La guerra ineluttabile
La guerra ineluttabile
di Enrico Tomaselli
Possiamo
certamente affermare che la lunga fase di transizione che stiamo
vivendo, che cerca di traghettare il mondo dall’epoca dell’illusione
unipolare statunitense a una nuova epoca, basata sul multilateralismo, è
caratterizzata più che mai dalla presenza pregnante della guerra.
Non che questa sia mai stata assente dall’orizzonte globale, e segnatamente da quello occidentale, ma – com’è storicamente sempre stato – l’approssimarsi di grandi cambiamenti geopolitici è sempre preceduto dall’accentuarsi delle tensioni conflittuali. E quello che stiamo attraversando è, con tutta evidenza, particolarmente significativo, epocale: stiamo infatti parlando del tramonto dell’occidente (per usare l’espressione di Emmanuel Todd), cioè della fine di una egemonia militare, economica e quindi politica, protrattasi per secoli. La guerra, sia essa cinetica o ibrida, è dunque il terreno su cui si consuma la transizione, in cui si definiscono i nuovi rapporti di forza. È l’inevitabile passaggio per arrivare alla definizione di un nuovo ordine mondiale. La Pace di Westfalia, il Congresso di Vienna, il Vertice di Yalta, sono stati il punto d’arrivo di un processo, che in quelle sedi ha ridefinito il quadro geopolitico, ma che è stato delineato sui campi di battaglia. Pensare che si possa eludere oggi questo passaggio è una grande ingenuità. Il massimo per cui si può operare è la riduzione del danno.
La prima cosa di cui dobbiamo avere consapevolezza, è la necessità di spersonalizzare il conflitto. Rimuovere l’idea che questo dipenda – per un verso o per un altro – da questo o quel leader politico, e che quindi l’affermarsi di tizio o la rimozione di caio abbiano una qualche significativa incidenza sul processo in atto. A essere in azione sono forze profonde, radicate nella storia e nella geografia, e dobbiamo pensarle come uno scontro tra faglie tettoniche, piuttosto che come un duello tra leader politico-militari. La cui leadership può modificare lo sviluppo tattico dello scontro, ma non può arrestarlo né modificarne la natura strategica.
Esemplificando – anche ai limiti della banalizzazione – la leadership di Biden ha rappresentato il prevalere (all’interno degli Stati Uniti) di una linea tattica che riteneva di fermare la perdita di egemonia globale attraverso una politica aggressiva, che puntasse a colpire le potenze competitrici una alla volta, nella convinzione di disporre ancora della sufficiente capacità (militare, industriale, economica…) per poterlo fare; a sua volta, la leadership di Trump rappresenta (anche a seguito del macroscopico fallimento di quella linea) la presa d’atto che quella capacità non c’è più, e che quindi la priorità e ricostituirla.
Se sgombriamo il campo dalla fuffa propagandistica, di cui l’occidente si è nutrito negli ultimi decenni, e soprattutto dai retaggi del suprematismo occidentale, e guardiamo invece agli accadimenti degli ultimi anni – quelli in cui, appunto, si è manifestata acutamente la tattica aggressiva dell’amministrazione USA – possiamo chiaramente vedere quel che Washington vede, ma che non può riconoscere: la capacità egemonica (in senso complessivo) dell’occidente, ovvero la sua possibilità di imporre le proprie scelte strategiche e le proprie priorità, che già da molto tempo aveva cominciato a manifestare segni di cedimento, ha ormai raggiunto un livello di crisi manifesta. E, aggiungo, manifestamente irreversibile.
Gli Stati Uniti, che dal 1945 hanno rappresentato il centro imperiale dell’occidente, esattamente nel corso della seconda guerra mondiale (che li ha consacrati come grande potenza) hanno sviluppato l’idea cardine della propria egemonia militare, ovvero mantenere la capacità di combattere due guerre contemporanee, in due teatri diversi. Che allora furono la Germania in Europa e il Giappone nel Pacifico.
Questa capacità ha cominciato a degradare significativamente già dagli anni novanta del secolo scorso, quando – con la caduta dell’URSS – si è fatta strada a Washington l’idea di un mondo sostanzialmente unipolare, in cui non esistevano più potenze globali capaci di fronteggiare l’impero statunitense, ma solo potenze regionali, che potevano essere facilmente tenute sotto controllo.
