensione della situazione che produce, se accolta, un “vantaggio” (li). Ma bisogna notare che per un cinese, essendo derivante dalla situazione, e non da un piano, il “li” è sempre morale ed è sempre per tutti. La questione è di individuare, scoprire, nella situazione i fattori favorevoli e farli crescere, adattandosi a essi e adattandoli a un tempo. Ovviamente, far crescere i fattori favorevoli e far decrescere, o disattivare, quelli favorevoli all’avversario. Si tratta, in altre parole, di fare in modo che l’avversario sia trascinato, senza azione, dalla situazione stessa, progressivamente e inavvertitamente nella destrutturazione. In modo che perda il proprio potenziale. Non combattere è la regola fondamentale della Grande Strategia cinese. O meglio “non agire” (wu wei), tuttavia, e allo stesso tempo, in modo che alla fine “niente non sia fatto” (er wu bu wei). I cinesi, quindi, non combatteranno mai per dominare il mondo (se non costretti), lasceranno che tutto, per la sua propensione, si trasformi (hua)[8].
Questo consente di comprendere in modo più profondo il concetto cinese di comunità dal destino condiviso dell’umanità (人类命运共同体), spesso frainteso in Occidente come mero slogan.
L’idea è semplicissima, e sta avvenendo davanti ai nostri occhi. Senza agire davvero, al più difendendosi (che la lezione delle Guerre dell’Oppio è ben ricordata), questa strategia fa perdere contegno all’Occidente. Se alla fine la Cina non si vedrà agire, se sembrerà del tutto immobile, la perfezione sarà stata raggiunta. Perfezione che ha a che fare con il concetto di “cielo”; una alternanza regolata che si rinnova sempre senza esaurirsi mai. L’opposto, in un certo senso, della nozione assolutamente occidentale di ‘progresso’.
Ovviamente, questa posizione non è priva di tensioni interne e di scarti, e non esclude che possano esserci momenti di azione diretta, anche di grande momento. Così come non esclude che l’armonia alla fine sia disegnata per forza delle cose e della dinamica sul modello cinese, o da questo fortemente influenzata. È una delle possibili declinazioni del concetto di Tianxia. Se tutto deve orientarsi a un ‘cosmo’ comune, questo può ben avere al centro l’equilibrio cinese.
Le tradizioni critiche e l’universalismo occidentale
Dopo aver prestato attenzione al contesto geopolitico si può tornare ai nodi profondi che sono implicati. A tal fine è forse utile fare un passo indietro e farsi carico della classica obiezione marxista occidentale per la quale l’eurocentrismo, o l’Occidentalismo, non è solo ideologia o cultura quanto un processo contraddittorio ma ascendente. Da una parte è dominio e sfruttamento legato all’affermazione del modo di produzione capitalistico, ma al contempo esso, secondo una classica mossa hegelo-marxiana, in quanto in sé contraddittorio produce sia dominio sia liberazione. Nel senso che la sua dialettica interna contiene lo sfruttamento, ma anche la razionalizzazione; quindi, con essa, il potenziamento delle forze produttive, il sapere scientifico e tecnico, e, quel che più conta, la potenziale eguaglianza formale. Eguaglianza che si può rivoltare in dignità e riconoscimento umano o essere tradita (il ‘freddo calcolo’ di Marx, o dei due suoi interpreti primo novecenteschi Werner Sombart[9] e Max Weber[10]). In questo snodo teorico-politico normalmente la ricostruzione storica (o meglio, la lettura storica alla luce di una teoria) precipita immediatamente, per effetto della coppia organizzatrice cruciale emancipazione/reazione, in un interdetto politico: secondo questa lettura, essere contro il dono dell’Occidente non è semplicemente insensato, è reazionario.
Messo in questi termini siamo di fronte allo snodo teorico fondativo del dominio occidentale, e delle sue giustificazioni anche critiche. Inoltre, e al contempo, a un elemento solido, non privo di riscontri difendibili. Un elemento da interrogare sulla base di questo quesito: la contraddizione tra sfruttamento ed emancipazione è espressione di un contenuto dialettico la cui dinamica procede da sé, per sua stessa natura, o non rappresenta, piuttosto, solo un potenziale che può, o meno, essere attivato dalle lotte? Ovvero reso effettivo dalla volontà, dagli eventi. Un’azione che si dà in un progetto, ma non discende necessariamente da una dynamis?
