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Dopo tanto liberalismo, la sinistra riscopra la libertà repubblicana

 

Dopo tanto liberalismo, la sinistra riscopra la libertà repubblicana

La prima reazione dal Pd alla lettera aperta di Nadia Urbinati e Carlo Trigilia è incoraggiante. Nel suo articolo, Gianni Cuperlo accoglie sia la diagnosi sia il consiglio. Ma sembra trascurare un punto decisivo.

Per fare riforme comparabili a quelle del primo centrosinistra, egli scrive, serve quella «concezione diversa delle relazioni economiche e sociali» che ora manca, e potrebbe nascere nel dialogo tra politica e cultura che Urbinati e Trigilia auspicano. Per «organizza[re] un’alternativa a sfiducia e apatia», egli aggiunge, occorre restituire ai cittadini «orgoglio e passione per credere in un’altra realtà possibile». Concordo, ma le parole cruciali sono ‘credere’ e ‘possibile’.

Secondo Cuperlo «parte del declino della sinistra è dipeso da quanto lo spirito del tempo ha prosciugato fino a essiccarla l’anima potente che mirava a trasformare il mondo». Secondo me una causa decisiva delle sconfitte degli ultimi quattro decenni fu piuttosto l’assenza di una visione credibile e realistica del cambiamento che la sinistra proponeva. La ragione è semplice.

Il rispetto delle regole – corruzione, evasione fiscale, abusivismo edilizio, eccetera – era già molto basso negli anni Novanta, rispetto alle altre grandi democrazie consolidate, e da allora è sceso a livelli poco superiori a quelli osservati nei Balcani. La responsabilità politica è debole, egualmente, e il clientelismo diffuso.

Una società organizzata in questo modo declina e soffre, tipicamente, ma offre ai propri cittadini mille modi per rosicchiare piccoli privilegi o trattamenti di favore. Grazie a questi vantaggi compensativi, tacitamente offerti in cambio di crescita più elevata e inclusiva, milioni di persone se la cavano un filo meglio, per così dire. (In passato un dirigente del Pd diede immeritata dignità a questo scambio parlando di «evasione di necessità».)

La mia tesi è che solo le élite ricavino da questo equilibrio benefici superiori allo svantaggio di vivere in una società comparativamente disuguale e poco produttiva. Gli altri cittadini vivrebbero invece meglio se, per esempio, la fedeltà fiscale, la responsabilità politica, e la qualità dei servizi pubblici fossero sui livelli dei nostri pari.

Se quindi un partito offrisse loro la prospettiva credibile di spostare l’Italia su un equilibrio superiore, esso raccoglierebbe molti dei loro voti (tutti, ceteris paribus). Ma se il programma di riforma non fosse credibile, perché vago, irrealistico o incoerente, molti voterebbero invece per chi esplicitamente o implicitamente promette più vantaggi compensativi: per chi ha imparato a convivervi, lo status quo è tipicamente preferibile a riforme che, oltre a non essere credibili, minacciano quei vantaggi compensativi (si pensi, per esempio, a un erratico tentativo di ridurre l’evasione fiscale: colpirà qualcuno, ma non cambierà l’equilibrio).

Un ovvio esempio di riformista non credibile è chi non offra una visione chiara della società che le riforme vorrebbero costruire. Quindi concordo con Cuperlo: al Pd non bastano «le proposte sacrosante avanzate negli ultimi anni su salari, welfare, liste d’attesa per curarsi o il diritto all’abitare». Ma abbandonati gli obiettivi della proprietà comune dei mezzi di produzione e della società senza classi, che visione propone la sinistra?

Non credo sia troppo sbagliato dire che negli ultimi quattro decenni essa ha offerto varie e spesso confuse versioni di liberalismo o neoliberalismo compassionevole (altrimenti non si spiegherebbe la facilità con la quale Matteo Renzi conquistò il Pd, e l’esiguità della scissione che seguì). Ora si vuole offrire qualcosa di diverso. Ma cosa? Non vedo ancora risposte.