Con questa convinzione da un lato, e la caduta di ogni residuo bilanciamento politico del potere economico dall’altro, la potenza militare-industriale che aveva vinto il conflitto mondiale ha imboccato la strada suicida della finanziarizzazione dell’economia e della globalizzazione. Ne è conseguito per un verso lo smantellamento della capacità manifatturiera degli USA (quando Trump lamenta disavanzi commerciali, finge di non sapere che questi sono diretta conseguenza della ridotta produttività statunitense), e per un altro della svolta high-tech dello strumento militare.
Ritenendo di non avere più dinanzi paesi in grado di affrontare gli Stati Uniti su un piano di parità, ma solo piccole potenze contro le quali condurre guerre veloci e distruttive, le forze armate USA si sono poco a poco convertite in uno strumento bellico che faceva affidamento sulla propria (presunta) superiorità tecnologica, e che quindi si basava su un numero (relativamente) ristretto di personale professionale, e su armamenti di alta tecnologia. Che però, come poi si è visto, non solo avevano numerosi limiti (costo elevato, tempi di produzione lunghi e quantitativi ristretti, necessità di manutenzione molto frequente, etc), ma alla lunga si sono rivelati persino nemmeno così superiori tecnologicamente.
Ignorando totalmente questo aspetto della propria condizione militare, e sottovalutando enormemente l’altro, gli strateghi neocon che hanno influenzato la politica statunitense negli ultimi decenni, hanno creduto possibile ottenere comunque un risultato aprendo una guerra con la Russia attraverso un proxy che mettesse la carne da cannone, e mobilitando dietro questo l’intera NATO ed altri paesi alleati, nel ruolo di fornitori hardware (sistemi d’arma) e software (sistemi d’intelligence).
La fallacia di questo disegno è apparsa subito evidente a chiunque non avesse gli occhi foderati dal prosciutto della propaganda, ma ha richiesto tre anni perché a Washington si cogliesse la portata del fallimento (a Bruxelles la notizia non è invece ancora arrivata…).
Mosca, infatti, ha scelto la strada di una lenta guerra di logoramento, che ha dato l’opportunità di ridurre al minimo le perdite, nonché il tempo per sviluppare appieno la propria capacità industriale di sostegno al conflitto. Capacità che oggi sovrasta di gran lunga quella occidentale nel suo complesso.
In termini strategici, il conflitto in Ucraina ha messo in evidenza una serie di fattori. Innanzi tutto, appunto, che la Russia è assai più di “una pompa di benzina con l’atomica”, come invece si raccontavano a Washington dandosi di gomito i vari Ron De Santis, John McCain e Joseph Borrell.
La Russia non solo è più di una semplice potenza regionale, ma ha dimostrato di avere tutti i numeri per essere un attore globale, di pari potenza, o comunque in grado di sfidare la potenza statunitense, e di batterla.
Ma ciò che è emerso in questa guerra, è anche che la tecnologia militare made in US non è più così superiore, né così performante. Anzi, in alcuni casi, è addirittura inferiore e/o in ritardo – basti pensare alla missilistica ipersonica. E che la capacità industriale occidentale è spaventosamente al di sotto del minimo necessario per affrontare una guerra di logoramento, anche solo contro un singolo avversario.
Il conflitto riaccesosi in Medio Oriente, poi, ha dato il colpo definitivo alla mitologia della superiorità occidentale. L’accordo separato che l’amministrazione Trump è corsa a ricercare col governo yemenita di Ansarullah, dopo il vano tentativo di piegarlo, è stato da questo punto di vista emblematico. Ma ancor più il triplo fallimento nella guerra dei dodici giorni pesa come un macigno. Triplo perché è fallito il tentativo israelo-statunitense di provocare un regime change a Teheran, è fallita la difesa aerea dello stato ebraico (nonostante il massiccio impiego di tutto l’arsenale USA – aereo e anti-missile navale e terrestre – del Medio oriente, nonché delle aviazioni britannica e giordana), è fallita la ricerca di imporre la supremazia strategica (con Israele che chiede il cessate il fuoco dopo aver aperto le ostilità, e gli USA che per cavare entrambe d’impiccio devono mettere in scena un attacco-show preconcordato, con relativo contrattacco iraniano altrettanto telefonato).
