Libertà di parola di Biuso (Abstract, Libro Ždanov, Recensione (con ABS)
Libertà di parola
di Alberto Giovanni Biuso
Ho ricevuto da Davide Amato, giovane lettore di Ždanov, una lettera di apprezzamento e condivisione. Tranne su un punto.
«Devo dire che su un aspetto non sono concorde: sulla sua difesa, mi sembra un po’ astratta, del concetto di libertà. Io non ritengo ad esempio che il politicamente corretto vada osteggiato in quanto è una forma di censura, ma lo critico perché è una forma di censura al servizio delle classi dominanti. Non le nascondo che se al potere vi fosse un partito anticapitalista non avrei nessuna esitazione ad appoggiare la censura (se necessario) di idee e opinioni appartenenti alle ideologie da lei criticate nel testo».
A tali e ad altre analoghe affermazioni ho risposto in questo modo:
La libertà della quale parla Ždanov non è naturalmente la libertà di rubare, di delinquere, di sfruttare i lavoratori, di estendere con gli strumenti del denaro il dominio del capitale. Non è questa libertà che difendo. Essa è invece la libertà di pensiero, espressione e parola. La libertà riassunta nell’epigrafe tratta dal Trattato teologico-politico: ‘In una libera Repubblica è lecito a chiunque di pensare quello che vuole e di dire quello che pensa’.
E che questa libertà sia il contenuto del libro vorrei mostrarlo nel modo più semplice.
Lei scrive che ritiene
-giusto togliere la libertà di pensiero e di parola allo scopo di «servire gli interessi di chi produce valore nella società».
Altri scrivono e pensano che sia:
-giusto togliere la libertà di pensiero e di parola allo scopo di «difendere la verità rivelata da Dio e dunque evitare che le anime vadano all’inferno»;
-giusto togliere la libertà di pensiero e di parola allo scopo di «difendere la scienza ed evitare che le persone contraggano il Covid»;
-giusto togliere la libertà di pensiero e di parola allo scopo di «evitare il ritorno del fascismo»;
-giusto togliere la libertà di pensiero e di parola allo scopo di «evitare il ritorno del comunismo»;
-giusto togliere la libertà di pensiero e di parola allo scopo di «evitare il ritorno dell’antisemitismo»;
-giusto togliere la libertà di pensiero e di parola allo scopo di «garantire l’esistenza di una società inclusiva e dei diritti dei migranti»;
-giusto togliere la libertà di pensiero e di parola allo scopo di «portare la civiltà ai selvaggi»;
-giusto togliere la libertà di pensiero e di parola allo scopo di «garantire il diritto delle persone LGBTQ+»;
e così via e così via nel lungo rosario della giustificazione dell’oppressione, delle giustificazioni di chi da millenni cerca di togliere agli umani l’unica cosa che forse hanno di buono: la creatività, il pensare, la critica delle verità assolute.
La sua affermazione per la quale è giusto togliere la libertà di pensiero e di parola allo scopo di «servire gli interessi di chi produce valore nella società» è diversa nei contenuti dalle altre, come lo è ciascuna di esse rispetto a ogni altra, ma è categorialmente identica ed è essa il male della storia.
Lei potrebbe rispondere che il suo scopo sarebbe ben diverso perché difende la giustizia e l’eguaglianza ma tale giustificazione sarebbe addotta pari pari dagli autori delle altre censure poiché anch’essi difendono dei valori assoluti come sta facendo lei.
Su questo punto spero di essere stato chiaro perché chi non concorda con l’affermazione di Spinoza vuol dire che condivide i contenuti di Ždanov solo tatticamente ma non strategicamente. E di fatto è pronto a comportarsi come i politicamente corretti.
Io rifiuto tutte le censure. Ritengo che anche le tesi più aberranti debbano avere il diritto di essere espresse. Se si tratta di tesi folli o bizzarre, tanto peggio per chi le enuncia (e se costituiscono offesa personale c’è il Codice Penale che può intervenire).
In caso contrario si cade nel paradosso che sta pervadendo il XXI secolo, il paradosso del quale è responsabile ad esempio Karl Popper, il quale reputa un diritto della «società aperta» togliere la parola ai suoi nemici, senza rendersi conto che in questo modo la società aperta non esiste più, diventando una società chiusa. È esattamente quello che stanno facendo Soros e le sue creature (i decisori politici) all’interno dell’Unione Europea. Soros è infatti un acceso sostenitore di Popper ed è presidente della Open Society Foundations.
L’interlocutore mi ha risposto in tre modi.
Il primo:
«Non so perché mi abbia attribuito questa confusione tra i piani del pensiero e dell’azione, quando io stesso ho posto questa distinzione nella mia lettera precedente. Ho proprio lasciato intendere che ritengo accettabile la libertà di parola fintantoché non si traduca in azione politica contraria agli interessi del proletariato.
[…]
Per andare più a fondo in ciò che dicevo nella mia lettera le pongo allora un quesito: aldilà del rispetto formale della libertà di parola e di pensiero, sarebbe disposto ad accettare che, in una società post-capitalista, le parole e i pensieri espressi anche da posizioni radicalmente opposte alla sua (alla nostra che critichiamo aspramente questo sistema in cui viviamo), si tramutino in azione politica?
Io credo che il nucleo centrale, quando si parla di libertà di parola, sia proprio qui. In tutte le società vi è libertà di parola, fintantoché chi parla non rechi danno all’ordine costituito (sia essa una società socialista, fascista, capitalista). In nessuna società esiste o è mai esistita la libertà assoluta, astratta di parola, a prescindere dal contesto. Specialmente se tale libertà possa poi avere delle conseguenze politiche capaci di cambiare lo stato di cose».
Nella mia ulteriore risposta ho scritto:
Io rivendico il diritto dei politicamente corretti di dire quello che vogliono; nego loro il diritto di impedire a me di fare altrettanto. E questo prescindendo dai possibili effetti delle loro tesi e delle mie. Questo è il nucleo della libertà umana, negato il quale si apre la porta alle più varie dittature, tutte con le migliori intenzioni naturalmente, tutte mosse da alti (altissimi, quasi invisibili) valori etici e politici. ‘Non vorrai con le tue critiche al politicamente corretto aiutare, favorire, giustificare quanti picchiano gli omosessuali? Stai attento! Anzi staremo attenti noi impedendoti di scrivere e pubblicare contro il politicamente corretto’.