Quella che suggerirei è la libertà repubblicana. Pochi conoscono questo ideale, ma senza saperlo molti già lo abbracciano. Ho già tentato di riassumerne i tratti principali sulle pagine di Domani: da esso si può derivare un programma coerente e realistico di riforma politica, economica e sociale.

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Riattivare il dialogo tra cultura e politica: lettera a Elly Schlein

Senza un dialogo sostenuto e organizzato tra questi due mondi, rispettoso della reciproca autonomia ma anche capace di coglierne la necessità, l’esperienza stessa della sinistra e il futuro delle istituzioni democratiche sono sempre più a rischio

Cara Elly Schlein,

usiamo uno strumento inusuale – una lettera – per sollecitare una risposta a domande che sono state poste con insistenza da parte di molte donne e di molti uomini del mondo della ricerca e della cultura ma non hanno finora trovato ascolto.

Queste domande ruotano in fondo tutte intorno a una questione centrale: perché il suo impegno per il rinnovamento del Pd non si è accompagnato finora alla riattivazione del circuito tra politica e cultura?

Non c’è in questa domanda un’aspirazione a ribadire una primazia del mondo della produzione culturale e della ricerca scientifica su quello della politica. C’è piuttosto la consapevolezza che senza un dialogo sostenuto e organizzato tra questi due mondi, rispettoso della reciproca autonomia ma anche capace di coglierne la necessità, l’esperienza stessa della sinistra e il futuro delle istituzioni democratiche sono sempre più a rischio. Come mostrano chiaramente le vicende politiche nazionali e internazionali più recenti.

Una nuova “promessa”

In questa prospettiva, riteniamo che lo sforzo del Pd sotto la sua guida di concentrarsi su alcune questioni concrete come il salario minimo e il lavoro povero, la sanità, la casa, sia stato un cambiamento importante ma ancora troppo limitato.

Infatti, snocciolare punti programmatici di riforma diventa meno efficace se queste proposte non sono collocate dentro un quadro di analisi che metta meglio a fuoco le ragioni del declino della sinistra e dia il senso di una diversa concezione delle relazioni economiche e sociali e delle condizioni di serio pericolo nelle quali si trovano le democrazie.

Non è neanche del tutto corretto affermare che i programmi ci sono e basta trovare il consenso nell’ambito del centro-sinistra per realizzarli. Sembra invece necessario elaborare una nuova “promessa”. A questo servirebbe un dialogo più intenso tra politica e cultura. Le chiediamo, perché questo dialogo non è stato promosso? E non ritiene che questo abbia influito sulla capacità di realizzare gli obiettivi di rinnovamento da lei promessi?

Un «riformismo radicale»

Con una formula sintetica, che è stata anche usata all’inizio della sua esperienza di segretaria del partito, si tratta di immaginare un «riformismo radicale». Ovvero mostrare che ci può essere una redistribuzione sostenibile, fondata su un sistema fiscale progressivo, capace di contrastare le disuguaglianze sociali senza compromettere la crescita e il buon funzionamento dell’economia di mercato; e ci può essere una regolazione efficace che favorisca l’efficienza dei mercati e non le rendite, e faccia della tutela dell’ambiente una leva dello sviluppo.

Questi temi non sono astratti. Al contrario, nascono dalla comprensione delle trasformazioni nelle relazioni tra le classi sociali che possono mettere a repentaglio la stessa democrazia.

Infatti, l’indebolimento delle aggregazioni sociali – quel che gli studiosi chiamano «solitudine sociale» – che si registra nelle parti più povere della società si traduce spesso in un declino di partecipazione elettorale o nel sostegno di proposte politiche xenofobe e razziste.

Cittadini, partiti e istituzioni

La giustificata preoccupazione per l’astensionismo elettorale deve tradursi in una valutazione delle opportunità di influire sui partiti e le istituzioni da parte dei cittadini. Un’opportunità che è sempre più diseguale.

Certo, i cittadini più deboli sotto il profilo socio-economico hanno le loro forme associative, ma spesso sono fragili o incapaci di attirare l’interesse di candidati e rappresentanti politici; spesso sono associazioni di breve durata.