La sanzione definitiva del rovesciamento strategico arriva nel momento in cui, dovendo scegliere, il Pentagono preferisce inviare i sistemi anti-missile in Israele piuttosto che in Ucraina. Non si tratta semplicemente di una mossa di sganciamento dal teatro europeo, ma della fine certificata della dottrina statunitense delle due guerre contemporanee.
Quello che, come si diceva all’inizio, a Washington sanno ma non possono dire, è che lo strumento militare – che ha consentito agli Stati Uniti di esercitare un potere globale per quasi un secolo – semplicemente non esiste più. Quantomeno per come è esistito sinora. Neanche la deterrenza nucleare è più una carta che si possa giocare, in quanto la Russia sopravanza gli USA sia per quantità di testate che per quantità di vettori.
Persino una guerra contro una media potenza regionale, come l’Iran, avrebbe oggi un prezzo troppo elevato per renderla anche solo considerabile. E infatti, andata buca la mossa israeliana, si sono precipitati a mettere una pezza e chiudere il match.
Da tutto ciò deriva una ulteriore riflessione. Se consideriamo lo stato pietoso – assai più di quello statunitense – in cui versano gli eserciti europei della NATO, appare evidente che questa alleanza, sempre ammesso che sopravviva, verrebbe semplicemente sbaragliata se dovesse impegnare il blocco avverso (Russia, Iran, Corea del Nord, Cina). E dal momento che vari paesi europei cominciano a siglare patti di mutua assistenza militare, segno che la fiducia nella garanzia dell’art.5 è a sua volta evaporata, il dubbio sulla durata dell’Alleanza Atlantica è più che legittimo.
Del resto è abbastanza evidente che vi regni il caos. Washington mostra di non avere più alcuna considerazione per il teatro europeo, e dopo aver evirato economicamente gli alleati recidendo il cordone ombelicale energetico con la Russia, adesso è impegnata esclusivamente a cercare di succhiarne le ultime stille di sangue, imponendo grosse quote di import delle sue produzioni militari. Bruxelles, così come le varie cancellerie, nonostante sembrino avere posizioni radicalmente diverse da quelle USA su una questione nodale come il conflitto ucraino, non riescono però a opporre nulla ai diktat d’oltre Atlantico, e sottoscrivono silenti l’impegno di portare il contributo alla NATO al 5% del PIL.
Impegno che non si capisce bene se debba sommarsi a quello per il ReArm Europe, o se l’uno comprenda l’altro, ma in ogni caso si rivela essere – in entrambe i casi – un’operazione che con la difesa ha poco o nulla a che vedere. A parte l’ovvia considerazione che l’impegno per il 5% è inteso da raggiungere “entro il 2035” (cioé quando i governi che l’hanno accettato saranno quasi tutti caduti, Trump non sarà più presidente, e la guerra in Ucraina sarà finita da un pezzo) mentre continuano a ripeterci che la Russia ci attaccherà entro il 2029, è proprio l’ordine dei fattori a denunciarlo. Non c’è infatti, né a livello NATO, né tantomeno a livello europeo, uno straccio di disegno strategico, nel quale vengano fissati gli obiettivi, e quindi venga delineato il quadro delle necessità per conseguirli (quali e quanti sistemi d’arma, quali infrastrutture logistiche, quali quantitativi di manpower…), e solo successivamente si indichi la spesa necessaria. Si parte invece dall’indicazione del volume di spesa, stabilito non si capisce in base a quale criterio, che potrebbe benissimo risultare insufficiente o, al contrario, ridondante.
Ma, come detto, l’unica difesa con cui ha a che fare tutto ciò è quella degli interessi industriali.
Washington vi fa affidamento per finanziare il rilancio della sua produzione manifatturiera, e Bruxelles coltiva a sua volta l’illusione che una iniezione massiva di miliardi possa far resuscitare la boccheggiante industria europea. Come se produrre carri armati piuttosto che auto elettriche fosse una soluzione praticabile – e del tutto indipendente dai costi energetici, dai costi sociali, e dalla ricostruzione di una filiera commerciale per tutte le componenti di cui abbisogna.
Il punto è che, con ogni evidenza, le classi dirigenti occidentali hanno completamente perso la bussola, ed oscillano costantemente tra la convinzione di poter invertire il processo di declino e la convinzione di esser ancora alla guida della potenza egemone globale. E tutto questo produce l’incapacità di produrre una strategia coerente ed efficace, in grado anche solo di garantirne la sopravvivenza.