Mi dispiace dirle, Davide, che questa logica è anche quella che fonda il suo discorso: un valore supremo in nome del quale togliere la parola agli altri. La invito a stare attento perché sostenere questa logica significa sostenere sempre i più forti, quelli che vincono.
Il secondo:
«Se dovessimo, per pura ipotesi (purtroppo molto lontana), arrivare a una società socialista che rispetti i valori della giustizia e dell’eguaglianza, dovremmo lasciare che i detentori di capitale, la borghesia con i suoi apparati di comunicazione e di propaganda, siano liberi esprimersi anche laddove questa libertà di parola si possa mettere in pericolo gli stessi capisaldi che tengono in piedi la società più giusta che si è duramente costruita?»
Al che ho risposto:
Sì, dovremmo lasciare liberi tutti di criticare la società che «rispetta i valori della giustizia e dell’eguaglianza», come dovremmo lasciare chiunque libero di criticare qualunque valore.
L’alternativa è, ripeto, il totalitarismo o almeno una dittatura ecclesiale, borghese, proletaria e quant’altro. Io rifiuto tutte le dittature.
Questo è il principio più concreto: è il principio della libertà filosofica, è la condizione di ogni sviluppo umano, di ogni ironia, di ogni disincanto, di ogni bellezza, di ogni saggezza, di ogni sapienza.
Il terzo:
«Ci provo con un esempio: le sarà sicuramente capitato di assistere a episodi di violenza, nel corso della sua vita. In alcuni casi avrà pensato "costui che ha commesso violenza è un abietto e l'ha fatto per motivi iniqui", e in altri casi avrà pensato "costui che ha commesso violenza lo ha fatto mosso da giustizia. Non aveva altra scelta e non intervenire avrebbe recato più danno di quel che è stato". Ecco, difendere la libertà di parola in ogni caso mi sembra lo stesso di chi osteggia la violenza in ogni caso e in ogni sua forma: non si cura del perché la violenza sia necessaria in alcuni casi, e rifiutandola aprioristicamente rischia di recare danno alla stessa causa da egli difesa».
La mia replica:
Io, al contrario, sostengo il diritto di difendere l’apologia di qualunque violenza. Poi intervengono le leggi poste contro le prassi violente. Un esempio: sono del tutto contrario alle leggi contro l’apologia del fascismo. Non a caso da questa legge sono derivate in molti Paesi europei altre leggi che perseguono l’apologia del comunismo. Vede? Una volta che autorizziamo il carcere o le multe per chi parla, prima o poi esse riguarderanno le nostre stesse parole.
ChatGPT
Ecco una breve presentazione e una riduzione sintetico-analitica della discussione tra Alberto Giovanni Biuso e il suo interlocutore, Davide Amato, sul tema della libertà di parola:
Presentazione
Nel suo intervento, Libertà di parola, Alberto Giovanni Biuso risponde a una serie di riflessioni critiche ricevute da Davide Amato, giovane lettore marxista, in merito alla difesa incondizionata della libertà di espressione. Amato si dichiara d'accordo con l’impianto critico del libro di Biuso contro le ideologie dominanti, ma dissente sul rifiuto assoluto della censura: in una società anticapitalista, sostiene, alcune limitazioni alla libertà di parola sarebbero accettabili per difendere gli interessi del proletariato. Biuso, al contrario, afferma con forza la necessità di una libertà incondizionata del pensiero e della parola, opponendosi a ogni giustificazione ideologica della censura.
Riduzione sintetico-analitica
1. Nodo del dissenso: la censura "giusta"
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Davide Amato sostiene che il politicamente corretto va criticato non in sé, ma per il suo uso da parte delle classi dominanti. In caso di potere anticapitalista, egli accetterebbe la censura verso idee borghesi o reazionarie.
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Biuso risponde con una critica di tipo categoriale: ogni giustificazione della censura, anche se motivata da ideali nobili (uguaglianza, progresso, verità), condivide la stessa struttura autoritaria e produce storicamente oppressione.
2. La libertà come principio filosofico e civile
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Biuso cita Spinoza per difendere la libertà di pensiero e parola come fondamento della Repubblica e della civiltà.
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Ritiene che l’autonomia del pensiero vada difesa anche nei confronti delle idee più aberranti, distinguendo tra libertà d’opinione e responsabilità penale (in caso di offese personali o istigazione alla violenza).
3. Replica articolata di Amato
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Amato distingue tra piano del pensiero e dell’azione: è favorevole alla libertà di parola finché non si traduce in azione politica che metta a rischio il progetto socialista.
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Sostiene che nessuna società consente libertà assoluta e che, in una futura società socialista, la libertà borghese andrebbe limitata per tutelare la giustizia.
4. Contro-replica di Biuso
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Biuso rigetta questa logica: ogni limitazione preventiva della parola in nome di un bene superiore conduce al totalitarismo, mascherato da moralità.
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Ricorda che anche i censori religiosi, scientifici o democratici usano buone intenzioni per giustificare la repressione.
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La vera forza sta nel permettere anche alle voci contrarie di esprimersi, come segno di maturità e forza della società.
5. L’esempio finale di Amato e la risposta di Biuso
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Amato paragona la libertà di parola alla violenza: a volte necessaria, a volte ingiustificabile. Una difesa assoluta della non violenza (o della libertà) sarebbe astratta e potenzialmente dannosa.
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Biuso replica che, proprio perché la violenza può essere giustificata soggettivamente, è ancora più importante difendere la libertà incondizionata di parola, che non è violenza, ma la condizione di ogni pensiero critico.
Conclusione sintetica
Il cuore della disputa è teorico e politico: Amato giustifica la censura in chiave rivoluzionaria e strategica; Biuso, invece, ribadisce che la libertà di pensiero è un valore assoluto e non strumentale, da preservare sempre. Per Biuso, ogni censura – di destra o di sinistra – è la radice del dominio e dell’oppressione, anche se animata da ideali apparentemente emancipativi.
