L’umanità dall’evoluzione all’ebollizione


L’umanità dall’evoluzione all’ebollizione

La crisi climatica fa sì che entro la fine del secolo le temperature non potranno essere tollerate dal corpo. Per i bambini questo scenario è già reale. Contromisure? Ci sono

Avete un’idea del perché, non solo gli scienziati del clima, ma anche noi medici siamo sempre più preoccupati per il riscaldamento del nostro pianeta? È piuttosto semplice, ci stiamo rendendo conto di come il nostro organismo sia più vulnerabile all’aumento della temperatura di quanto pensavamo fino a qualche anno fa. E che c’è un limite alla nostra capacità di resistere al caldo — e questo è logico, direte voi — ma ci arriveremo mai? Sì. Stando alle previsioni che tengono conto di quello che è successo negli ultimi decenni, quella soglia la raggiungeremo nel 2070, quantomeno in Cina, ed entro la fine del secolo nelle aree del Golfo, dell’India e del Sud-est asiatico. A quel punto quasi due miliardi di persone dovranno fare i conti con una temperatura che il nostro corpo non può tollerare: ci saranno più morti di caldo che di malattie infettive, di cancro e di malattie del cuore. Così tutti i ragionamenti che facciamo su migranti e migrazioni si infrangeranno contro una realtà inesorabilmente più forte delle ideologie e dei nazionalismi.

Ma c’è un’altra domanda a cui i dottori, e non solo loro, vorrebbero poter dare una risposta: «Quale sarà il futuro per i bambini che nascono adesso o per quelli che sono nati anche solo quattro o cinque anni fa?». Medici di Bruxelles, Lovanio, Zurigo, con scienziati di altre università, incluso quelle del Canada, hanno provato a rispondere. Il lavoro è stato pubblicato proprio in questi giorni su «Nature». Cominciamo col dire che un miliardo — avete letto bene: un miliardo — dei bambini del mondo vivono già oggi in aree ad altissimo rischio di ondate di calore, alluvioni, siccità, incendi, tempeste tropicali, cicloni (che spazzano via case e scuole, al punto che milioni di bambini non potranno avere accesso a qualunque forma di istruzione). Non solo, questi studiosi e altri — c’è sul «Lancet» di questi giorni — hanno calcolato che, rispetto a quelli del 1960, i bambini nati nel 2020 avranno da due a sette volte più probabilità di essere esposti durante la loro vita a eventi climatici estremi. E non basta. In base ai calcoli degli scienziati del clima, alla fine di questo secolo (a meno che non cambi qualcosa) arriveremo a un aumento di 3,5 gradi di temperatura. Se sarà così il 92% dei bambini nati negli ultimi quattro o cinque anni avranno problemi di salute, certo, ma persino di sopravvivenza.

E se invece riuscissimo a rispettare l’accordo di Parigi, e non superare il limite di 1,5 gradi di temperatura? A parte che già oggi siamo arrivati tra 1,5 e 1,6, anche in questo caso, pure estremamente improbabile, 50 milioni di bambini nel mondo soffriranno di eventi climatici estremi. L’aumento delle temperature poi espone al rischio di aborti, di parti pretermine e di bambini con basso peso alla nascita. Queste circostanze predispongono a malattie negli anni successivi, senza contare che più aumenta la temperatura più si diffondono malattie come la malaria, il virus della dengue, il virus Zika, il virus Chikungunya che mettono a rischio la vita dei bambini e soprattutto dei bambini piccoli, e le loro famiglie saranno costrette a migrare, come sta già succedendo e come è sempre stato nella storia dell’uomo. Glielo possiamo impedire? Con che coraggio? Se pensate che in una lettera che i vescovi della Bolivia avevano scritto al Papa già 13 anni fa si legge che «i Paesi che hanno tratto beneficio da un alto livello di industrializzazione, a costo di un’enorme emissione di gas serra, hanno maggiore responsabilità di contribuire alla soluzione dei problemi che hanno causato. Di fatto il deterioramento dell’ambiente o della società colpisce in modo speciale i più deboli del pianeta». Per inciso, la Bolivia, dove sono spariti i ghiacciai anche a 5 mila metri, produce solo lo 0,004% delle emissioni globali; e mentre loro soffrono per la siccità e la mancanza di acqua, le nostre abitudini di vita, giorno dopo giorno, generano 1.737 tonnellate di CO2; basta e avanza per mettere a rischio la salute di tutti noi e la sopravvivenza stessa dell’uomo.