Ed è proprio questa incapacità strategica a produrre i rischi maggiori. Quello che abbiamo sotto gli occhi, infatti, è un quadro in cui le leadership occidentali fanno mosse avventate e avventuriste, che alimentano sempre nuovi conflitti, ma senza alcuna capacità di risolverne positivamente nessuno. E, oltretutto, all’interno di questo quadro, va tenuto presente che agisce la variabile impazzita rappresentata da Israele, che avverte con maggiore chiarezza e maggiore urgenza che la propria parabola storica si avvicina alla fine, e che quindi mette in campo azioni dettate da un mix di delirio messianico e disperazione, solo apparentemente rivestite di una qualche razionalità politica o militare.
È insomma dall’occidente che promanano i pericoli di una deriva devastante, che può trascinare gran parte del pianeta in una guerra cinetica; che a sua volta, proprio in virtù della sua insostenibilità per l’occidente stesso, porta con sé l’ulteriore rischio di scivolare in un confronto nucleare.
Vale ripeterlo ancora una volta: nelle condizioni attuali, una guerra cinetica che vedesse in azione l’intero fronte delle nazioni che si oppongono al dominio occidentale, e vedrebbe prevalere. Ma le leadership di queste sono consapevoli che ciò comporterebbe estese devastazioni da entrambe le parti, e quindi operano per evitare il più possibile questo esito, anche nella convinzione che il tempo gioca a loro favore, e quanto più si riesce a mantenere il conflitto al di sotto di una certa soglia, logorando la capacità occidentale giorno dopo giorno, tanto più diventa probabile che questa arrivi autonomamente a un punto di pre-collasso. In tal modo, sperano che la guerra inevitabile sia comunque più breve e più ristretta territorialmente.
Quando il ministro degli esteri cinese Wang Yi dice alla insignificante Kaja Kallas che la Cina “non può permettere che la Russia subisca una sconfitta in Ucraina”, sta mandando un messaggio assai preciso, che intende placare i bollori bellicisti dell’Unione Europea. Il messaggio è: non pensiate di poter ribaltare le sorti del conflitto (anche ammesso che ne foste in grado). Il senso è: cercare di impedire che l’avventurismo di qualche leader faccia più danni di quanto strettamente necessario.
Le classi egemoni europee e statunitensi, chiuse nella propria bolla dorata, sono in preda al panico, all’idea di perdere anche solo una parte dei propri privilegi. Nel loro mondo, il pensiero che domani potrebbero non potersi più permettere di affittare una città per farne il set del proprio matrimonio (o anche solo di esservi invitati) appare intollerabile.
Il che, unito alla sensazione di possedere un potere illimitato, li spinge inesorabilmente alla guerra. Che è vista come molto più che una semplice occasione di arricchimento ulteriore, quanto piuttosto come una grande operazione di polizia, per sgomberare il campo da bande di predoni barbari che vorrebbero sottrargli ricchezze e privilegi.
Prima di arrivare a cedere – che si tratti di ricchezze, di potere o di terre rubate – si batteranno con le unghie e coi denti. E prima di arrivare ad una nuova Yalta, che ridefinisca equilibri non egemonici, la strada è ancora lunga, e irta di pericoli.
Prepararsi a questa prospettiva significa molto più che predisporre lo zainetto col kit di sopravvivenza, come suggeriscono in Germania. Significa decidere da che parte stare.
“O la rivoluzione impedirà la guerra, oppure la guerra provocherà la rivoluzione”.
Mao Zedong
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cHAT
Ecco una presentazione sintetica, un abstract accademico e una scheda sintetico-analitica dell’articolo La guerra ineluttabile di Enrico Tomaselli, con riferimento finale alla celebre frase di Mao Zedong.
