Tripolarità senza catastrofe
Tripolarità senza catastrofe
di Salvatore Minolfi
Storditi
da un trentennio di monocultura unipolare, ci siamo largamente
disabituati a ragionare di potere, il cui perimetro definitorio è andato
sempre più sfumando negli ampi e rilevanti territori circostanti, per
confondersi, di volta in volta, con la potenza industriale, la ricchezza
finanziaria, la forza commerciale, l’esuberanza demografica,
l’innovazione high tech, il fascino ideologico, ecc. Disabitudine
insostenibile se rapportata a un tempo storico la cui cifra dominante è
rappresentata da una crisi conclamata dell’ordine internazionale, la cui
severità è testimoniata non solo dai sorprendenti sviluppi che pure la
punteggiano, ma anche dai sempre più vistosi disaccordi che emergono
quando si discute della forma che il mondo stesso oggi presenta o va
tendenzialmente assumendo in conseguenza di questa crisi. In breve,
l’incertezza investe non solo i tradizionali parametri di analisi, ma la
realtà stessa, poiché fornisce spesso indicazioni contraddittorie e ci
costringe a fare i conti con l’elusività che sembra avvolgere il potere
nella sua forma più alta e distillata. È su questo livello che ha senso
avventurarci, rinunciando per ciò stesso alle più diffuse e confortevoli
semplificazioni.
Negli Stati Uniti – l’unico paese dove l’analisi del potere e la riflessione strategica non si sono mai interrotte – le divergenze sono tali da coprire pressoché l’intero spettro delle rappresentazioni possibili, ciascuna delle quali porta con sé, inevitabilmente, orientamenti e prescrizioni differenti per l’agire politico delle classi dirigenti.
Potere e influenza
Mi riferisco, innanzitutto, al fatto che la riflessione sul potere oscilla (ormai da più di mezzo secolo) tra due diversi campi semantici: il potere come “capacità” e il potere come “influenza”.
Nel primo caso, prevale una visione strutturale, che valuta il potere come insieme di risorse materiali, come qualcosa di intrinseco alle cose tangibili, misurabile come la ricchezza, la demografia, le forze armate, la tecnologia. Di conseguenza, lo studio del potere si risolve prevalentemente nell’analisi della distribuzione delle risorse tra gli attori del sistema internazionale, ben sapendo, tuttavia, che le risorse materiali, poiché rappresentano in origine solo un potenziale (un potere latente), devono essere “convertite” per generare un effettivo potere politico-militare: un processo di conversione che ha alla propria origine il momento soggettivo della deliberazione politica e della costruzione di un discorso. Inoltre, nonostante l’apparente semplicità dell’approccio, considerare il potere come “capacità” lascia interamente irrisolto il problema di come misurarlo, se è vero – come è stato dimostrato – che, tra il 1936 e il 2010, studiosi e analisti governativi hanno elaborato almeno 69 differenti frameworks di misurazione della potenza (quarantadue dei quali erano composti da una diversa combinazione dei tradizionali indicatori lordi)i.
Nel secondo caso – il potere inteso come “influenza” – prevale una dimensione immateriale, l’analisi delle politiche e delle strategie per produrre “risultati”, influenzando o condizionando i comportamenti degli altri attori e inducendoli a fare ciò che altrimenti non farebbero. In questo approccio, l’elemento soggettivo della volontà, della determinazione e dell’abilità nella costruzione del consenso, delle pratiche e delle istituzioni (e, più in generale, di quel “soft power” di cui oggi, significativamente, nessuno parla più) risultano naturalmente più valorizzati. Questa circostanza, tuttavia, non garantisce che l’interpretazione del potere come “influenza” prospetti una via più semplice nell’analisi della realtà internazionale.
È proprio dalla tensione tra questi due diversi approcci – e dal mutevole equilibrio degli elementi – che derivano le differenti valutazioni sulla configurazione del potere internazionale, in un’epoca attraversata dal caos della transizione. A prevalere sono innanzitutto tre diverse prospettive.
Nel primo caso, un’analisi ragionata e costruita su elementi (senza alcun dubbio solidi) del potere strutturale americano spinge alcuni importanti studiosi a teorizzare la perdurante configurazione unipolare del mondoii. Essendo totalmente schiacciata sulla lettura del potere come “capacità”, questa prospettiva non è in grado, però, di accordare un’adeguata considerazione agli elementi di contestazione dell’ordine americano e al loro potenziale di mobilitazione (e dunque di “conversione”) del potere latente: ad esempio, allo stato attuale, la Cina, il cui PIL ha raggiunto i due terzi di quello degli Stati Uniti (a prezzi di mercato), destina alle spese militari una misura equivalente a un solo terzo di quelle americane, una scelta che potrebbe cambiare dinanzi all’acutizzazione della competizione strategica. Per gli studiosi convinti della sostanziale continuità dell’assetto unipolare, anche la vittoria della Russia in Ucraina o l’eventuale annessione di Taiwan da parte della Cina – pur erodendo, senza alcun dubbio, l’influenza americana nel mondo – non sarebbero in grado di intaccare in modo significativo la posizione degli Stati Uniti come unica potenza globale nel confronto con due potenze ‘puramente’ regionali.