Se vuoi, posso anche trasformare questo in un testo divulgativo o saggistico più esteso.
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CENNI SUL LIBRO
RECENSIONE
Pensare criticamente il presente: sul politicamente corretto | Dialoghi Mediterranei
Pensare criticamente il presente: sul politicamente corretto
È con un tono aspro, risoluto, talora cinico, ma in fondo assai addolorato, che Alberto Giovanni Biuso in Zdanov. Sul politicamente corretto (Algra Editore, Viagrande 2024) dialoga con il fenomeno che ha forgiato il XXI secolo dai suoi albori, denunciandone con veemenza le subdole nefandezze senza il timore di scorgerne le cause teoretiche, storiche e socio-economiche sottese.
Il politicamente corretto è disaminato nelle sue molteplici ed eterogenee declinazioni, sottoposto al vaglio teoretico di chi sa osservare e pensare il presente in modo critico e disincantato. Quanto emerge è, anzitutto, un triplice processo di manipolazione ontologica dell’umano operato rispettivamente sui suoi modi d’essere costitutivi del linguaggio, dell’alterità, dello stare nel mondo.
In prima istanza, le numerose implicazioni del politically correct, da Biuso qui magistralmente messe in luce, sembrano infatti rispondere a un comun denominatore: la manipolazione chirurgica – «ortopedica», per dirlo con Davide Miccione – del linguaggio; ovvero, a lungo termine, la dissoluzione di una lingua e la sua deliberata ri-articolazione in una neolingua orwellianamente quanto più spoglia, rimpoverita, prosciugata (dunque aleatoria). Il principio di tale operazione coincide con la decontestualizzazione sistematica di alcuni termini, con tutte le conseguenze che ciò reca in sede giuridica, facendo leva sulla fisiologica natura metonimica del linguaggio ordinario [1]. Questo non soltanto comporta che «si è falsamente libertari, significa che si vuole la libertà di parola per le parole con le quali concordiamo» [2]; comporta anche e soprattutto che, dal momento in cui il significato di un termine è essenzialmente il suo uso (come ben hanno evidenziato il Wittgenstein delle Philosophische Untersuchungen e i maggiori esponenti della pragmatica), il linguaggio è snaturato fin nelle sue fondamenta ontologiche costitutive. Sicché, a venire alterata nelle sue radici è la costituzione d’essere profonda di un ente, l’umano, che, come osserva un Biuso particolarmente heideggeriano,
«è l’animale che comunica. Non è l’unico, naturalmente. La relazione con i conspecifici è una caratteristica di gran parte del mondo animale. Tra gli altri strumenti e modalità, l’umano utilizza le parole. Esse costituiscono gran parte del suo mondo» [3].
Torneremo su questo punto.
Contestualmente al rimaneggiamento del linguaggio, un «sintomo» del politicamente corretto che pare all’autore prema ancor più analizzare è difatti la soppressione totale e metodica di quel modo d’essere fondamentale dell’umano che è l’alterità. Il dinamico giuoco di Identità e Differenza che sta alla base del dimorare umano nel mondo è lasciato morire attraverso l’imposizione di una sconfortante e totalizzante omologazione il cui fine è cancellare il concetto stesso di differenza nella sua medesima invocazione, ovvero mediante la rivendicazione della legittimità di un universo sociale esasperatamente multiforme – e sostanzialmente contraddittorio – di sole differenze, tutte di egual statuto ontologico. L’Identità è annegata in una incoerente pluralità di differenze; la Differenza è annegata nella pretesa che tutte le diversità siano riunite intorno a un unico rango, che non vi sia differenza fra le differenze, cioè in una Identità fraintesa e distorta. Esse sono lasciate scivolare, fino ad annichilirsi, vicendevolmente l’una nell’altra. Ma questa pretesa è vacua, oltre che insensata: «A un’equazione appartengono almeno due termini. Un A è uguale a un altro. […] La formula A = A parla di uguaglianza. Essa non nomina A come lo stesso» [4].
Heidegger ha mirabilmente condensato nell’uguaglianza matematica l’essenza dell’alterità, una trama di identità e differenza fittamente e necessariamente interrelate poiché autoimplicantisi. Con ciò si chiariscono le disastrose conseguenze che l’atto “sofistico” di ridurre il concetto di Differenza a discriminazione reca con sé: ad essere minata è, ancora una volta, l’ontologia intima dell’essere umano giacché «siamo con-essere sin nei gangli più profondi del βίος consapevole che vivendo diventiamo. Siamo persona comunitaria, fatti e intrisi di una identità anche biologica dalla quale veniamo dall’inizio alla fine attraversati» [5]. A un oblio dell’alterità siffatto Biuso risponde:
«L’umanità è nomade, plurale, meticcia; è Differenza. L’umanità è spazi, legami, comunità, è Identità. Non è possibile comprendere le vicende della nostra specie, la loro complessità, se non si è consapevoli di questa dinamica incessante di identità e differenza» [6].
Quanto fin qui succintamente trattato converge verso la terza e più significativa struttura ontologica umana lesa dal politicamente corretto che abbiamo menzionato in apertura; la più significativa poiché ingloba olisticamente le due precedenti: lo stare nel mondo dell’essere umano è, invero, per lo più uno stare in un mondo-linguaggio e uno stare in un mondo-altri (cioè MitSein), oltre che uno stare in un mondo-utensile. Alterati il linguaggio e il concepimento ontologico dell’Altro fin nelle loro radici, si è pertanto già manipolata una larga parte della Welt esistenzialmente intesa. Come infatti ha sopra ben appurato Biuso, parafrasando l’Heidegger di Sein und Zeit [7], le parole costituiscono da sole gran parte del nostro mondo.
Allo sfondo ontologico, che permea il saggio tutto e che intende mettere in luce – come s’è or ora visto – le modalità in cui il mondo della vita è subdolamente violato, Ždanov. Sul politicamente corretto affianca nondimeno una puntuale riflessione di matrice storica e socio-economica la quale non soltanto si impegna a far emergere le cause remote del fenomeno oggetto di studio, ma si propone anche di elaborare a partire da ciò una solida pars costruens che ne arresti il tumultuoso imperare.