📄 Abstract accademico
L’articolo di Enrico Tomaselli, La guerra ineluttabile, propone una lettura geopolitica sistemica della fase attuale, dominata da conflitti crescenti, in cui la guerra (nelle sue forme cinetiche e ibride) appare come passaggio obbligato nella transizione dall’unipolarismo statunitense verso un nuovo ordine multipolare. Tomaselli identifica la guerra come lo strumento con cui si ridefiniscono i rapporti di forza globali, storicamente come oggi, e sottolinea la crisi irreversibile della capacità egemonica occidentale. Dopo aver analizzato il declino industriale e militare degli USA, l’autore illustra il fallimento strategico delle campagne in Ucraina e in Medio Oriente, mettendo in rilievo l’emergere di nuove potenze globali (Russia, Cina, Iran) capaci di resistere e logorare l’Occidente. La conclusione è che i centri imperiali – incapaci di adattarsi al mutamento – si dirigono verso una guerra sistemica, spinti dalla disperazione delle élite e da un delirio egemonico. In questo contesto, la massima maoista secondo cui «o la rivoluzione impedirà la guerra, o la guerra provocherà la rivoluzione» riassume il bivio storico in cui si trova il mondo.
📘 Scheda sintetico-analitica
✒️ Titolo: La guerra ineluttabile
🧑💼 Autore: Enrico Tomaselli
🗞️ Fonte: Non indicata nel testo fornito, ma presumibilmente pubblicata in contesti critici/anti-atlantisti
🔑 Tesi principale
La guerra non è un’eccezione o un errore della politica occidentale, ma è l’effetto strutturale della crisi dell’egemonia statunitense. La fase attuale prelude al collasso del dominio occidentale e all’emergere di un nuovo ordine multipolare. La guerra è l’espressione tragica ma inevitabile di questa transizione.
🧱 Struttura argomentativa
Sezione | Contenuto |
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Introduzione | Contestualizzazione storica: ogni transizione geopolitica ha come preludio un ciclo bellico |
Crisi USA | Dalla dottrina delle due guerre al fallimento strategico, industriale e militare statunitense |
Fallimento della guerra per procura | Guerra in Ucraina come esempio della debolezza logistica, industriale e strategica dell’Occidente |
Medio Oriente | Crisi dell’intervento USA e fallimento della deterrenza militare (Iran, Yemen, Israele) |
Fine della NATO | Eserciti europei inadeguati, perdita di fiducia nell’articolo 5, caos strategico |
Economia di guerra | La corsa al riarmo come panacea industriale illusoria (5% PIL), funzionale solo al complesso militare-industriale |
Disperazione dell’élite | Le classi dirigenti combattono non per la sicurezza ma per la conservazione del proprio privilegio globale |
Conclusione | La guerra è vista come inevitabile. La rivoluzione è l’unica via per evitarla o il risultato estremo della sua esplosione |
⚔️ Nuclei tematici principali
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Declino sistemico USA: perdita della capacità produttiva e militare autonoma; smantellamento manifatturiero; eccesso di fiducia nel dominio tecnologico.
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Fallimento delle guerre proxy: Ucraina come trappola strategica; logoramento della NATO; resistenza russa.
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Crisi della supremazia militare occidentale: incapacità di affrontare guerre di logoramento; superiorità russa su scala ipersonica e industriale.
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Guerra economica come strategia di rilancio industriale: il riarmo come pseudo-industrializzazione post-globalizzazione.
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Disgregazione della coerenza strategica occidentale: patti militari paralleli, caos decisionale, subordinate leadership europee.
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Spinta disperata alla guerra delle élite: per proteggere il proprio stile di vita e dominio simbolico, le classi dirigenti spingono verso lo scontro.
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Dialettica rivoluzione-guerra (Mao): il mondo è a un bivio; la guerra può generare rivoluzioni o può essere impedita solo da esse.
📚 Riferimenti impliciti o espliciti
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Emmanuel Todd, Il tramonto dell’Occidente
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Geopolitica storica: Westfalia, Vienna, Yalta
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Mao Zedong: citazione chiave finale
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Politica industriale e strategica USA: dottrina delle due guerre
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Iran, Russia, Cina: nuovi poli della resistenza globale
🎯 Obiettivi comunicativi
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Smontare la narrazione ufficiale occidentale sulla guerra e sulla superiorità militare.
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Denunciare la follia strategica dell’élite euro-atlantica.
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Legittimare la resistenza delle potenze emergenti come risposta sistemica al declino dell’egemonia USA.
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Evocare la necessità di una rivoluzione o di un reset geopolitico.