Questa convinzione, tuttavia, rischia di glissare sul nucleo essenziale del trentennale esperimento unipolare: quello in virtù del quale, le politiche americane dell’intero periodo erano orientate (in ordine di ambizione decrescente) a cancellare, svalutare o condizionare la sovranità, rigorosamente intesa come indipendenza strategica, di qualsiasi soggetto statuale. Era questa, in fondo, la suggestiva “pace imperiale” che Washington aveva promesso al mondo dopo il 1989. Ora, se queste politiche falliscono o si vanificano in due regioni tutt’altro che marginali (come l’Europa orientale e il Pacifico Occidentale) cosa resta in fin dei conti dell’unipolarità? Una “partial unipolarity”, invece della “total unipolarity” – rispondono gli autori, sperando che l’evocazione impressionistica di una misura vaga (un peccato non veniale per due studiosi ossessionati dalla “metric of power”) possa surrogare una determinazione concettuale più precisa di una variazione rilevante e densa di implicazioni politiche.
In una seconda prospettiva, caratterizzata da un diverso equilibrio tra potere come “capacità” e potere come “influenza”, si collocano quegli studiosi che giudicano superata la struttura unipolare in un nuova configurazione di natura bipolareiii. Secondo quest’approccio, le grandi potenze non hanno bisogno di essere alla pari con la potenza leader per sfidarla politicamente e militarmente e, a riprova di ciò, si sottolinea che l’Unione Sovietica, nel suo momento più alto, raggiunse a mala pena il 44% del PIL americano, senza che questo le impedisse di esercitare pienamente il suo ruolo di superpotenza nei più remoti angoli del globo. Oggi la Cina ha superato di gran lunga quella misura e si avvia a rappresentare una sfida globale al potere americano. Inoltre, quello di un mondo nuovamente bipolare è un orizzonte ormai acquisito in alcune cattedrali storiche del sapere (e del potere) americano, come il Belfer Center for Science and International Affairs della Harvard Kennedy School, che ospita, tra gli altri, il “China Working Group” (presieduto da Graham Allisoniv e da Larry Summersv) e che finanzia iniziative come quella che va sotto il titolo di “Avoiding Great Power War Project”, al cui interno è nato l’ormai noto dibattito sulla “trappola di Tucidide”vi.
Ciò detto, a dispetto del consenso che la tesi bipolare raccoglie anche nel cuore dell’impero e nonostante i continui avvertimenti di Pechino che la risoluzione della vicenda di Taiwan è solo rimandata, non ci sono significativi indizi di una imminente precipitazione nella contestazione aperta del potere americano, né di un ambizioso tentativo di conversione della ricchezza cinese in potenza militare, nonostante il definitivo abbandono dell’imperativo denghiano del “nascondi le tue capacità e aspetta il momento opportuno”vii.
La terza e ultima prospettiva da considerare è quella del multipolarismo, forse la più popolare, poiché, nel tentativo di rappresentare la grande crisi di efficacia della governabilità unipolare, si sposta risolutamente sul versante dell’ “influenza” come modalità di comprensione delle dinamiche del potere su scala internazionaleviii. A ben vedere, però, la realtà di un mondo multipolare trova le sue migliori conferme prevalentemente sul piano delle istituzioni della globalizzazione (a cominciare dal WTO), dove l’emersione di paesi come l’India, il Brasile e la Cina ha drasticamente ridimensionato, nell’ultimo decennio, il potere istituzionale degli Stati Unitiix, cioè la capacità di Washington di dettare le regole e le norme che governano i principali aspetti del commercio mondiale, al punto da provocarne una progressiva alienazione e la tentazione di sostituire lo schema multilaterale con una trama aperta di relazioni bilaterali sempre rinegoziabili (arte della transazione nella quale Trump eccelle, benché la pratica si sia affermata già nell’epoca di Obama).
Tuttavia, il nuovo potere che si manifesta sul piano delle relazioni economico-commerciali non si trasferisce, per un magico automatismo, sul piano della “power politics”, sicché la mera riproposizione della chiave multipolare anche a quel livello, comporta necessariamente l’occultamento dell’enorme squilibrio di risorse che separa i primi due soggetti della politica mondiale (Stati Uniti e Cina) da tutti gli altri Stati. Solo rimanendo al di qua della soglia strategica, rappresentata dall’incombente prospettiva di una guerra vera, è possibile confondere la proliferazione dei centri di influenza con l’ascesa di un mondo degerarchizzato e apolare.