In sintesi, i cittadini socialmente più deboli non hanno una vera e propria rete di riferimento che li renda capaci di esercitare l’advocacy. Il degrado della forza associativa sta spesso insieme a quello della vita sociale nelle aree più insalubri o depresse del paese e delle periferie delle città in primo luogo.

Progetto e programma

Non si può allora pensare di elaborare un progetto politico di governo alternativo a quello della destra senza raccogliere le competenze e le esperienze associative sparse nel paese. I temi del lavoro, della lotta alla precarietà, della fiscalità progressiva, del buon funzionamento dell’economia di mercato, ma anche quelli della qualità della vita (l’assetto delle città, i trasporti, la casa, i servizi) e dell’organizzazione culturale sono in sostanza squisitamente democratici. E vanno declinati in una visione complessiva da elaborare insieme con le competenze e le esperienze più significative: un progetto e un programma.

Ci può essere insomma un riformismo più efficacemente riformista, ed è sbagliato etichettarlo a priori come una forma di massimalismo antisistema, lasciando le esperienze fallimentari della Terza Via come unico punto di riferimento del riformismo.

Non pensa allora che per muoversi in questa direzione sia necessario uscire dalla logorante guerra di trincea interna al partito e aprirsi invece al dialogo tra politica e cultura tra politica e società civile?

IN RISPOSTA ALLA LETTERA DI URBINATI E TRIGILIA

Pd, senza sogni non si vola. Ora una nuova promessa per idee più radicali

La lettera aperta di Nadia Urbinati e Carlo Trigilia a Elly Schlein è un’occasione da non sciupare. La segretaria ha posizionato il partito su fronti a lungo sguarniti. Ora il punto è come coinvolgere talenti e disponibilità, associazioni, ricercatori, movimenti. Parte del declino della sinistra è dipeso da quanto lo spirito del tempo ha prosciugato l’anima che mirava a trasformare il mondo, quella visione del futuro che si riveli all’apparenza tanto impossibile da scoprirsi necessaria

La lettera aperta di Nadia Urbinati e Carlo Trigilia a Elly Schlein è un’occasione da non sciupare. Cosa aspetta il Pd – questo il senso – a riattivare il circuito tra politica e cultura? A far sì che le proposte sacrosante avanzate negli ultimi anni su salari, welfare, liste d’attesa per curarsi o il diritto all’abitare possano restituire alla democrazia la sua forza vitale fondata su una concezione diversa delle relazioni economiche e sociali?

Una nuova “promessa”, l’hanno chiamata, con una formula carica di magnetismo al punto che alcuni tra noi battezzarono così la mozione al congresso che ha visto, alle primarie, l’affermazione di Elly Schlein. La sua leadership ha posizionato il mio partito su fronti a lungo rimasti sguarniti o, peggio, delegati ad altri. Lo giudico un fatto notevole e per nulla scontato.

La lettera tutto ciò riconosce sollevando però un tema diverso seppure complementare. Come tradurre il tratto di strada percorso in un coinvolgimento delle risorse culturali e civiche capaci di fondare attorno ai singoli traguardi del programma un’idea radicale di società.

Nadia Urbinati e Carlo Trigilia sono convinti che lì fuori vi sia un universo di energie e talenti e disponibilità, associazioni, ricercatori, movimenti, disposti a rispondere all’appello e i dodici milioni di Sì al referendum sul lavoro l’hanno confermato.

Credo abbiano ragione. In passato, del resto, la grande politica questo ha saputo fare: fondere programmi, alleanze, strategie in un disegno di futuro. Decenni fa era stato il tratto del primo centrosinistra: scuola media unificata, nazionalizzazione dell’energia elettrica, la prima programmazione.

O più vicino a noi l’Ulivo prodiano: aggregare il lavoro dipendente e autonomo, l’impresa e il sapere in un’offerta che voleva modernizzare il Paese sotto il profilo dell’integrazione in Europa, della concorrenza, di una scala ambiziosa dei diritti civili e sociali.