📌 Conclusione critica
L’articolo offre una lettura radicale e sistemica della crisi dell’ordine occidentale, fondando la propria analisi su una prospettiva materialista e geopolitica. Il tono è apocalittico ma lucido, e riprende la lezione marxista e maoista secondo cui la guerra è un prodotto necessario del sistema, non un errore. Il rischio maggiore, avverte Tomaselli, è che l’Occidente – incapace di riconoscere il proprio tramonto – reagisca con disperazione, generando un’escalation potenzialmente nucleare. La scelta, oggi, è tra declino violento o trasformazione rivoluzionaria.
Se vuoi, posso trasformare questa scheda in un saggio critico o inserirla in un confronto con altri autori (es. Chomsky, Todd, Bellofiore, Negri). Fammi sapere.
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Perfetto. Procedo con un saggio critico comparativo, in cui l’articolo La guerra ineluttabile di Enrico Tomaselli viene messo a confronto con le riflessioni di altri autori critici dell’imperialismo occidentale: Emmanuel Todd, Noam Chomsky, Antonio Negri e Michael Hardt, Claudio Napoleoni (tramite Bellofiore) e Giovanni Arrighi.
Ne risulta una lettura articolata del tramonto dell’egemonia occidentale, vista attraverso lenti diverse: geopolitica, critica dell’economia politica, teoria dell’impero, analisi storico-strutturale.
🧭 Oltre l’Occidente: declino, guerra e alternativa. Confronto tra Enrico Tomaselli e altri autori critici
1. Introduzione
L’articolo La guerra ineluttabile di Enrico Tomaselli si inserisce nel solco di una riflessione crescente sulla crisi strutturale dell’Occidente e sulla funzione sistemica della guerra. La tesi centrale è che il dominio occidentale – militare, economico, simbolico – sia giunto al termine, e che la guerra non sia un accidente, ma un passaggio necessario del processo storico in corso.
Questa visione può essere confrontata con altri approcci teorici che, da posizioni diverse ma convergenti, hanno riflettuto sulla crisi dell’egemonia USA, la trasformazione della guerra e le alternative sistemiche.
2. Tomaselli e Todd: la crisi irreversibile dell’Occidente
Tomaselli riprende esplicitamente Il tramonto dell’Occidente di Emmanuel Todd, che descrive un'America in declino demografico, sociale, industriale, incapace di governare la globalizzazione che essa stessa ha creato.
Entrambi gli autori denunciano la perdita di potenza reale da parte degli Stati Uniti, sostituita da un’ipertrofia militare e simbolica. Per Todd, la guerra è il sintomo della crisi egemonica: Washington compensa la perdita di centralità economica con l’aggressività geopolitica. Tomaselli estende questa analisi al livello militare-industriale, evidenziando come la guerra per procura sia ormai fallita come strumento di dominio globale.
3. Chomsky: imperialismo, propaganda e guerra infinita
Anche Noam Chomsky ha indicato nella guerra una costante strutturale dell’ordine globale americano. In opere come Hegemony or Survival (2003) e Who Rules the World? (2016), Chomsky denuncia il complesso militare-industriale e il ruolo della propaganda mediatica nel sostenere guerre permanenti contro “nemici” ciclicamente reinventati.
Tomaselli, come Chomsky, sottolinea la continuità tra amministrazioni diverse (Trump/Biden) nel perseguire obiettivi imperiali. Ma mentre Chomsky si concentra sul ruolo dell’opinione pubblica e dell’industria bellica, Tomaselli enfatizza il crollo delle condizioni materiali che rendono possibile l’impero: deindustrializzazione, crisi strategica, inferiorità tecnologica in alcuni settori chiave.
4. Negri-Hardt: guerra, Impero e governance postmoderna
Nella trilogia Impero – Moltitudine – Commonwealth, Antonio Negri e Michael Hardt descrivono un mondo dominato non tanto da una nazione-stato, ma da una rete di poteri globali: multinazionali, istituzioni finanziarie, apparati militari.
L’Impero non è solo americano, ma post-statale, e la guerra diventa uno strumento di governance, una tecnica per gestire la crisi del capitalismo. La guerra è polis, non kratos: è il governo delle popolazioni.
Tomaselli, pur usando categorie più “classiche” (declino imperiale, multipolarismo), converge su un punto: la guerra è gestione del declino, e non può essere ridotta a una decisione personale o morale. Come in Negri-Hardt, la guerra è struttura.