È questo, in fondo, lo stesso punto debole delle analisi (peraltro, straordinariamente illuminanti) che interpretano il crescente disordine in termini di pura “diffusione” del potere e di sostanziale assenza di una “transizione” egemonica, poiché nessuno Stato o gruppo di Stati sarebbe in grado di controllare in maniera esclusiva il sistema internazionale e le sue dinamiche, dovendo condividere il potere con una pletora di attori non statuali (organizzazioni internazionali, grandi aziende tecnologiche, movimenti transnazionali di varia natura). In questa prospettiva – dichiaratamente entropica e, dunque, post-egemonica – il concetto stesso di polarità risulterebbe ormai irrilevantex, poiché inadatto a prevedere tanto il comportamento degli Stati, quanto le dinamiche del sistemaxi. Anche il seducente appello a liberarsi della “grand strategy” – non privo di una sua logica nel tempo ordinario della politica internazionale – potrebbe perdere mordente nel momento di una grave crisi e di una sua violenta radicalizzazionexii.
E allora, cos’è veramente cambiato (o pare stia cambiando) nel vortice caotico della transizione?
Il non detto della guerra russo-ucraina
Con tutte le loro differenti problematiche, nessuna delle prospettive appena richiamate sembra in grado di tener seriamente conto di ciò che è accaduto con la guerra russo-ucraina. La controversia che ha condotto al conflitto non è ovviamente di quelle risolvibili dall’ “Appellate Body” del WTO (quello del quale gli Stati Uniti bloccano ormai da anni il rinnovo delle cariche). Parliamo di una guerra vera e propria e, dunque, dell’esercizio del potere/potenza nella sua forma estrema, non confondibile con tutte le altre forme rilevanti nelle quali la nostra riflessione sul potere si è andata smarrendo nell’ultimo trentennio.
Chiariamo subito che non è l’esito del conflitto, per tanti aspetti sorprendente, a generare il primo cambiamento. Piuttosto, è già la sola decisione russa di sfidare gli Stati Uniti – e, con essi, l’aspirazione americana a una sfera di influenza universale – a rappresentare una svolta, non comprensibile nel suo pieno significato se ci limitiamo ad analizzare il percorso che ha condotto alla guerra. Non è l’eziologia del conflitto, non sono le ragioni – e ovviamente i torti – della guerra ciò di cui dobbiamo adesso ragionare, se vogliamo tenere aperta la nostra riflessione sul potere e la potenza. La vera novità è la decisione stessa di andare allo scontro, in un contesto bellico che, come si sapeva dal principio, avrebbe coinvolto la potenza unipolare. E non solo perché fino a quel momento non c’era mai stato un confronto bellico (sia pure per procura) di tale intensità tra due potenze nucleari. Ma soprattutto perché, com’era prevedibile, la Russia si è trovata dinanzi una coalizione di paesi – l’Ukraine Defense Contact Group (UDCG, anche noto come Ramstein Group) – che ha messo assieme 57 paesi (a partire da quelli della NATO) che per ricchezza e potere surclassavano la Russia di parecchie misure, al punto da configurare come inimmaginabile una guerra marchiata sin dal principio da una tale asimmetria.
Certo, oggi sappiamo che la Russia si era preparata per anni allo scenario delle sanzioni. Ma anche questo tema è secondario rispetto al cuore della nostra riflessione sul potere. Come secondari – benché di per sé importantissimi – sono tutti quegli aspetti legati alla tenuta di una base industriale, alla capacità di alimentare un guerra di attrito che consuma materiali ad un ritmo sconosciuto nei conflitti dell’intera epoca del dopo-guerra fredda.
Volendo andare senza indugi al cuore della questione, avanziamo una premessa che ci sembra incontestabile: se lo schieramento guidato dagli Stati Uniti avesse impiegato nel conflitto una frazione significativa del proprio potenziale bellico, senza limitazioni e freni di alcun genere, la guerra avrebbe avuto tutto un altro corso. Ma un elemento essenziale ha impedito, sin dal principio, che questo scenario controfattuale prendesse realmente corpo. Ed è questo elemento la vera radice della novità. Esso consiste nel fatto che, in uno sforzo durato circa due decenni, la Russia si è impegnata a superare la gravissima crisi del proprio deterrente nucleare, una crisi che aveva segnato gli sviluppi successivi al crollo dell’Unione Sovietica.