Ma ora? A fronte di una crisi dei canali di partecipazione, dove lo sciopero più riuscito è quello delle urne, come si organizza un’alternativa a sfiducia e apatia restituendo a milioni di italiani, giovani e donne in primis perché i più offesi, orgoglio e passione per credere in un’altra realtà possibile? In un’Italia e un’Europa diverse?

Non azzardo una risposta, mi limito a una suggestione. Se siamo in una di quelle fasi dove tra il vecchio che non c’è più e il nuovo che non vive ancora possono crescere “fenomeni morbosi”, la prova è guidare una stagione della politica che riscopra la sua profonda dimensione etica, morale, quella che si concretizza nel fare democrazia e nell’essere comunità.

Vuol dire che a milioni di ragazze e ragazzi disincantati nell’età più bella perché orfani di un avvenire da scegliere bisogna restituire un “senso” del vivere. Che non dipende dalla politica, per l’amor del cielo, ma che la politica deve sorreggere offrendo a ciascuna e ciascuno la certezza di poter disporre e decidere del proprio futuro. Nella scelta di dove vivere, cosa studiare, chi amare, a quale lavoro mirare e poi dedicarsi. E anche – perché no? – come impegnarsi per salvare una natura violentata o regolare una tecnologia disumanizzante.

In fondo, parte del declino della sinistra è dipeso da quanto lo spirito del tempo ha prosciugato fino a essiccarla l’anima potente che mirava a trasformare il mondo. Puntava a farlo persino con quella dose di utopia che ha saputo agire da bussola e motivazione più carica di emozioni rispetto a qualunque decalogo o programma di governo.

Togli questo alla sinistra e dietro l’angolo si affaccerà sempre la soluzione di uno o più “tecnici” dotati del bagaglio per gestire (e non sempre risolvere) le emergenze economiche o finanziarie. Sotto questa lente un’Europa mai così discosta dai sentimenti popolari il campanello d’allarme dovrebbe averlo suonato da tempo. Ma infine, la stessa parabola angosciante sulla pace e la guerra chiede che la politica torni a coltivare non solo criteri di realismo e razionalità, ma alzando lo sguardo su questo tempo drammatico e violento risvegli l’idealità più audace dove la visione stessa del mondo che verrà si riveli all’apparenza tanto impossibile da scoprirsi il giorno dopo assolutamente necessaria.

Nella storia c’è stato chi ha avuto forza e coraggio per crederci. Perché non dovremmo provarci?

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Per rilanciare la sinistra bisogna prima conoscere il mondo che vota a destra

La lettera di Nadia Urbinati e Carlo Trigilia e gli interventi di Gianni Cuperlo e Marco Damilano ricordano le lettere fra Alicata, Vittorini e Togliatti su Rinascita e il Politecnico nel 1946. Ma viviamo nell’epoca della progressiva irrilevanza della cultura scritta. Se ci sono parole e idee che muovono il mondo, sono quelle dei social e dei meme. Politici di buona volontà e intellettuali residui dovrebbero immergersi in un viaggio nel mondo di destra per proporgli una nuova ricetta

Ai lettori radicati nel secondo Novecento (come me), la lettera di Nadia Urbinati e Carlo Trigilia e gli interventi di Gianni Cuperlo e Marco Damilano ricorderanno le lettere fra Mario Alicata, Elio Vittorini e Palmiro Togliatti su Rinascita e il Politecnico nel 1946.

Certo, ci sono molte differenze. Urbinati e Trigilia si augurano una «riattivazione del circuito fra politica e cultura», senza rivendicare alcuna primazia, né della cultura sulla politica, né della politica sulla cultura, ma neanche indipendenza. Siamo lontanissimi dal piffero della rivoluzione che temeva Vittorini. Piuttosto, cercano un dialogo fra la politica e le «competenze ed esperienze associative» della società civile.

Cuperlo aggiunge un richiamo all’utopia: bisogna inserire singoli punti di programma entro «un’idea radicale di società», un «disegno di futuro», attivando «orgoglio e passione per credere in un’altra realtà possibile», riconquistando un «”senso” del vivere». Marco Damilano auspica «un corpo a corpo nella società».