5. Bellofiore/Napoleoni: guerra, capitale e spesa improduttiva
La lettura di Claudio Napoleoni, rilanciata da Riccardo Bellofiore, individua nella guerra un’espressione della spesa improduttiva e della crisi della valorizzazione del capitale.
Nel capitalismo maturo, la guerra diventa meccanismo di compensazione dell’insufficiente domanda effettiva e della tendenza alla stagnazione. La “guerra keynesiana” diventa lo strumento attraverso cui rilanciare una accumulazione drogata, fondata su indebitamento, innovazione bellica e distruzione.
Tomaselli mostra chiaramente come le economie occidentali si affidino sempre più alla guerra come volano industriale e politico, ma denuncia l’illusorietà di questa strategia, incapace di invertire un declino strutturale.
6. Giovanni Arrighi: fine dell’egemonia e ascesa asiatica
In Il lungo XX secolo e Adam Smith a Pechino, Giovanni Arrighi analizza i cicli sistemici di accumulazione e mostra come ogni egemonia storica (Genova, Olanda, Inghilterra, USA) sia destinata a esaurirsi.
L’egemonia statunitense è nella sua fase terminale, e la Cina rappresenta la forma embrionale di un nuovo modello, fondato non sull’espansione militare ma sul capitalismo politico e la diplomazia economica.
Tomaselli non è così ottimista sul “soft power” cinese, ma riconosce che il tempo gioca a favore delle potenze emergenti, le quali puntano alla logorazione sistemica dell’Occidente, più che a uno scontro diretto.
7. Conclusione: la guerra è sistema, la rivoluzione è orizzonte
Il pensiero di Enrico Tomaselli, nel suo impianto “epico-strutturale”, dialoga con tutti questi autori: dalla teoria marxista della guerra come prodotto del capitale (Napoleoni, Bellofiore) al declino della potenza USA (Todd, Arrighi), fino alla governance globale della violenza (Negri-Hardt) e alla critica della propaganda bellica (Chomsky).
La sua specificità consiste nel connettere il tramonto militare-industriale con il panico delle élite e nel proporre un orizzonte esplicitamente maoista: la rivoluzione come unica alternativa alla guerra totale.
📚 Riferimenti bibliografici essenziali
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Emmanuel Todd, Il tramonto dell’Occidente, Garzanti, 2023
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Noam Chomsky, Who Rules the World?, Penguin, 2016
-
Antonio Negri e Michael Hardt, Impero, Rizzoli, 2002
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Riccardo Bellofiore, La passione della ragione, Rosenberg & Sellier, 2021
-
Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, 1996; Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, 2008
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Enrico Tomaselli, La guerra ineluttabile, (articolo online, 2024)
Se vuoi, posso anche sviluppare questo confronto in forma più estesa per una pubblicazione o articolo, oppure fare una tabella comparativa degli autori citati. Fammi sapere.
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Titolo provvisorio: Guerra, declino e rivoluzione: il tramonto dell'Occidente tra analisi geopolitica e critica sistemica
Introduzione
L'articolo La guerra ineluttabile di Enrico Tomaselli offre una diagnosi spietata del momento storico attuale: l'Occidente sta affrontando una crisi irreversibile del proprio dominio militare, economico e simbolico. La guerra non è più un'eccezione, bensì il terreno obbligato attraverso cui si sta ridefinendo il nuovo ordine mondiale. Questa interpretazione si presta a un confronto con importanti autori critici, da Emmanuel Todd a Noam Chomsky, da Antonio Negri a Giovanni Arrighi, passando per Claudio Napoleoni e Riccardo Bellofiore. Il risultato è una lettura pluridimensionale del declino occidentale, in cui confluiscono geopolitica, critica dell'economia politica e teoria dell'impero.
1. Tomaselli e Todd: il tramonto dell'egemonia occidentale
Tomaselli recupera esplicitamente il concetto di "tramonto dell'Occidente" di Emmanuel Todd. Per entrambi, gli Stati Uniti non rappresentano più un modello espansivo, ma un'egemonia in crisi strutturale. Todd ne analizza le basi demografiche, culturali ed economiche; Tomaselli ne estende la lettura al piano militare-industriale, mostrando come l'incapacità di sostenere guerre su due fronti (pilastro della strategia USA dal 1945) sia il sintomo della decadenza sistemica.