Secondo il punto di vista di Biuso, l’uso propagandistico delle arti, la delega dell’autorità a intrattenitori falsamente esperti, l’iconoclastia nei riguardi della letteratura classica (e la sua conseguente riscrittura “politicamente corretta”), il rigetto verso le proprie radici storico-culturali nonché biologiche, la crescente moralizzazione di questioni eminentemente politiche – tutti «sintomi» di un drastico regnare del politically correct – devono esser riuniti sotto una medesima e ben precisa causa remota che l’autore scorge nelle tendenze postmoderniste e decostruzioniste (o, per meglio dire, in una loro deviata esegesi americana) della seconda metà del secolo scorso. L’elemento politico decade in luogo di quello morale e psicologico, sicché si giunge a «trasformare semanticamente e giuridicamente alcuni legittimi desideri individuali, figli di ben precisi contesti storici, in dei diritti naturali» [8]. In un contesto di questo tipo, la categoria di “vittima” non può che divenire posizione ambita e privilegiata per la quale concorrere anche ferocemente, il vittimismo è eretto a metodo – questo, il nucleo essenziale del wokismo –; ma, rammenta risolutamente Biuso, «la struttura dei fatti sociali è, ancora una volta, marxianamente, economica» [9] ed è da ricercare primariamente nel colonialismo imperialista attuato dagli USA (soprattutto a partire dalla fine del bipolarismo) nei riguardi di un’Europa costretta al guinzaglio al pari di un animale da passeggio, coartata, sguarnita di quell’“occidentalità” che le è propria e di cui è innervata; un colonialismo schiavile squisitamente ideologico, ancor prima che politico. Sarebbe questo a far pervenire l’autore alla forse affrettata (ma difficilmente confutabile) conclusione che «capitalismo e devastazione sono inscindibili» [10].
Fare del dilagante problema politico-economico un problema etico-psicologico significa convogliare il nucleo della questione in un orizzonte che lascia spazio all’arbitrio del singolo, all’interpretazione acritica, all’operare sulle parole con la convinzione di star operando sul reale. Deve allora avere gran ragione Nietzsche nel dire: «La morale è nient’altro che questo. – “Tu non devi conoscere” – da ciò deriva tutto il resto» [11]. Da qui, la mossa di Biuso di architettare un intero capitolo Contro l’etica.
Sembra che vi sia, in ultima istanza, un solo modo per affrancarsi dal circuito vizioso:
«È necessario demoralizzare il problema e ripoliticizzarlo invece, poiché ritenere che le differenze vengano annullate dalle televisioni satellitari, dai cellulari, dalla tolleranza verso i delinquenti o gli islamisti, dai centri di accoglienza per chi arriva o dai quartieri ghetto per chi vi nasce, è un’illusone che sta contribuendo alla dissoluzione dell’Europa» [12].
L’oblio del passato si trasforma in disprezzo della propria identità storica e culturale in modo talmente rapido da estendersi a macchia d’olio fin nella sfera biologica: adesso s’è così fatto, tout court, oblio della persona. La necessità immanente del βίος è trasvalutata per mezzo di una ontologia «flussica» e transumanistica in costume volontaristico al punto che qualcosa come il sesso – e con esso il corpo sessuato in senso lato – è da ripudiare come riprovevole, sulla scia di un sempre più marcato dualismo natura-cultura di stampo cartesiano: un dualismo dapprima metafisico e poi antropologico teso ad avvelenare la più profonda essenza dell’animale umano, quella ovvero d’essere anzitutto un solido, coeso corpomente propriocettivo che anche e soprattutto in vista della sua animalità agisce liberamente nel mondo e a partire dal mondo si comprende. A tutto questo occorre contrapporre una «antropologia disincantata, davvero materialistica perché radicalmente immanente e nello stesso tempo capace di cogliere nella cultura il proprium dell’animale uomo» [13].
Concetti abusati, fraintesi e troppo spesso ipostatizzati come il “patriarcato” o la violenza verso il partner trovano quindi, ancora una volta, la loro spiegazione nell’ontologia dell’umano: il fenomeno del safetyism (dilagante fra le famiglie più abbienti) educa fin dall’infanzia le persone a misconoscere il “no”. Sicché, sarebbe invero uno smisurato matriarcato a rendere taluni soggetti patologicamente dipendenti dalla figura femminile; il che – assieme all’acquisita e totale incapacità di concepire il rifiuto – conduce sempre più spesso costoro a compiere atrocità efferate. Ancora, cos’è dunque se non un modo deviato di rapportarsi con il mondo-altri a fissare la vera portata di tali fatti sociali?
Tutto questo non può che riversarsi, in conclusione, nella sfera sociale più delicata di tutte, quella educativa. Intrisa di un’eco behaviourista, la pedagogia contemporanea – coerentemente con la tendenza moralizzante di cui s’è diffusamente trattato – «è stata trasformata in una “scienza pratico-prescrittiva”» [14], travisando il cuore della maieutica socratica, cioè il libero incontro/scambio di docente e studente.
«Mediante il proliferare della miriade di “educazioni” alimentare, ambientale, sessuale, stradale, emozionale, genderista; attraverso l’accrescersi delle ore dedicate al rock, al bridge, agli scacchi, al giardinaggio; […], la scuola diventa un luna park per distrarre i servi del potente di turno e abituarli a servire meglio» [15].
Come ben mette in luce l’autore, la conseguenza (e lo scopo) di ciò è la riduzione dello studente a macchina-utensile, a oggetto duttile al servizio del potere, a persona non pensante che fuori della dimensione etico-politica non ha legittimità d’essere e d’esistere. In una parola, «lo scopo di ogni potere: dominare dando l’illusione che i dominati amino la loro sottomissione» [16]. Scopo altresì irraggiungibile senza quella spiccata componente messianico-profetica che abbraccia tutti i regimi totalitari facendo leva sulla “speranza” dei cittadini in un idilliaco e utopico avvenire; a tal proposito, Nietzsche ha ancora osservato nel suo Anticristo: «Proprio a causa di questa capacità di tener tranquilli gli sventurati, presso i Greci la speranza era considerata il male dei mali, il male veramente perfido» [17].