Ma noi viviamo nell’epoca della progressiva irrilevanza della cultura scritta: le pagine di questo giornale sono un coraggioso baluardo, testimone di un’epoca ormai tramontata di lettori forti. I barbari di cui parlava entusiasticamente Alessandro Baricco dominano la città del mondo. La cultura su cui dibattevano Togliatti e Vittorini, e pure quella di cui parlano Urbinati e Trigilia, seppure ancora esista, ha nessuna speranza di avere una qualche influenza. Le tendenze reali del mondo, che muovono le guerre in corso e hanno portato Trump al potere, non sono né descritte né guidate da qualunque parola scritta su carta o su testi digitali più lunghi di 500 battute. Il testo con cui Trump annuncia l’attacco in Iraq, su Truth, è di 460 battute.  

Se ci sono parole e idee che muovono il mondo, insieme a interessi economici e ideologie politiche, sono quelle dei social, di serie televisive della durata di mezz’ora a puntata, di meme. Questa cultura non dialoga con la politica, né può subirne la primazia. Piuttosto, spadroneggia e determina la forma della politica. Anche ricostruzioni ponderate del declino o della trasformazione degli intellettuali, come il recente Pensare stanca. Passato, presente e futuro dell’intellettuale (Feltrinelli, 2024), rischiano di essere troppo ottimiste. Tutto è cambiato.

Se qualcosa che si può chiamare “cultura” permane, ha un senso antropologico o etnografico. Sono culture le molte bolle di senso, gli immaginari che creano le molte classi sociali del nostro mondo, dove forse le classi intese come moltitudini coscienti di sé sono scomparse, ma rimangono frammentati raggruppamenti di individui con poteri (pochi) o senza poteri (molti).

Da queste “culture” arriva una sorta di sapere indigeno che andrebbe ascoltato e messo a sintesi. Sono i bisogni e gli orizzonti di vita di questi frammenti che andrebbero ricomposti in un orizzonte unitario ed emancipativo. Per farlo serve un’idea di futuro e di società, è vero. Ma per comporla ci sono rimaste sparute avanguardie intellettuali,  non certo realtà associative ricche e reali com’erano gli intellettuali del Novecento.

Le piccole bolle frammentate

E questa frammentazione ha seccato le fonti dell’utopia, per così dire. Nell’Illuminismo l’utopia provenne da singoli intellettuali, nel Novecento dai partiti di massa. Non abbiamo più né gli uni né gli altri. L’utopia ci serve, ma le sue fonti si sono inaridite, e tocca trovarne di nuove. E non basterà dare ascolto ai pochi che tengono viva la fiammella.

Non basterà riattivare il dialogo fra politica e cultura che ha innervato la migliore politica di sinistra nel centrosinistra degli anni Sessanta o nell’Ulivo prodiano. Bisognerà invece fare uno sforzo maggiore di fantasia: non solo ascoltare acuti suggerimenti di avanguardie intellettuali, ma captare i bisogni inespressi o sfruttati da demagoghi populisti delle bolle che compongono la società globale.

Tutti, politici di buona volontà e intellettuali residui, dovrebbero provare non solo a elaborare una visione del futuro, ma a immergersi in un viaggio etnografico nel mondo che vota a destra e proporre a quel mondo una nuova ricetta. E non con postura ortopedica e pedagogica, ma con uno sforzo di comprensione partecipante.

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Per darsi un’anima la sinistra riprenda il tema della libertà

La sinistra europea appare debole di fronte alle destre anche perché il suo programma è poco più che una saggia lista di cose desiderabili. Per attirare gli elettori serve una filosofia politica capace di dare coerenza a valori e proposte

«Piuttosto debole»: così Carlo Trigilia giudica la risposta del Partito socialista europeo (Pse) alla sfida delle destre. Le proposte non sono all’altezza dei valori rivendicati, ha spiegato su Domani, e ciò anche a causa dello squilibrio strutturale dell’Unione europea, che ha accentrato la politica monetaria ma non quelle di bilancio e di protezione sociale. Le sue conclusioni sono infatti sulla «governance della Ue».