Il rischio intrinseco, infatti, a questa grande mossa hegeliana e poi marxiana, perfettamente comprensibile nel suo contesto, è di affidare il futuro alla ‘provvidenza’ laica dei destini progressivi della tecnica (nel senso di incorporati in essa)[11]. Ovvero in un solo blocco, del capitalismo e della classe che questo suscita e incuba. La mossa di stabilire il Vero e Falso in sé, o il Giusto e l’Ingiusto, riconducendoli a una totalità che dispone di leggi immanenti nel divenire, rischia sempre di scivolare inavvertita (soprattutto quando estrapolata dal contesto della lotta vissuta biograficamente da Marx che si svolse nella dialettica concretissima delle formazioni che si agitavano alla metà dell’Ottocento, tra giacobini tramontanti, liberali, fabiani, anarchici, mazziniani e più oltre[12]) nel determinismo ed evoluzionismo. Labriola[13] ricordava che per attivare il potenziale della formazione e trasformazione della società servono condizioni specifiche e contemporaneamente è indispensabile la forza di intenderle, queste condizioni, come mutabili. “Potenziale” è, insomma, sia potentia[14] sia possibilità, quindi evento.
Qui, in genere, nella tradizione marxista viene introdotta una distinzione tra la forma storica e la forma sociale. Per cui il capitalismo, l’Occidentalismo (e persino il colonialismo), avrebbero una forma sociale di oppressione e sfruttamento, da condannare e combattere, e, allo stesso momento, un contenuto materiale, o storico, nel quale è dialetticamente connaturato un potenziale di eguaglianza e lo scatenamento delle forze produttive. Secondo l’accusa standard, senza considerare questa distinzione hegeliana, si rischia di scivolare semplicemente nella riattivazione di contenuti trasmessi dalla tradizione romantica o dalle forme di nazionalismo più reattive che non mancano anche nelle lotte di liberazione anticoloniale più generose (o nelle forme più idiosincratiche delle “politiche dell’identità”[15]). Non è irragionevole, lo stesso Dipesh Chakrabarty, nel suo importante Provincializzare l’Europa[16] ha questa preoccupazione al suo centro. Quindi si può cadere in forme di anticapitalismo romantico (che hanno antesignani nel pensiero aristocratico Sette-Ottocentesco, ma si impongono anche nel Novecento e tracimano fino a oggi), varie versioni di ‘primitivismo’ (particolarmente attive nei margini dei movimenti metà-Novecenteschi della cosiddetta ‘controcultura’, e anche questi tracimati in forma irriconoscibile fino ad oggi), o di ‘terzomondismo’ (che muove dagli anni della seconda metà del Novecento, e si sviluppa in forma di rivendicazione di un non ben chiaro ‘altro’ dal capitalismo[17]).
È proprio a partire da questa tensione che si apre lo spazio per una comparazione tra universalismi storici, e per un’interrogazione delle forme della storia che essi presuppongono. Mentre, in estrema sintesi, la dialettica hegelo-marxista immagina una totalità che si realizza attraverso la contraddizione e il superamento (Aufhebung)[18], altre tradizioni – per esempio, come abbiamo visto, quella confuciana o quella taoista – vedono la storia piuttosto come una trasformazione graduale, non lineare, armonica, spesso invisibile, in cui la forza non si manifesta nella rottura, ma nella capacità di adattarsi alla propensione delle cose. Allo stesso modo, il pensiero andino[19], o le filosofie africane[20] della relazione, propongono immagini del tempo e del cambiamento che non presuppongono un fine universale, ma una coesistenza plurale di direzioni e soggettività. Tutte queste cosmologie rappresentano anche modelli alternativi di pensare la liberazione. In questo senso, si potrebbe dire che la questione dell’universalismo non si risolve opponendogli il relativismo, ma cercando di articolare un “universalismo dal basso”, o dalla periferia; delle cosmotecniche o discorsi sui diversi orizzonti cosmologici che emergano concretamente, insieme all’attivazione di soggettività suscitate nei conflitti e nei dialoghi, da esperienze storiche, culturali e spirituali diverse. Esperienze capaci di riconoscersi in un orizzonte di liberazione, ma senza fondarsi su un unico modello di razionalità o di storia già dato[21]. Un orizzonte che non può essere anticipato in una teoria, o una dottrina.