Dovrebbe ora esser perspicua la portata di ciò che chiamiamo politicamente corretto. I totalitarismi contemporanei – in primis quello capitalistico degli USA – hanno imparato, guardando al fallimento dei regimi del XX secolo, che per conseguire il dominio assoluto sulle folle non basta sottometterle con la forza; bisogna che esse siano felici di essere sottomesse. Il totalitarismo del XXI secolo ha imparato che per manipolare il corpo sociale non bisogna plasmarne l’onticità, bensì occorre puntare dritto all’ontologia, alle sue strutture fondamentali e intrinseche. Da questo punto di vista, la questione è a mio avviso da discutersi più su di un piano teoretico che politico-economico.
Perché, del resto, potare un albero sagomandolo periodicamente a nostra preferenza, se è possibile agirvi chimicamente con un concime che ne limiti e fissi la crescita una volta per tutte, senza che per di più la pianta possa accorgersene? Deve, adesso, esser chiaro in che senso il politicamente corretto è da considerarsi il “totalitarismo perfetto”: esso è riuscito a penetrare silente fino alle radici di quel meraviglioso e variegato albero che è l’essere umano, sostituendosi all’acqua che dapprima lo faceva crescere rigoglioso; un’acqua che è linguaggio; un’acqua che è identità e differenza; un’acqua che è cultura, storia, biologia. Ma, perché l’albero possa accorgersi che qualcosa nel terreno di cui si nutre è stato alterato, abbisogna che le sue foglie comincino ad appassire, che i suoi rami comincino a farsi gracili, che la sua salute si faccia cagionevole; allora, sarà già troppo tardi.
È il 2024: le foglie stanno iniziando a cadere. Compito del filosofo è denunciare ciò; e Alberto Giovanni Biuso, in Ždanov, vi è riuscito in modo esemplare.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Platone, del resto, aveva già a suo tempo messo ben in guardia dalla portata disastrosa di un simile atto: «Il più completo annientamento di ogni discorso è l’isolare ogni cosa dal contesto. Il nostro discorso, infatti, trae origine dall’intreccio reciproco delle idee»; Platone, Sofista (Σοφιστής, IV sec. a.C.), saggio introduttivo e trad. di B. Bianchini, prefaz. di P. Impara, Armando Editore, Roma 2006: 132.
[2] A.G. Biuso, Ždanov. Sul politicamente corretto, Algra Editore, Viagrande 2024: 132.
[3] Ivi: 139.
[4] M. Heidegger, Identità e differenza (Identität und Differenz [1957]), a cura di G. Gurisatti, Adelphi Edizioni, Milano 2009: 27-28.
[5] A.G. Biuso, Ždanov. Sul politicamente corretto, cit.: 118.
[6] Ivi: 56.
[7] «L’esser pronunciato all’esterno del parlare è il linguaggio. Questa totalità verbale, intesa come quella in cui il parlare ha il suo proprio essere “mondano”, diventa così esperibile in quanto è qualcosa che è nel-mondo come un ente allamano. Il linguaggio può essere spezzettato in parole-cosa sottomano. Il parlare è esistenzialmente linguaggio, perché l’ente, la cui schiusura esso articola in significati, ha la maniera d’essere dell’essere-nel-mondo dejetto, assegnato al “mondo”»; M. Heidegger, Essere e tempo (Sein und Zeit [1927]), trad. di A. Marini, Mondadori, Milano 2022, §34: 233.
[8] A.G. Biuso, Ždanov. Sul politicamente corretto, cit., p. 15. Su questo punto in particolare, rimando a M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari-Roma 2022: 50-80.
[9] A.G. Biuso, Ždanov. Sul politicamente corretto, cit.: 26.
[10] Ivi: 69.
[11] F. Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo (Der Antichrist. Fluch auf das Christenum [1895]), nota introduttiva di G. Colli, versione di F. Masini, Adelphi Edizioni, Milano 1977: 67.
[12] A.G. Biuso, Ždanov. Sul politicamente corretto, cit.: 44.
[13] Ivi: 63.
[14] Ivi: 78.
[15] Ivi: 85.
[16] Ivi: 49.
[17] F. Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, cit.: 27.
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Federico Nicolosi studia Filosofia presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania. Si interessa di questioni di filosofia teoretica, abbracciando principalmente la riflessione esistenzialista-ontologica del Novecento e approfondendo in particolar modo il pensiero di autori come Schopenhauer, Nietzsche, Sartre, Scheler, Heidegger, Wittgenstein.
Certo! Ecco una recensione sintetica e articolata del saggio Zdanov. Sul politicamente corretto di Alberto Giovanni Biuso, basata sul testo che hai fornito:
Recensione – Alberto Giovanni Biuso, Zdanov. Sul politicamente corretto (Algra Editore, 2024)
di Federico Nicolosi – Pensare criticamente il presente
Con Zdanov. Sul politicamente corretto, Alberto Giovanni Biuso firma un saggio filosofico di grande densità teoretica e impatto polemico, volto a smascherare – con tono severo e dolente – gli esiti ontologici, linguistici e politici di quel fenomeno sfuggente e pervasivo che va sotto il nome di “politicamente corretto”. Il titolo stesso evoca la figura del censore sovietico per eccellenza, Ždanov, suggerendo fin da subito la tesi forte del libro: il politicamente corretto contemporaneo opera come un nuovo apparato ideologico repressivo, celando la sua funzione normativa dietro l’apparenza di emancipazione e tolleranza.
Biuso individua nel politically correct un triplice processo di manipolazione dell’umano: attraverso il linguaggio, l’alterità e la costituzione stessa dell’essere-nel-mondo. Il primo e più evidente strato d’analisi riguarda l’“ortopedia linguistica”, un’opera di riarticolazione della lingua che, nel tentativo di eliminare ogni potenziale offesa, ne dissolve i legami vitali con la realtà e con il contesto d’uso, sino a svuotarla di senso. Biuso si rifà qui alla tradizione pragmatista e a Wittgenstein, sostenendo che, se il significato sta nell’uso, il linguaggio manipolato altera direttamente l’ontologia dell’umano, “animale che comunica” in modo specificamente simbolico e verbale.