Formalmente, la Russia non aveva mai cessato di essere una potenza nucleare. Ma a cosa serviva conservare gli arsenali nucleari pieni di testate, se i sistemi di lancio ed i vettori erano esposti all’inevitabile processo di obsolescenza, mentre gli Stati Uniti progredivano senza sosta non solo sul piano delle tecnologie di difesa antimissile (con il ritiro dal Trattato ABM nel 2001), ma anche su quello, ben più rilevante, della precisione e del telerilevamento (accuracy e remote sensing) che esasperavano il problema della vulnerabilità dell’arsenale nucleare russo? Cumulativamente queste asimmetrie nell’evoluzione del potere nucleare avevano eroso le basi della “Mutual Assured Destruction”, la condizione dominante nei decenni della guerra fredda, soprattutto a partire dagli anni Sessanta. Era sulla dottrina del MAD che si era retta la cosiddetta “pace nucleare”xiii, ovvero la condizione di mutua vulnerabilità delle due superpotenze, basata sul presupposto che la sopravvivenza di un robusto deterrente nucleare ad un eventale attacco disarmante (counterforce) avrebbe garantito in ogni caso la possibilità di una rappresaglia nucleare, scoraggiando in tal modo la tentazione del “primo colpo”. Lo scopo effettivo del Trattato ABM era stato proprio quello di garantire la permanenza della condizione di “mutua vulnerabilità”, unica vera garanzia contro pericolose tentazioni: obiettivo che implicava il divieto della costruzione di scudi anti-missile.
Nel nuovo contesto, l’effetto cumulativo di questi cambiamenti era una crisi inaudita della simmetria della minaccia, la fine del MAD e l’avvento della “nuclear primacy” americana: “la situazione nella quale il paese con il primato può distruggere la capacità di ritorsione nucleare dell’avversario in un attacco disarmante”xiv. Intorno al 2006, gli Stati Uniti lasciarono ampiamente circolare la loro convinzione di essere tecnicamente molto vicini alla capacità di disarmare un avversario dotato di armi nucleari: si svalutava così anche l’ultimo degli asset dell’ex-superpotenza russa, con implicazioni drammatiche facilmente intuibili.
Toccherà agli storici del futuro stabilire in che misura tutto ciò abbia influito sulle politiche americane. Ma di certo la crisi della deterrenza russa incoraggiò l’adozione di obiettivi sempre più spregiudicati, compreso ciò che, ancora alla metà degli anni Novanta, era sembrato non solo impossibile, ma anche impensabile: portare le infrastrutture militari della NATO in Ucraina, a ridosso dei confini della Russia. In quel periodo, come scrisse Mary Elise Sarotte, “[p]erfino i più accaniti sostenitori dell'allargamento dovevano impallidire al pensiero di dare le garanzie dell'articolo 5 alla seconda più popolosa ex repubblica sovietica, che condivide ancora con la Russia un enorme confine terrestre e vasti legami culturali e storici”xv.
Tuttavia, circa un decennio più tardi, gli stessi specialisti, che nel 2006 aveva annunciato l’avvento del primato nucleare americano, riprendevano il tema dell’evoluzione tecnologica che stava “erodendo le fondamenta della deterrenza nucleare”xvi. Ma questa volta il problema sembrava riguardare tutti e, nel frattempo, era scomparso qualsiasi riferimento alla “nuclear primacy” degli Stati Uniti. Ancora sei anni dopo, in piena guerra russo-ucraina, Keir A. Lieber and Daryl G. Press tornavano sull’argomento, con un breve rapporto elaborato per un importante think tank americano: ora, però, erano gli Stati Uniti a trovarsi sotto pressione, poiché dopo la modernizzazione del deterrente nucleare russo, anche i cinesi si inserivano nella nuova corsa, con il programma di costruzione di 350 nuovi missili balistici intercontinentali. Lo scenario che si prospettava era quello, veramente inquietante, di un’inedita “tripolarità nucleare”, nel cui contesto non era così assurdo ipotizzare – scrivevano gli esperti – l’eventualità che Russia e Cina potessero “un giorno coordinare un attacco congiunto di disarmo nucleare contro le forze nucleari statunitensi”xvii.
In meno di vent’anni la situazione si era quasi ribaltata e la novità non era solo legata al successo russo nello sviluppo della tecnologia ipersonica (che aveva riportato a nuova vita l’immenso arsenale nucleare di Mosca). La novità era anche di natura dottrinale e avrebbe tratto impulso dagli sviluppi della guerra in Ucraina: al nuovo equilibrio delle forze – reso possibile dalla ricostituzione del deterrente nucleare russo – andava ad affiancarsi un nuovo equilibrio della volontà, che avrebbe premiato la Russia in quanto impegnata a proteggersi da ciò che percepiva come una minaccia esistenziale ai suoi confini. Il concetto di escalation nucleare coercitiva non era solo orientato a correggere lo squilibrio militare convenzionale (che ora, a differenza degli anni della guerra fredda, avvantaggiava lo schieramento occidentale), ma anche a dare credibilità alla prospettiva di una guerra nucleare più ampia: la “deterrenza” stessa slittava dal campo semantico della moderazione (sderzhivat) e del contenimento (sderzhivanie) a quello dell’intimidazione (ustrashenie) e si incaricava di “(ri)svegliare la paura nei cuori e nelle menti dell’avversario"xviii.