A questa visione può essere opposta un’altra possibile interpretazione per la quale non si è “eurocentrici”, se, pur ritendo che i valori europei siano di fatto universali si accetta che la cultura fiorita nel sette-ottocento in Europa non sia legittimata per questo solo fatto a dominare e opprimere. I valori ‘scoperti’ per la prima volta in Europa sono, quindi, da difendere verso il particolare e il molteplice erga omnes in quanto portatori (anche) di emancipazione sul piano, per così dire, oggettivo (o universale). Oppure se si ammette che il capitalismo possa e debba piegare tutto il mondo alla sua valorizzazione perché più efficace nella valorizzazione delle forze produttive (se mai fosse vero). Chi non fosse del medesimo avviso avrebbe, allora, la colpa di coltivare un “multiculturalismo astratto”. In sostanza quella di fuggire dal conflitto e dalla necessità di mettere a confronto le diverse prospettive di “libertà”. Ovvero di promuovere una forma di dottrina filosofica che può essere il “cavallo di troia” nel quale può passare un “regresso” culturale, travestito da anticapitalismo. Secondo questa influente ipotesi l’equazione da contrastare sarebbe lo schiacciamento di ‘capitalismo’ in ‘universalismo’ e quindi ‘progressismo’ i quali, tutti, si rovesciano inevitabilmente in ‘imperialismo’.
Una versione sofisticata e interessante di questa tesi si potrebbe attribuire all’ultimo Domenico Losurdo in La questione comunista[22]. In quello che doveva essere il secondo volume di una trilogia (il primo, Il marxismo occidentale[23], era uscito nel 2017 e il terzo, mai scritto, doveva trattare del comunismo cinese[24]) il nostro sostiene che l’impresa comunista può essere rivitalizzata solo se ha pieno rispetto del ‘movimento reale’ e impara a muoversi nel ‘conflitto delle libertà’. Dunque, se impara a non avere timore della necessità di gestire il potere, e quindi il conflitto. L’ultimo lavoro di Losurdo è costantemente diretto a combattere la duplice tenaglia che neutralizza il potenziale di liberazione della tradizione marxista occidentale: una tenaglia data dalla socialdemocrazia e dal radicalismo messianico come forme, entrambe, della fuga dal conflitto. Il punto è che nel ‘groviglio’ che fattualmente si dà nella realtà sociale si è spesso costretti a scegliere tra diverse libertà.
Ora, secondo la visione di Losurdo, a ben vedere capitalismo e imperialismo sono connessi intimamente, ma non così universalismo e progressismo. In altre parole, la cultura progressista e universalista non sarebbe connessa necessariamente con lo sfruttamento capitalista, ma rappresenterebbe piuttosto la sua contraddizione dialettica; al contempo contenuta e superante nel movimento delle lotte storiche. Per cui anche l’atteggiamento anti-universalista, in linea generale (di nuovo per l’incomprensione della sua relazione di contraddizione dialettica con il moderno capitalismo), porterebbe alla fine, e necessariamente, a esiti “reazionari”. Finendo, ad esempio, di valorizzare l’autogoverno comunitario, una delle “libertà”, contro le rivendicazioni individuali, le altre “libertà”.
Non sono di questo parere, ritengo che questo interdetto, anche in questa forma attenuata che contiene molte ottime ragioni, sia, a ben vedere, profondamente incorporato nella cultura che condividiamo in quanto figli della tradizione escatologica e messianica giudaico-cristiana. Questa cosmotecnica che si pensa universale, con le sue stringenti camicie di nesso (originate dall’esistenza di un unico Dio, da un’unica storia della salvezza, e dalla fratellanza umana sotto un unico Padre), è indissolubilmente intrecciata alla nozione di progresso/salvezza. Una nozione laicizzata nel corso dell’Ottocento in sviluppo delle forze produttive e dell’impresa razionale tecnico-scientifica. Di qui l’horror vacui che questa struttura nativa e culturale produce davanti a nozioni come “multiculturalismo” e “relativismo” (in tutte le sue versioni). Questo orrore, causato dalla preminenza della nostra forma di vita e delle logiche che porta con sé, ha un’enorme forza di oscuramento delle alternative. Dove queste non ci sono si deve affermare l’Uno.