Il secondo livello critico riguarda l’abolizione dell’alterità: in nome di una pluralità assolutizzata e di una parità astratta tra differenze, si perde la tensione dialettica tra identità e differenza che è alla base del vivere umano. Le differenze vengono annullate proprio nel momento in cui si pretende di celebrarle indistintamente. Il risultato è un’omologazione che cancella il senso stesso del “con-essere”, dell’identità storica e comunitaria. Biuso, con echi heideggeriani, denuncia una metamorfosi per cui la differenza è ridotta a discriminazione, e il linguaggio dell’eguaglianza diventa uno strumento ideologico.
La terza trasformazione denunciata è quella dello “stare nel mondo”: privato di un linguaggio radicato e di un rapporto autentico con l’alterità, l’essere umano perde la propria Welt, la sua esistenza situata e concreta. Ne deriva una condizione di spaesamento ontologico e politico.
A questo impianto filosofico, Biuso affianca una critica storica e socio-economica che individua nel postmodernismo decostruzionista (soprattutto nella sua ricezione americana) una delle radici teoretiche della cultura woke. L’autore denuncia la sostituzione della dimensione politica con quella morale e psicologica: il conflitto viene sostituito dal trauma, i diritti collettivi dai desideri individuali, e l’identità personale da una fluida autoreferenzialità. Tutto ciò alimenta la trasformazione della “vittima” in soggetto dominante del discorso pubblico, con conseguenze devastanti per l’idea di giustizia e uguaglianza.
Biuso affonda infine il colpo in direzione geopolitica: l’ideologia del politically correct è interpretata come strumento del neoimperialismo culturale statunitense, che dopo la Guerra Fredda avrebbe colonizzato l’Europa anche simbolicamente, imponendole una forma mentis vittimista e deterritorializzata, rendendola succube di un’identità fittizia e post-storica. Da qui la tesi radicale secondo cui “capitalismo e devastazione sono inscindibili”.
Il saggio si chiude con una provocazione: non è di etica che abbiamo bisogno, ma di politica. Il moralismo contemporaneo, secondo Biuso, non emancipa ma infantilizza, delegittima il conflitto sociale e impedisce la comprensione materiale della storia. Per questo, scrive l’autore, occorre “demoralizzare” il discorso pubblico e ripoliticizzare le differenze, restituendo al mondo il suo spessore ontologico e alla soggettività la sua storicità concreta.
Valutazione critica
Zdanov è un’opera che non fa concessioni: esigente sul piano teorico, polemica nei confronti della cultura dominante, radicata in una filosofia dell’essere che non teme lo scontro con il senso comune progressista. Il tono può talvolta apparire apocalittico, ma la profondità delle argomentazioni e il rigore concettuale con cui Biuso affronta un tema tanto discusso ne fanno un contributo importante e coraggioso. In tempi in cui il pensiero critico rischia di essere fagocitato dal conformismo performativo, un’opera come questa merita lettura e discussione.
Fammi sapere se desideri una versione più breve, una sintesi didattica o una rielaborazione in chiave più divulgativa.
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RECENSIONE
. Recensione a: Alberto Giovanni Biuso, Zdanov. Sul politicamente corretto, Algra Editore, Viagrande-Catania 2024, pp. 157. (Sarah Dierna)
Con un incipit che ha del céliniano Alberto Giovanni Biuso si ritrova a parlare ancora del presente e a farlo in modo inedito; inedito rispetto al racconto mainstream e mediato che l’informazione vuole lasciare intendere, sia chiaro. Anche per questo credo che la maggior parte dei lettori di Zdanov. Sul politicamente corretto, e non soltanto chi sta scrivendo, si accosterà a questo libro da neofita. In esso si fanno i conti con un presente silenzioso che scorre al fondo degli eventi ma che viene mascherato e obliato dentro una narrazione certamente più semplice ma assai più fittizia, dentro una favola forse a lieto fine ma assai lontana rispetto ai fatti della storia che realmente accadono.
Se si è disposti a concedere a «un mondo senza testa» una mente ben disposta, lucida e critica; se si è nello stesso tempo disposti a restituire il reale a una «testa senza mondo», ci si ritroverà alla fine «il mondo nella testa». Un Mondo nuovo, come quello raccontato da Aldous Huxley e molto simile a quello nel quale viviamo, agiamo e obbediamo. Dalla lettura di questo libro viene fuori però un mondo piuttosto buio rispetto a quello che ci si aspetterebbe; ma se è vero che la filosofia è «quell’ombra che tutte le cose mostrano quando il sole della conoscenza cade su di esse» (F. Nietzsche, Umano, troppo umano, II, in «Opere», vol. IV/3, Adelphi, Milano 1967, p. 134), è anche tale ombra che Biuso tenta di mostrare.
L’autore riflette infatti sul diffuso, dibattuto e abusato tema del politicamente corretto mostrando la natura non soltanto linguistica della questione; sulla ‘missione distruttiva’ della cancel culture che nel tentativo di eliminare le discriminazioni semina di fatto ignoranza; sulla Gender Theory e il suo scopo di trasformare qualsiasi desiderio in un diritto, qualsiasi diritto in una libertà da perseguire a qualsiasi costo, pure a costo della libertà altrui; sull’ideologia Woke che nel ridestare l’umanità dal sonno della ragione rischia di renderla sonnambula e quindi più facilmente manipolabile. Di questi fenomeni Biuso mostra le ragioni ma soprattutto i rischi verso cui il piano inclinato intrapreso conduce. Il libro ha il merito di essere argomentato da «figure della conoscenza e non del potere» (p. 23), si distingue quindi dall’ennesimo impegno militante per discutere di tutto questo in modo filosofico e cioè tale da far emergere «la conoscenza come facoltà universale della nostra specie», quella in cui soltanto bisogna ricercare «l’individuazione e la soluzione dei conflitti, che sono un portato intrinseco, a volte distruttivo ma spesso fecondo, della natura umana» (p. 151).