Un’altra ragione di delusione, a mio parere, è che al Pse manca una filosofia politica capace di ordinare valori e proposte in un sistema coerente, e di offrire agli elettori un orizzonte che essi possano quantomeno vedere, per decidere se è desiderabile e credibile. Neppure questo problema è nuovo, ma non è meno serio.

Trigilia riassume così i valori distintivi del Pse: «Stato di diritto, democrazia rappresentativa, lotta alle disuguaglianze e alle discriminazioni di ogni tipo, sviluppo inclusivo». Sono tutti condivisibili, ma cosa li tiene insieme? Che visione della società li anima? Non è chiaro, e ciò non aiuterà il Pse di fronte a destre che promettono rimedi semplici e radicali.

Eppure esiste una filosofia politica che potrebbe dare vita a quei valori, e orientarli coerentemente verso un orizzonte visibile. È quella repubblicana, o neo-repubblicana, della quale ho già scritto. A dispetto del nome non ha nulla in comune con Donald Trump, e relativamente poco con gli eredi politici di Ugo La Malfa. È una teoria politica fondata sulla concezione classica della libertà.

Padroni di se stessi

La concezione oggi prevalente, che riceviamo dalla tradizione liberale, fa coincidere la libertà con l’assenza di interferenze nelle nostre scelte («sono libero se nessuno mi forza a fare ciò che non voglio, o a non fare ciò che voglio»). Questa idea è pressoché spontanea e può sembrare convincente, ma ignora un punto cruciale: le asimmetrie di potere.

La concezione repubblicana intende invece la libertà come assenza di dominazione: se in qualche ambito della mia vita sono soggetto al potere incontrollato altrui, in quell’ambito non sono libero. Detto in termini positivi, per i repubblicani libertà significa essere padroni di se stessi, quantomeno nei principali ambiti della nostra vita.

Difficilmente sarà libero il lavoratore precario, per esempio, il cui reddito dipenda dalla scelta del datore di lavoro sul rinnovo del contratto; la discrezionalità rimessa al datore di lavoro, sulla quale il lavoratore non ha controllo, crea un’asimmetria di potere tale da intaccare lo status di persona libera che il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione promette a ciascuno. Il precariato è un tema tipico della sinistra, tra l’altro, che però mai lo declina come un problema di libertà, come invece manifestamente è.

La comparazione è semplice. Mentre la concezione liberale si preoccupa delle singole interferenze che possiamo subire nelle nostre scelte, quella repubblicana si preoccupa dell’origine di quelle interferenze: il potere di interferire nelle nostre scelte. È quindi una concezione che opera a un livello superiore, e di fatto include quella liberale.

Da essa discende quasi linearmente una teoria della giustizia, politica e sociale, che ci offre l’immagine di una democrazia nella quale i cittadini esercitino uguale ed efficace controllo su chi li governa, e di una società nella quale ciascuno possa camminare a testa alta tra i propri pari, guardando chiunque negli occhi senza ragione di timore o deferenza.

Una vera rivoluzione

Questi sono obiettivi lontanissimi, naturalmente, ma realistici. Perché ogni passo nella loro direzione, ogni politica pubblica che li persegua, darebbe risultati desiderabili di per sé, anche alla luce dei valori elencati sopra.

Infatti «stato di diritto [e] democrazia rappresentativa» sono strumenti per realizzare ciò che i repubblicani definiscono l’eguale controllo dei cittadini sui governanti, e sia la «lotta alle disuguaglianze e alle discriminazioni» sia lo «sviluppo inclusivo» sono politiche utili ad avvicinare ciascuno alla condizione di essere pienamente padrone di se stesso. Ognuna di queste politiche aggredirebbe un genere di asimmetrie di potere (e ridurle accelererebbe la crescita: ma di questo scriverò in seguito).

Presentare credibilmente un simile programma potrebbe sgonfiare le vele di molti demagoghi europei. Nella piccola palude del dibattito politico italiano l’effetto sarebbe dirompente, se qualcuno avesse il coraggio politico e intellettuale di impugnare con determinazione la bandiera della libertà (repubblicana).

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