In sostanza, questa interpretazione, anche la sua forma apparentemente così educata e domesticata, individua nel nesso sviluppo tecnico/modernità/capitalismo una posizione centrale e decisiva. L’impresa tecnico-scientifica, nel momento in cui dissolve il mondo tradizionale e le sue cosmotecniche, è intrinseca nell’affermazione del capitalismo come destino e coincide in effetti con la modernità. Tutte queste sono caratteristiche che si sono date in Occidente e rappresentano quindi il suo lascito al mondo. La cosmotecnica Occidentale è dunque universale. Questa interpretazione, in effetti affermatasi nel tardo Ottocento europeo si identifica nell’impresa della modernità e nell’affermazione della sua forma universale, grazie all’intenzionale dimenticanza delle origini plurime e cooperative, e ai prestiti, della impresa tecnico-scientifica moderna, e, d’altra parte, anche tutte le tradizioni razionaliste presenti nelle altre culture (in quella araba, intanto, e poi anche in quella indiana). Si tratta di una complessa costruzione: la tecnica viene vista come esito della razionalizzazione e disincanto del mondo; la modernizzazione come esito della secolarizzazione e dell’illuminismo, insieme all’urbanizzazione e all’industrializzazione, con il correlato della crescita della borghesia e quindi dell’individualizzazione; il capitalismo come esito ultimo della razionale valutazione di mezzi e fini e dell’orientamento alla massimizzazione. Nessuna di queste caratteristiche, se pure hanno visto un’accelerazione che ha prodotto dirompenti effetti di potenza nell’Ottocento, sono uniche ed esclusive dell’Europa[25].
Ad esempio, in Orizzonti, libro recente di James Poskett[26], viene raccontato il contributo della medicina azteca, della scienza islamica, del rinascimento ottomano, dell’astronomia africana o cinese, e indiana, dei navigatori del pacifico, delle relazioni di Newton con gli scienziati russi, dei naturalisti occidentali con quelli Tokugawa, del dawinismo Meiji o Qing, dell’ingegneria ottomana e della fisica giapponese, dei viaggi di Einstein in Cina e delle genetiche indiane, russe. Sono state oscurate le tavole di al-Tusi e al-Battani, cui l’astronomia copernicana deve molto, la medicina di Avicenna[27] (Ibn Sina), gli studi di Ibn al-Haytham e le sue relazioni con fisica e ottica moderne, le tecniche polinesiane di navigazione e tante altre.
La scienza moderna coltiva, in effetti soprattutto a partire dall’Ottocento, il mito di essere stata inventata da poche menti e tutte europee in un periodo che va dal 1500 al 1700. Al contrario, Copernico riprese procedimenti matematici che individuò in testi arabi e persiani, mentre astronomi ottomani percorrevano l’Europa per scambiare visioni e teorie. D’altra parte, la scienza occidentale era anche debitrice della tradizione ellenistica, III secolo a.C., cosiddetta “Alessandrina”[28]. Ad Alessandria studiò anche Archimede come Eratostene. Crisippo invece ad Atene, mentre bisogna ricordare anche Filone di Bisanzio, Apollonio di Perga e Ipparco di Nicea del secolo successivo[29]. Tutto questo fervore terminò con la conquista romana[30], anche se tracce si registrarono fino al tardo impero e alla vittoria del cristianesimo. Si trattava di scienza, perché non riguardava oggetti concreti ma enti teorici specifici, e aveva struttura rigorosamente deduttiva, si applicava con regole di corrispondenza. Questa struttura non era presente nella tradizione filosofica classica (Platone e Aristotele), ma si addensò solo a partire dalla conquista macedone della Persia e dell’Egitto. Questa è la tesi di Russo, in quanto al momento della conquista macedone la civiltà greca venne intimamente in contatto con la superiorità tecnica delle ben più antiche civiltà mesopotamica ed egiziana. D’altra parte, non era una cosa completamente nuova. Le civiltà più antiche erano state in costante contatto con la civilizzazione greca[31], ma quando i macedoni dovettero gestire economie e tecnologie enormemente più complesse, con metodi gestionali e di analisi razionale in parte propri, comparve una nuova capacità di connessione tra il livello astratto delle teorie e l’azione concreta.