Era stato il “parassitismo strategico” – la quasi estinzione della paura della guerra, inclusa la guerra nucleare – ad aver privato l’élites europee di ogni realismo e della capacità di pensare strategicamente, al punto dal mettere in campo “preparativi morali, politici ed economico-militari per una guerra su larga scala con la Russia”. La rimozione culturale delle armi nucleari, nel dopo guerra fredda, non aveva dischiuso un’epoca pacifica e libera dai conflitti; aveva invece avuto l’effetto di liberare le mani degli occidentali dai vincoli che limitavano le guerre di aggressione. Era pertanto necessario – secondo Avakyants, Karaganov e Trenin – ripristinare il “ruolo civilizzatore” delle armi nucleari per risvegliare l’istinto di autoconservazione pericolosamente indebolito.
Apparentemente, gli sviluppi della guerra in Ucraina avrebbero contraddetto la nuova deterrenza russa, poiché la coalizione a guida americana avrebbe violato le linee rosse di volta in volta tracciate dal Cremlino, adottando una tattica prudentemente gradualistica, fatta di piccoli salti decisionali per soglie successive (the salami-slicing strategy), all’ombra di un dibattito nel quale – per ragioni esattamente speculari – sia la dirigenza russa, che quella americana sono state sottoposte alle medesime accuse di cautela e di eccessivo cedimento ai timori di un’escalation. In realtà, la nuova deterrenza russa non poteva essere testata in riferimento all’uso di questo o quel sistema d’arma euro-americano (per quanto importante potesse apparire), ma in rapporto alla postura generale dell’Occidente nello schema della guerra in Ucraina: in questa prospettiva, non si può che constatare il sostanziale cedimento dell’enorme coalizione occidentale che, al netto delle promesse e dei solenni impegni, ha consegnato l’Ucraina ad una guerra di attrito, nella quale il paese avrebbe affrontato “ostacoli insormontabili” che l’avrebbero irrimediabilmente logoratoxix. Un cedimento che, indipendentemente dalle richieste russe, toglie qualsiasi credibilità strategica alla promessa di una futura protezione atlantica per Kyiv: perché mai, i paesi della NATO dovrebbero voler combattere per l’Ucraina in un domani incerto, dopo essersi rifiutati di farlo oggi? Oppure, detto al rovescio: le ragioni che hanno impedito (o sconsigliato) di combattere realmente al fianco dell’Ucraina oggi, non cambieranno di una virgola domani.
Il fantasma dell’escalation e l’ombra della tripolarità
Al momento non sappiamo come finirà la guerra, benché sia chiaro chi l’abbia persa (e male). Non sappiamo neanche quale sia la reale strategia di Trump, ammesso che ne abbia una. Ma possiamo constatare che, almeno fino ad ora, l’escalation non c’è stata e che per il momento (con i dovuti scongiuri) rappresenta solo un “non evento”. Ciò nonostante, il suo fantasma – il fantasma dell’escalation che lega le mani all’Occidente, alla più grande potenza militare del pianeta e a quella coalizione di paesi, il Ramstein Group, che detiene, cumulativamente, un PIL trenta volte superiore a quello russo – proietta una sua inconfondibile ombra sul terreno impervio e dissestato della power politics, dove sembra promettere di rimanere un tempo sufficiente a condizionare gli sviluppi successivi di quella caotica transizione dalla cui analisi questo articolo ha preso le mosse.
È l’ombra della “tripolarità”, una configurazione poco nota e ancor meno dibattuta, il cui precedente ci riporta (particolare inquietante) agli anni tra il 1939 ed il 1945, allorché il declino britannico lasciò in corsa solo tre potenze: gli Stati Uniti, il Terzo Reich e l’Unione Sovieticaxx. Configurazione intrinsecamente instabile – se non altro per le dinamiche associative che tende a propiziare – può stimolare opportunismo e flessibilità strategica, favorire alleanze effimere e matrimoni di convenienza, generare timori di esclusione nella formazione delle diadi, aumentare la sensibilità per conflitti minori e reazioni eccessive ai riallineamenti. Con un’importante variazione, però, che potrebbe mitigarne i principali fattori di instabilità: a differenza dello schema che inquadrò gli sviluppi del secondo conflitto mondiale, Cina, Russia e Stati Uniti sono oggi tre potenze nucleari, in un’epoca nella quale il declino della primacy (nella sua dimensione reale e nella sua proiezione fantastico-millenaristica) dovrebbe indurre un comportamento nuovamente consapevole dei rischi intrascendibili dell’età atomica. Almeno per una fase storica, la prospettiva di una tripolarità senza catastrofe potrebbe frenare o disciplinare le forze più cieche e distruttive liberate dalla disgregazione di un ordine, concedendo tempo ed energia alle questioni più urgenti messe in campo dalla parallela crisi della modernità.