E infatti uno degli elementi sui quali l’autore insiste a più riprese è proprio il progressivo impoverimento del sapere sempre più mutilato nelle sue parti storiche, linguistiche ed espressive. La cancel culture ostracizza la letteratura, la storia, la filosofia, la scienza; mortifica la grammatica italiana con l’acquisizione di nuovi simboli che non possono essere nemmeno pronunciati; impone un linguaggio asettico, neutro, standardizzato che nel tentativo di non creare discriminazioni rende di fatto ridicolo colui che lo parla. Il tutto è chiesto, inseguito e difeso per garantire la libertà di espressione ed eliminare qualsiasi discriminazione ma di fatto si risolve nella censura e nell’esclusione di coloro che dissentono, criticano e non si adeguano a simili misure; nella difesa, è vero, della «libertà di parola [ma] per le parole con le quali concordiamo» (p. 132).
Il linguaggio sul quale il politicamente corretto interviene non è soltanto uno strumento accessorio adibito alla comunicazione ma è un organo centrale e necessario del pensiero; non a caso Ernst Cassirer aveva ben identificato l’umano come un animale simbolico. Come egli chiarisce, il simbolo non è soltanto trasmettitore di contenuti ma anche loro facitore poiché costruisce e insieme plasma il significato che si vuole trasmettere. Ciò spiega l’urgenza di intervenire sulle parole introducendo un genere neutro preferibile al maschile e al femminile, di preferirne alcune e di evitarne altre; agire su di esse significa infatti agire anche sul pensiero. Cancellare la pluralità linguistica e favorire allo stesso tempo un’unica lingua di comunicazione significa veicolare il pensiero, garantire uniformità e conformismo; promuovere inclusione, accoglienza, integrazione, universalismo, globalizzazione, il che equivale alla «costruzione di un Corpo sociale incompetente, ignorante, passivo. E dunque più facilmente manipolabile» (p. 90).
Rendersi conto di tutto questo diventa più difficile se si cancellano saperi come la storia e la filosofia; se non ci si impegna a conoscere il passato che ritorna e si ripete; se il fatto educativo vuole mirare ad annullare qualsiasi differenza e garantire a tutti non le stesse condizioni ma gli stessi risultati. E invece è proprio la conoscenza che secondo Biuso affranca da tutto questo: «Bisogna ribadire con chiarezza che senza una conoscenza diffusa e condivisa della stratificazione culturale europea non è possibile diventare cittadini liberi e persone consapevoli. La conoscenza di tale stratificazione ridimensiona ogni pretesa esaustiva e definitiva del presente. Senza la conoscenza storica il presente viene idolatrato e questa è la forma più insidiosa di conservatorismo; senza di essa si smarrisce il senso della prossima distanza che gli autori antichi rappresentano: né esotici né attuali, essi costituiscono davvero l’inquietante diversità che ci consente di relativizzare ciò che siamo e quindi di comprenderci meglio» (p. 101); e nello stesso tempo l’inquietante vicinanza che ci consente inoltre di ‘vedere discosto’ come insegna Machiavelli al suo principe e di riconoscere nel presente che accade la via battuta da altri, le virtù da seguire e i percorsi da evitare.
Proprio perché la chiave ermeneutica del libro non è politica, non è sociologica e non è militante ma volta soltanto a capire il presente e a descriverlo, Biuso spiega quanto sta accadendo come «un passaggio dalla centralità dell’ontologia, ciò che è e che si è, all’etica, ciò che si deve essere» (p. 75). Contro l’etica è rivolto infatti uno dei sei capitoli che compongono il libro. Se nell’ontologia la varietà del mondo, delle sue forme ed espressioni viene chiamata differenza, nell’etica gli stessi elementi vengono distinti entro due categorie possibili, ciò che è giusto e ciò che non lo è, con la conseguenza di dovere considerare poi il secondo insieme (l’ingiusto) negativo e quindi da superare, cosicché la differenza ontologica diventa discriminazione etica. Già con il parricidio del temibile Parmenide si era mostrata la necessità della differenza affinché si potesse dire qualcosa sull’essere e l’insostenibilità della stasi data invece dall’opposizione all’essere. Il diverso è un genere sommo che garantisce il movimento, qualcosa di cui la stessa presunta parte discriminata paradossalmente ha bisogno per esistere come tale.
«Una metafisica capace di rispettare il reale, tutto il reale, la realtà della differenza» deve inevitabilmente riconoscere «anche la realtà della differenza tra femmine e maschi» (p. 124), non come misconoscimento delle ragioni e dei sentimenti bensì come riconoscimento del primato dell’essere su ciò che si sente o si desidera essere. Ontologia è anche ammettere la struttura biologica e fisiologica dei corpi, la negazione della quale non soltanto rappresenta un’ennesima conferma della tendenza all’uniformità ma secondo Biuso si spiega ancora con il dualismo cartesiano, con la radice moderna e antropocentrica del pensiero. L’esito di questa negazione sarà il transumanesimo che l’autore definisce chiaramente come una «forma completa dell’iperumanismo, del tentativo di condurre a pienezza e potere l’unicità umana dentro il mondo» (p. 108) che di fatto si tradurrà nel trionfo dell’algoritmo e nell’estinzione dell’umanità.
La lucida analisi di Biuso ha, tra i tanti autori di riferimento, certamente presente quel capolavoro che costituisce uno dei capisaldi della scienza politica, Il Principe, nel quale Niccolò Machiavelli ha messo in evidenza la piena e necessaria autonomia del potere politico dalla morale. La politica non guarda a come le cose dovrebbero essere – non è morale appunto – ma a come effettivamente sono e a come quindi si devono considerare. L’agire del principe poteva infatti fare riferimento a dei criteri contingenti, orientati a seconda della fortuna dei tempi e dei sudditi su cui il principe deve di volta in volta governare. Non si tratta di non riconoscere sentimenti e desideri della comunità sociale ma di riconoscerli come tali, e cioè come sentimenti e come desideri sui quali la politica nulla dovrebbe dire e niente dovrebbe discutere.
Dinnanzi a tale quadro, del quale Biuso non si limita a tracciare le figure e sfumature di colore e di significato ma identifica anche la causa che sussume in sé queste dinamiche soltanto apparentemente slegate tra di loro, la pennellata luminosa proviene secondo l’autore da un impegno di natura metapolitica, inteso come un «impegno a pensare il reale, mostrarne i limiti i rischi e le possibilità affrancandosi totalmente dai media, dai giornali, dalle televisioni, dal flusso dominante della rete. Difficile, certo, ma nelle vicende umane la libertà non è mai stata un regalo» (p. 22). Occorre «demoralizzare il problema e ripoliticizzarlo», altrimenti il rischio che si corre è «la dissoluzione dell’Europa» (p. 44).