La ripresa della prospettiva scientifica, in un nuovo e più potente contesto e sotto motivazioni molto più forti (negli anni in cui l’Europa si allargò al mondo, ed ebbe bisogno di mettere a frutto il dominio che si presentava e via via consolidava) avvenne poi nei ‘rinascimenti’[32] anche come riscoperta, spesso tramite manoscritti arabi, dell’ottica, delle maree e gravitazioni, delle cosmologie, etc. ellenistiche[33].
Insomma, la cultura è sempre stata trasmissione e contaminazione, ed è sempre stata connessa con contesti e obiettivi, condizioni materiali e possibilità. Negarlo è uno specifico dispositivo di potere, che si affaccia ogni volta si viene sfidati. I cosiddetti “valori europei” sono, essi stessi, opera del mondo[34]. L’Occidente ha invece voluto, dal XIX secolo, che razionalità e quindi progresso fossero suoi monopoli, se mai esito ultimo del “miracolo” greco; ha preteso che le altre culture fossero statiche o irrazionali; dichiarato la modernità come prodotto esclusivamente europeo e frutto autonomo delle sue invenzioni tecnico-scientifiche. In alcune versioni prodotto del capitalismo stesso. Tuttavia, le più recenti storie delle tecniche e della loro diffusione evidenziano come l’impresa tecnica e scientifica non sia affatto appannaggio dell’Occidente europeo, né la forma di fabbrica. Come riporta Goody, nel 1175 più di mille operai lavorano nella fabbrica di Hangzhou in Cina, spesso altre migliaia nei mulini per la carta nello Jiangxi, e l’importazione di questa carta prodotta industrialmente a basso costo fa del mondo arabo il luogo di maggiore cultura dell’epoca prerinascimentale e rinascimentale[35]. In Occidente questa tecnica arriva a Fabriano nel 1268 e in Francia nel 1348, in Inghilterra solo nel 1495. Ma non è solo carta, la seta, lacca, la ceramica, il bronzo, sono tutti prodotti in fabbriche che vedono divisione del lavoro, controllo qualità, organizzazione del personale, standardizzazione che in Occidente saranno importati (a volte con vere e proprie operazioni di spionaggio, come per il filatoio a telaio a pedale importato dalla Cina a Bologna nel 1500, o come le descrizioni di padre d’Entrecolles che vengono tradotte da Wellgwood nella fabbrica dello Staffordshire del 1769).
Peraltro, anche nel principale monumento del pensiero occidentale moderno, l’idealismo tedesco, non mancano le influenze cinesi (come nell’illuminismo francese). Ad esempio, l’ultimo grande filosofo della tradizione rinascimentale, a cavallo con la modernità, Leibniz era un grandissimo ammiratore della civiltà cinese e intrattenne rapporti con i gesuiti missionari in Cina (come Bouvet[36]), molto sensibili al confucianesimo. La inquadrava in effetti come un modello di saggezza pratica e quindi dimostrazione della possibilità di una razionalità etica naturale[37]. Quindi Kant, come diversi illuministi anche critici (Voltaire, Rousseau, Montesquieu) considerava i cinesi un esempio di civiltà stabile, fondata sul senso morale, ma anche una civiltà “ferma”. La sua idea, secondo la quale l’ordine morale deve basarsi su una ragione pratica universale (e non un’autorità esterna al soggetto individuale), può avere qualche assonanza con il Tianxia, se pure in diverso contesto. Ancora Hegel descrive ampiamente la civiltà cinese nella sua Filosofia della storia[38], ma propone l’argomento per il quale questa non ha sviluppato una libertà individuale realmente piena, pur avendo un ordine morale naturale profondamente unificante. Per individuare possibili influenze, la caratterizzazione dello Stato potrebbe risentire della concezione del mandato dal Cielo (天命), ma anche la stessa idea dello sviluppo dinamico, sia pure conflittuale, dell’equilibrio può avere una assonanza (ma in qualche modo anche opposizione[39], come abbiamo visto) con il Tianxia.