Si tratta, ovviamente, di un tripolarità asimmetrica e gravemente sbilanciata, dove il reingresso in gioco della Russia – la più debole in assoluto tra le tre potenze – è propiziato da un deterrente strategico che eclissa di parecchie misure quello cinese, ancora molto giovane e poco sviluppato. I russi sono consapevoli del ruolo che la nuova ed inattesa configurazione tripolare può svolgere, simultaneamente, nell’arginare la hybris unipolare e nell’impedire che la relazione strategica con Pechino diventi un abbraccio asfissiante: “La Russia dovrebbe costruire le sue forze di deterrenza nucleare – scrivono Avakyants, Karaganov e Trenin – in modo tale da escludere, anche in un futuro lontano, la possibilità di pressioni cinesi sulla Russia. Il fattore nucleare dovrebbe aiutare a rafforzare la cooperazione amichevole a lungo termine tra i due paesi”xxi.
Anzi, i russi vanno oltre, sussumendo nella loro riflessione strategica l’insofferenza dei nuovi paesi “non allineati” (Brics? Global South? Manca una definizione condivisa) per la prospettiva di un futuro bipolare, nel quale il potere cinese ridimensionerebbe le politiche cooperative a vantaggio degli interessi puramente nazionali. Nella tensione della guerra – e in uno sforzo di elaborazione politica, nuova e originale – la debole Russia, consapevole della propria fragilità e alla ricerca di una nuova coscienza di sé e della natura transizionale degli equilibri del mondo, si rivolge a quella pluralità di soggetti che negli ultimi tre anni non le ha chiuso le porte in faccia, con l’appellativo di “World Majority”, che allude a un potenziale sviluppo parallelo e tendenzialmente più fluido rispetto a quello conservativo degli accordi tra grandi potenzexxii. Anche questo non farà piacere a Pechino.
Nata dallo strappo della guerra – alla quale ha impedito di sfociare in un collasso russo di proporzioni epocali e irrimediabili – la nuova configurazione tripolare guadagna la sua rilevanza proprio in corrispondenza dell’eccezionalità strategica del momento. Non è per sempre. Non determina una rendita di posizione. Non costituisce un asset per tutte le stagioni. In qualche modo porta dentro di sé la provvisorietà di questo tempo storico e, mentre ne placa e ne trattiene gli impulsi più dissolutivi, rallenta il moto ed apre uno spazio nuovo all’elaborazione del futuro. Non durerà per molto. Concede ai russi poco tempo e impone loro l’impegno a non sprecarlo.
Da «la fionda», 1 – 2025, pp. 101-112
Note
i Karl Hermann Höhn, Geopolitics and the Measurement of National Power, Ph.D. dissertation, University of Hamburg, 2011.
ii Cfr. ad esempio Stephen G. Brooks and William C. Wohlforth, The Myth of Multipolarity. American Power’s Staying Power, «Foreign Affairs», Vol. 102, n. 3, May-June 2023, pp. 76-87.
iii Jennifer Lind, Back to Bipolarity: How China's Rise Transformed the Balance of Power, «International Security», Vol. 49, n. 2, Fall 2024, pp. 7–55.
iv Graham Allison, Nathalie Kiersznowski and Charlotte Fitzek, The Great Economic Rivalry: China vs the U.S., Belfer Center for Science and International Affairs, Harvard Kennedy School, March 23, 2022.
v Particolarmente significativa la ‘rassegnazione’ di Summers all’ascesa della Cina, in considerazione di un curriculum che ne fa un personaggio centrale dell’età della globalizzazione neoliberista e dell’uniplarismo americano (Segretario del Tesoro nell’Amministrazione Clinton, Direttore del National Economic Council, Capo economista della World Bank, Preside di Harvard, ecc.).
vi Graham Allison, Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?, Roma, Fazi Editore, 2018.
vii Rush Doshi, The Long Game. China's Grand Strategy to Displace American Order, New York, Oxford University Press, 2021.
viii Emma Ashford and Evan Cooper, Yes, the World Is Multipolar: And That Isn’t Bad for the United States, «Foreign Policy», October 3, 2023.
ix Kristen Hopewell, Breaking the WTO. How Emerging Powers Disrupted the Neoliberal Project, Stanford, Stanford University Press, 2016.