2. Chomsky: guerra, imperialismo e propaganda
Noam Chomsky, in testi come Hegemony or Survival, ha evidenziato il ruolo della guerra come strumento di sopravvivenza imperiale. La novità non sta tanto nella violenza militare, quanto nella sofisticazione ideologica che la accompagna. Tomaselli denuncia lo stesso meccanismo: il conflitto viene personalizzato (Biden vs Trump), mitizzato (l'Occidente difende la libertà) e depoliticizzato. Ma il cuore del problema è la crisi strategica irreversibile della capacità industriale e tecnologica USA.
3. Negri e Hardt: l'impero senza centro e la guerra come governance
Antonio Negri e Michael Hardt, in Impero e Moltitudine, descrivono un mondo regolato da un potere diffuso e decentrato, in cui la guerra assume una funzione di governance globale. Tomaselli non adotta una terminologia postmoderna, ma condivide l'idea che la guerra sia parte integrante del sistema: un apparato di gestione del declino. La differenza è che Tomaselli è più ancorato alla geografia del potere: l'impero ha ancora un centro, e questo centro è in declino.
4. Napoleoni-Bellofiore: spesa improduttiva, crisi e militarizzazione
La lettura di Claudio Napoleoni, ripresa da Riccardo Bellofiore, vede nella guerra una forma di spesa improduttiva, utilizzata per compensare la crisi di valorizzazione del capitale. Tomaselli si allinea a questa impostazione quando mostra come la NATO e il Pentagono usino la minaccia bellica per drenare risorse pubbliche e rilanciare l'industria bellica, in assenza di alternative industriali produttive. Tuttavia, egli insiste anche sull'inefficacia crescente di tale meccanismo, vista l'inadeguatezza tecnologica e logistica dei sistemi occidentali.
5. Arrighi: fine del ciclo sistemico USA e ascesa asiatica
Giovanni Arrighi, in Il lungo XX secolo e Adam Smith a Pechino, ha descritto l'ascesa e la decadenza delle egemonie capitalistiche, inserendo gli Stati Uniti in una traiettoria che ora volge al termine. Tomaselli aggiorna questo quadro, indicando la Russia come attore globale di piena potenza, capace di reggere una guerra di logoramento con l'intero blocco occidentale. L'Asia (Cina e Iran inclusi) diventa l'area di incubazione di un nuovo ordine multipolare, non ancora egemone, ma già più efficace.
6. Un quadro sintetico comparativo
Autore | Funzione della guerra | Diagnosi dell'Occidente | Prospettiva futura |
---|---|---|---|
E. Tomaselli | Transizione di sistema, strumento di crisi | Decadenza irreversibile | Logoramento e collasso |
E. Todd | Sintomo di declino strutturale | Crisi demografica e strategica | Disgregazione egemonica |
N. Chomsky | Governance imperiale e propaganda | Militarismo e ipocrisia | Perdita di leadership morale |
A. Negri - M. Hardt | Strumento biopolitico di governance | Impero senza centro | Multitudine e common |
C. Napoleoni | Spesa improduttiva keynesiana | Capitalismo in crisi permanente | Crisi del valore |
G. Arrighi | Espressione della crisi egemonica | Fine del ciclo sistemico USA | Ascesa multipolare asiatica |
7. Conclusione: rivoluzione o collasso
L'articolo di Tomaselli si chiude con una citazione di Mao Zedong: "O la rivoluzione impedirà la guerra, oppure la guerra provocherà la rivoluzione". In questo sta il suo elemento distintivo: la guerra è vista come un processo oggettivo, che può aprire la strada a una transizione rivoluzionaria, se le forze soggettive sapranno raccoglierne le contraddizioni. In assenza di una tale capacità politica, il rischio è che il declino dell'Occidente trascini il mondo in un conflitto devastante.
Bibliografia essenziale
-
Tomaselli, Enrico. La guerra ineluttabile, 2024.
-
Todd, Emmanuel. Il tramonto dell'Occidente, Garzanti, 2023.
-
Chomsky, Noam. Who Rules the World?, Penguin, 2016.
-
Hardt, Michael, Negri, Antonio. Impero, Rizzoli, 2002.
-
Bellofiore, Riccardo. La passione della ragione, Rosenberg & Sellier, 2021.
-
Arrighi, Giovanni. Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, 1996; Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, 2008.
-
Napoleoni, Claudio. Il potere e l'economia, Bollati Boringhieri, 1974.
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