Conclusione, contaminazioni
Per trarre una linea da questo complesso di problemi che abbiamo dispiegato ci si può riferire al significativo ed interessante dibattito scaturito dall’esperienza delle lotte anticoloniali e delle successive esperienze statuali, con i relativi fallimenti e delusioni; un dibattito che, attraversato correttamente, ci aiuti a ragionare sottraendoci sia alla reificazione identitaria, sia al provvidenzialismo occidentale[40]. Molta critica è stata semplicemente volta a comprendere gli effetti culturali della colonizzazione, o della influenza imperiale ai diversi livelli dell’Occidente sul resto del mondo. Ma lo ha per lo più fatto in termini di critica letteraria (ad esempio le interessanti opere di Said) o, spesso, rifugiandosi nell’accademia. L’approccio più utile è quello che mette a confronto la pretesa occidentale di vedersi come universale, e autorizzata a fare del mondo la propria immagine, con la storia della reazione, altamente differenziata, a questa pretesa. Quindi la storia della denuncia cinese del ‘secolo dell’umiliazione’ e dei successivi “movimenti di autorafforzamento” (di cui la stessa rivoluzione è parte), della rivendicazione della ‘negritudine’, pur nel suo rischioso essenzialismo, del marxismo alla Mariategui, delle epistemologie del Sud di De Sousa, della battaglia di Fanon[41] e Césaire[42], e via dicendo. Il punto centrale è che le ‘tradizioni’ e le ‘forme di vita’ cambiano sempre e che costantemente si ibridano e contaminano; è dunque del tutto errato considerarle astrattamente come compatte unità. Ad esempio, in Iran, e più in generale nel mondo arabo, si può registrare, parlando con le persone, come il vasto mondo culturale persiano sia da sempre attraversato da secolari conflitti tra modernisti/tradizionalisti, religiosi/laici, molteplici forme religiose (ci sono in pratica tutte le religioni note, con minoranze anche di milioni di persone) e grandi differenze regionali; tutto è sempre in evoluzione, anche per vie interne. Ma se le cose cambiano non lo fanno necessariamente perché qualcuno porta “buone e ragionevoli argomentazioni”. Forse di più perché porta buoni esempi, o perché nella dialettica interna il potenziamento di relazioni ben riuscite induce la prevalenza di tendenze già esistenti. Tendenze le cui radici e premesse sono contenute nella pluralità interna custodita in ogni “tradizione”. Al contempo,
In questo processo di trasformazione e traduzione, contaminazione e identificazione (nel quale l’ego si definisce sempre a fronte dell’altro e sempre contenendolo), si definiscono anche le “libertà” che reciprocamente si riconoscono i soggetti e i relativi “diritti”. Insomma, secondo una lettura della stessa posizione di Losurdo, prima citato, nel contesto della sua traiettoria, “libertà” e “diritti” sono costituiti nel conflitto e nel confronto, dalla scelta, e dal processo, e non prodotti prima e fuori in un “catalogo” posto una volta per tutte. Sono un prodotto delle cosmologie e non dell’universalismo astratto.
Si tratta di una mossa simile a quella che compie l’ultimo Thomas Khun in L’incommensurabilità nella scienza[43], nel momento in cui rinuncia alla necessità di un fondamento neutro, slegato dalla cultura entro la quale si dà l’enunciato. Secondo la sua proposta, per convalidare il contenuto conoscitivo sarà sufficiente un fondamento localizzato, purché sia possibile in via di principio, trasferirlo. Ovvero trasferire insieme il significato e le cose o situazioni che lo rendono pertinente, nel corso di un processo[44]. Trasferire significato è, a sua volta, parte di un processo di socializzazione o ri-socializzazione. In altre parole, significati e soggetti si formano insieme. Secondo un processo di traduzione che prevede necessariamente: perdita di informazione; aggiunta di nuove informazioni o distorsione di altre presenti.