x Cfr. ad esempio la tesi dell’allora presidente del Council on Foreign Relations: Richard N. Haass, The Age of Nonpolarity. What Will Follow U.S. Dominance, «Foreign Affairs», May-June, 2008.
xi Randall L. Schweller, Maxwell’s Demon and the Golden Apple. Global Discord in the New Millennium, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2014.
xii Daniel W. Drezner, Ronald R. Krebs, and Randall Schweller, The End of Grand Strategy. America Must Think Small, «Foreign Affairs», vol. 99, n. 3, May/June 2020 107-117.
xiii Salvatore Minolfi, Tra due crolli. Gli Stati Uniti e l’ordine mondiale dopo la guerra fredda, Napoli, Lugyori, 2005, pp. 62-71.
xiv Keir A. Lieber and Daryl G. Press, The End of MAD? The Nuclear Dimension of U.S. Primacy, «International Security», Vol. 30, n. 4, Spring 2006, p.8. L’argomento era stato esposto dagli stessi specialisti anche su una rivista a più larga diffusione: cfr. Keir A. Lieber and Daryl G. Press, The Rise of U.S. Nuclear Primacy, «Foreign Affairs», Vol. 85, n. 2, March/April 2006, pp. 42-54.
xv M. E. Sarotte, Not One Inch. America, Russia, and the Making of Post-Cold War Stalemate, Yale University Press, New Haven & London, 2021, p. 217.
xvi Keir A. Lieber and Daryl G. Press, The New Era of Counterforce. Technological Change and the Future of Nuclear Deterrence, «International Security», Vol. 41, n. 4, Spring 2017, pp. 9-49.
xvii Keir A. Lieber and Daryl G. Press, US Strategy and Force Posture for an Era of Nuclear Tripolarity, Atlantic Council Scowcroft Center For Strategy and Security, Issue Brief, April 2023.
xviii Dmitri Trenin, Sergei Avakyants, Sergei Karaganov, From Restraining To Deterring: Nuclear Weapons, Geopolitics, Coalition Strategy, IWMES, Moscow 2024, p. 4.
xix Michael Poznansky and William C. Wohlforth, The Real Risks of Escalation in Ukraine. Critics of Washington’s Gradualism Are Misreading Putin’s Redlines, «Foreign Affairs», January 3, 2025.
xx Randall L. Schweller, Deadly Imbalances. Tripolarity and Hitler's Strategy of World Conquest, New York, Columbia University Press, 1998.
xxi Dmitri Trenin, Sergei Avakyants, Sergei Karaganov, From Restraining To Deterring..., cit., pp. 15-16.
xxii Cfr. al riguardo, The World Majority and Its Interests, Valdai Discussion Club Report, October 2024.
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ChatGPT
Ecco una presentazione e una scheda sintetico-analitica del saggio:
🌍 Presentazione di Tripolarità senza catastrofe di Salvatore Minolfi
Il saggio di Salvatore Minolfi affronta con profondità teorica e rigore storico il tema della transizione dell’ordine internazionale, proponendo un’interpretazione che si discosta dalle letture correnti sul declino dell’unipolarismo americano. Dopo un trentennio di egemonia statunitense e di “monocultura unipolare”, la guerra russo-ucraina avrebbe segnato una svolta decisiva: non tanto per l’esito materiale del conflitto, quanto per il riaffiorare di un equilibrio strategico basato sulla ricostituzione della deterrenza nucleare russa e la riemersione della tripolarità, intesa come configurazione in cui tre potenze nucleari—Stati Uniti, Cina, Russia—occupano il centro del sistema internazionale.
Minolfi mette in discussione le più diffuse categorie di analisi (unipolarità, bipolarità e multipolarità) evidenziandone le aporie: l’idea di un mondo ancora unipolare non regge alla prova dei fatti; il bipolarismo tra Washington e Pechino manca di un’accelerazione decisiva; il multipolarismo, pur diffuso nelle istituzioni economiche globali, si arresta davanti alla “power politics”. La sua tesi è che la tripolarità, pur essendo instabile e asimmetrica, rappresenti un freno alle spinte distruttive grazie all’effetto disciplinante del deterrente nucleare. Ma questa stabilizzazione non è destinata a durare: è un equilibrio transitorio, che offre una finestra storica di opportunità e rischi.
Il saggio si distingue per l’attenzione ai fattori tecnologici e dottrinali della potenza (dall’evoluzione della MAD al primato nucleare americano e al ritorno della minaccia di escalation), per l’analisi del “parassitismo strategico” europeo, e per l’originale riflessione sul ruolo dei paesi non allineati (“World Majority”). Minolfi invita a ripensare il concetto di potere, a partire dall’incrocio tra capacità, influenza e volontà di confrontarsi con il rischio estremo.