Come anche in Disvelamento. Nella luce di un virus (Algra Editore, Viagrande-Catania 2022), libro che Biuso ha pure dedicato al presente e alle sue ombre, mi sembra che sia sempre troppo poca la responsabilità riconosciuta a coloro che obbediscono. Rispetto alle dinamiche descritte credo possano valere le parole di Machiavelli secondo il quale «sono tanto semplici gli uomini e tanto ubbidiscono alla necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare» (N. Machiavelli, Il Principe, Feltrinelli, Milano 2019, cap. XVIII, pp. 177-178). Che sia la vicenda del Covid o l’ampio, variegato e pervasivo fenomeno del politicamente corretto, a me pare che alla fine la faccenda consista proprio nel fatto che chi inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare.
Parlare di Politically Correct, Gender Theory, cancel culture e Woke, in un periodo storico in cui il problema è ancora morale e poco politico, avendo come unica musa la filosofia rende questo libro una guida assai utile per il presente, per farsi un’idea del proprio tempo apprendendolo però con il pensiero e non davanti al televisore.
(29 aprile 2024)
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Ecco una recensione del volume Zdanov. Sul politicamente corretto di Alberto Giovanni Biuso, strutturata e scritta in uno stile analogo a quello di Sarah Dierna:
Recensione a: Alberto Giovanni Biuso, Zdanov. Sul politicamente corretto, Algra Editore, Viagrande-Catania 2024, pp. 157.
Con la consueta lucidità – talvolta affilata come una lama –, Alberto Giovanni Biuso ci consegna con Zdanov. Sul politicamente corretto una riflessione filosofica che attraversa con determinazione il velo dell’ideologia per restituire al pensiero la sua funzione più profonda: quella di comprendere il reale, anche quando esso si manifesta sotto forma di deformazione o simulacro. In un presente dominato dalla retorica dell'inclusione e della sensibilità, ma impoverito da un pensiero spesso ridotto a slogan, Biuso impugna gli strumenti della filosofia per mostrare ciò che di norma viene occultato.
Il titolo, evocativo, rimanda a Andrej Ždanov, figura chiave dell’ortodossia culturale sovietica, con un parallelo che non è né forzato né gratuito: ciò che l’autore mette in questione è proprio la forma nuova, dolce e sorridente, del conformismo contemporaneo. Il politicamente corretto non è, secondo Biuso, uno strumento di emancipazione, ma piuttosto una macchina normativa che tende a ridurre la pluralità del reale a una griglia etica rigida, polarizzante e, perciò, totalizzante.
Il libro si compone di sei capitoli e si muove tra filosofia del linguaggio, antropologia culturale e critica della contemporaneità. Biuso non si limita a denunciare gli effetti di fenomeni come la cancel culture, la Gender Theory o l’ideologia woke – ormai inflazionati tanto nel dibattito pubblico quanto nei suoi travisamenti –, ma ne ricostruisce le matrici concettuali, mostrando come l’abbandono dell’ontologia in favore di una etica normativa abbia impoverito il nostro sguardo sul mondo. «Non ciò che si è – scrive – ma ciò che si deve essere»: ecco lo scarto che ha prodotto una società dove il desiderio pretende di farsi diritto, e il diritto, a sua volta, si impone come verità unica.
Il linguaggio è al centro della riflessione. Lungi dall’essere mero veicolo neutrale di comunicazione, esso è per Biuso struttura del pensiero e dispositivo epistemologico. Da Cassirer a Nietzsche, passando per il riconoscimento del simbolo come costruttore di realtà, l’autore individua nel controllo della lingua – neutra, igienizzata, priva di storia e di corpo – il segno più tangibile del tentativo di neutralizzare il dissenso. Si crea così, per dirla con le parole del testo, un «Corpo sociale incompetente, ignorante, passivo. E dunque più facilmente manipolabile».
Non si tratta di nostalgia o di reazionarismo, ma della consapevolezza che ogni perdita di profondità semantica corrisponde a una perdita di libertà. Quando la grammatica viene sacrificata in nome dell’inclusività, quando le parole vengono bandite perché “offensive” al di là del contesto, quando la differenza biologica viene negata in nome dell’identità percepita, non siamo davanti a un progresso ma a una nuova forma di dogmatismo, che Biuso riconduce, in ultima istanza, alla persistente radice cartesiana del pensiero occidentale: il dualismo corpo/mente, natura/volontà, realtà/desiderio.
Zdanov è un libro colto ma accessibile, che rifugge dal tono accademico senza mai scadere nella semplificazione. La sua forza risiede proprio nella capacità di portare il lettore, anche il più disincantato o prevenuto, a interrogarsi. A emergere è una filosofia che non pretende di salvare il mondo, ma che si ostina a illuminarlo anche laddove regna l’ombra. E proprio in questo si colloca, in filigrana, una delle tesi più importanti del testo: solo il pensiero può restituirci il reale nella sua complessità, anche quando questa fa paura.
Non mancano, in chiusura, passaggi di potente carica metapolitica. Il richiamo alla necessità di un pensiero indipendente dai media, capace di farsi carico della realtà e delle sue contraddizioni, si affianca alla proposta di una "demoralizzazione" dei problemi sociali, per riportarli là dove devono stare: nel terreno della politica come scontro di visioni del mondo, e non come gestione morale dei sentimenti. «La libertà non è mai stata un regalo» – ricorda Biuso – e la sua difesa oggi passa anche attraverso la lotta contro le narrazioni che, sotto la veste del bene, impongono il silenzio.
In un’epoca in cui il conformismo si ammanta di buoni sentimenti e si maschera da progresso, Zdanov è un esercizio di libertà critica e di resistenza intellettuale. Un libro che non si limita a dire ciò che altri tacciono, ma che soprattutto invita a pensare – senza paura, senza filtri, senza catechismi.
Fammi sapere se vuoi una versione più sintetica, un taglio più scolastico o una scheda per uso didattico.
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