«Dobbiamo essere per forza così pessimisti?». Se lo fossimo avremmo già smesso di fare ricerca, ma è tempo di prendere atto con realismo e consapevolezza di quello che succederà ai bambini di oggi se non ci muoviamo subito; tutti insieme e in tutto il mondo, per far sì che il riscaldamento della terra si limiti davvero a 1,5 gradi. Se ci dovessimo riuscire, saranno i bambini delle regioni più disagiate quelli che ne trarranno i maggiori benefici.

Per ottenere questo risultato, però, è necessario che politiche del clima, leggi e distribuzione delle risorse abbiano attenzione anche ai bambini; per ora non è così, in base a un rapporto del Centro EuroMediteranno e del Grantham Institute di Londra appena pubblicato su cambi del clima e salute dei bambini.

Le cose da fare le sappiamo ormai fin troppo bene:

1. Agglomerati urbani: progettare le città perché sappiano proteggerci dal caldo (va in questa direzione una importantissima sperimentazione avviata dall’Università Milano-Bicocca); depavimentazione delle piazze, verso la transizione verde utilizzo del terriccio di origine vegetale fatto per ridurre sensibilmente le conseguenze del calore da asfalto e cemento.

2. Alimentazione: cambiare il modo di alimentarci, dato che l’agroalimentare contribuisce per il 30% al riscaldamento globale; basti pensare che solo nel 2022 e solo in rapporto al nostro modo di mangiare, si è arrivati a più di 16 miliardi di tonnellate di CO2.

3. Energia: si può prendere esempio da Spagna e Portogallo, da loro il 60% dell’energia viene da fonti rinnovabili e questo ha ridotto considerevolmente i costi, ha aumentato i posti di lavoro, e portato a una crescita dell’economia. 4. Biodiversità: un bellissimo lavoro appena pubblicato su «Science» dimostra che alimentare la biodiversità è una conditio sine qua non per assicurare a uomo, animali e piante un ecosistema integrato che sappia portare a un futuro di benessere.

La crisi che stiamo attraversando sta trasformando la terra, e la nostra risposta dovrebbe essere altrettanto transformative, secondo un articolo pubblicato già da qualche anno da ricercatori di Cile e Nord America. A questo punto scienziati e politici dovrebbero lavorare insieme, raccogliere le migliori evidenze scientifiche e convertirle in decisioni che sappiano davvero proteggere il Pianeta. Come minimo andrebbe onorato un altro degli impegni presi a Parigi nel 2015: non superare i 2 gradi di aumento di temperatura. Non ci siamo ancora arrivati, per fortuna, ma ci siamo molto vicini. E allora? Vanno ripensati i principi fondamentali cui hanno fatto riferimento finora le nostre civiltà e si potrebbe persino dover mettere in discussione l’idea della proprietà delle terre e dei mari. «Ma è quello su cui si sono basati il progresso e la crescita del genere umano!», direte voi. Vero, ma continuare come abbiamo sempre fatto è rischioso: la Terra è un intricato sistema di relazioni tra clima, uomo, animali e piante. E l’uomo non è necessariamente al centro dell’universo; a dirla tutta, è proprio l’esserci considerati il perno attorno a cui ruota tutto la causa di quello che stiamo vivendo. Sessantasei milioni di anni fa sono scomparsi i dinosauri, che allora dominavano la Terra (proprio come noi oggi). Molto probabilmente è stato un asteroide, oggi l’asteroide siamo noi. Il lavoro di «Science»di cui parlavamo prima finisce con un riferimento alla cilena Gabriela Mistral, premio Nobel per la Letteratura nel 1945: Humanity is yet to

l’umanità dev’essere ancora umanizzata.

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