Per Khun, tuttavia, sapere che le traduzioni sono sempre imperfette, non deve portare a scivolare verso l’assolutizzazione dell’intraducibilità o incommensurabilità. Pretendere, infatti, di avere un’identità pienamente scelta, formata e indiscutibile dall’esterno, un’identità che basta a sé stessa ed è impermeabile a chi non vi appartenga (ovvero non abbia fatto le medesime esperienze e sofferto i medesimi lutti), è la strada perché solo la forza si esprima. Incidentalmente questo non vale solo per le nazioni o le “culture” (la cui lotta sarebbe l’unica verità), ma anche per le sub-culture che si schermano per affermarsi/difendersi (delle quali la ‘guerra civile’ occidentale è piena, si pensi ai ‘gender studies’, a diverse forme di ambientalismo o femminismo radicali, oggi anche ai traumatizzati da questa o quella crisi di cui è piena la storia recente).
Ogni totalità è, in definitiva, attraversata dalla pluralità e queste dalle proprie contraddizioni; in esse ci sono, al contempo e sempre, delle potenzialità che possono essere riscattate. Questa formulazione è in linea con la migliore tradizione hegelo-marxiana, ma occorre renderla più modesta. Espungendo la tentazione di trarne una teleologia che trovi forma in una filosofia della storia decisa anticipatamente. Bisogna quindi piuttosto, dall’interno e dall’esterno, compiere la mossa di disimplicare le premesse di libertà e liberazione incorporate nelle diverse traiettorie culturali, o suscitabili in esse; fare lo sforzo rimemorarle e sollecitarle. E fare ciò senza esercitare il ruolo del maestro che indica una soluzione che possiede una volta e per tutte, una soluzione astratta e oltre la storia. Ma direi di più, occorre ritrarsi da ogni astrazione data (il che non significa da ogni teoria, o discorso), sapendo che il proprio di ogni cultura è quello di non essere identica a sé stessa (perché la sua stessa nozione è il risultato di una lotta provvisoriamente vinta, di un’egemonia e delle sue necessarie astrazioni). Se questo è vero, essa stessa al suo meglio non si può dare senza l’altro da sé; senza specchiarsi in esso. Questa apertura all’altro da sé è, d’altra parte possibile perché il proprio sé, e quello con cui ci si specchia, sono entrambi rimandi di riflessi di ‘altro’[45].
Non esistono, in altre parole, valori, principi e culture universali, se non per effetto di una decisione, di un’imposizione. In primo luogo, interna, volta a ridurre la pluralità e la storia dei conflitti che sono stati dati. Che serve a far tacere il suono dei morti. Che serve a ridurre le diverse cosmotecniche e cosmologie al silenzio. Bisognerebbe allora con una sola mossa, doppia, dimenticare l’universalismo ma non la tensione all’apertura, all’allargamento del cosmo in modo che diventi comune.
Mettere a confronto l’universalismo occidentale, e la sua pretesa di centralità imperiale, e la spinta cinese alla “Comunità umana dal futuro condiviso”, significa attraversare le dinamiche del moderno che suscitano e riattivano potenzialità silenti, sfidano le cosmologie stratificate e plurali di cui è pieno il mondo, individuano e dissolvono soggettività, creano nuove relazioni, dialoghi e pratiche, creano nuove verità e mettono alla prova la tianxia e l’aufhebung. Si tratta di conservare/superare negando, o di risuonare e trasformare? Come raggiungere l’unità nella molteplicità, e l’armonia senza ridurre all’Uno?
Senza naturalizzare l’universalismo e chiudere alle altre cosmotecniche, alle “logiche della liberazione” e genealogie storiche e culturali. Aprendolo alla tensione incompiuta tra differenze, memoria viva delle lotte e dei mondi negati, scoperta e invenzione.
Capire che le modernità sono molte, non sono il lascito dell’Occidente come non sono la conquista dell’Oriente, restare coscienti della differenza incolmabile, e per tutti, tra interpretazione e verità, ma, al contempo, della necessità di coltivarne la tensione a percorrere il cammino della sua ricerca. Comprendere, infine, che la ricerca è possibile solo nel decentramento e solo se si coltiva lo stupore curioso per l’apertura all’altro da sé, possibile solo perché anche il sé è un altro.
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