🗂️ Scheda sintetico-analitica
Titolo
Tripolarità senza catastrofe
Autore: Salvatore Minolfi
Pubblicato in la fionda, n.1 – 2025, pp. 101-112
Argomento principale
La configurazione tripolare emergente del sistema internazionale, resa possibile dalla modernizzazione del deterrente nucleare russo, come nuovo (e provvisorio) fattore di stabilizzazione dopo il tramonto dell’unipolarismo americano.
Struttura e contenuti essenziali
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Disabitudine strategica
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L’epoca unipolare ha dissolto la capacità di ragionare sul potere come categoria distinta dalla ricchezza o dall’influenza.
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Negli Stati Uniti, invece, la riflessione strategica non si è mai interrotta, producendo visioni divergenti sul futuro dell’ordine mondiale.
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Due concezioni del potere
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Potere come capacità materiale (risorse, eserciti, tecnologia).
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Potere come influenza (abilità di orientare comportamenti).
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Nessuna delle due è sufficiente a spiegare la crisi attuale.
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Tre prospettive dominanti
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Unipolarità residua: USA come unica potenza globale, nonostante la perdita di influenza.
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Bipolarismo: la Cina ormai in grado di sfidare gli Stati Uniti.
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Multipolarismo: emersione di centri di influenza economici (India, Brasile), senza traslazione automatica in potere strategico.
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La novità della guerra russo-ucraina
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La decisione russa di sfidare la potenza unipolare segna una discontinuità storica.
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La deterrenza nucleare modernizzata ridà forza strategica a Mosca e vincola l’escalation occidentale.
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Ritorno della MAD e il fantasma della tripolarità
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Gli sviluppi tecnologici e dottrinali (armi ipersoniche, escalation coercitiva) ripristinano un equilibrio di minaccia.
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Si configura un sistema tripolare USA-Cina-Russia, instabile ma potenzialmente in grado di contenere la catastrofe.
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Dimensione transitoria
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La tripolarità non è definitiva: è un equilibrio “a tempo”, che rallenta la disgregazione dell’ordine senza eliminarne i rischi.
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Tesi centrale
La guerra russo-ucraina ha sancito la nascita di una tripolarità asimmetrica dove:
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La Russia, pur debole economicamente, torna protagonista grazie alla rinnovata deterrenza.
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La Cina è in crescita ma non ancora pronta a un confronto aperto.
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Gli Stati Uniti vedono erodersi la primacy.
Questa condizione frena l’escalation, ma non è sostenibile a lungo.
Riferimenti chiave
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Graham Allison (Trappola di Tucidide)
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Lieber e Press (nuclear primacy)
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Sarotte (espansione NATO)
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Schweller (tripolarità storica)
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Trenin, Karaganov, Avakyants (nuova dottrina russa)
Valutazione critica
Minolfi propone un’analisi lucida e originale, che si distingue per:
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Il recupero del fattore nucleare come cardine del potere.
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L’attenzione alla dimensione psicologica e dottrinale (paura, deterrenza coercitiva).
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La messa in discussione delle semplificazioni multipolari.
Punto debole (per alcuni): la prospettiva è centrata soprattutto sulle potenze nucleari, ridimensionando il ruolo delle dinamiche economiche e dei grandi attori non statali.
Parole chiave
Unipolarità, Bipolarità, Tripolarità, Deterrenza nucleare, Escalation, Potere come capacità/influenza, Guerra russo-ucraina.
Se vuoi, posso aiutarti con un commento critico, una versione più breve, o un abstract accademico.
Abstract Accademico ChatGPT
Abstract
Il saggio Tripolarità senza catastrofe analizza la transizione dell’ordine internazionale contemporaneo, contraddistinta dalla crisi del predominio unipolare statunitense e dall’emergere di una configurazione tripolare tra Stati Uniti, Cina e Russia. Minolfi esamina criticamente i principali approcci teorici al potere globale: la concezione del potere come “capacità” (risorse materiali) e come “influenza” (capacità di orientare comportamenti), evidenziandone la tensione metodologica e i limiti interpretativi. Dopo aver discusso le prospettive unipolare, bipolare e multipolare, l’autore sostiene che nessuna di esse riesce a spiegare adeguatamente la portata strategica della guerra russo-ucraina, la quale ha sancito il ritorno del deterrente nucleare come strumento di condizionamento politico-militare. La ricostituzione della capacità di ritorsione nucleare russa e la crescita parallela dell’arsenale cinese prefigurano uno scenario di “tripolarità nucleare”, inedito dalla Seconda guerra mondiale, che potrebbe stabilizzare la competizione strategica prevenendo l’escalation catastrofica. Tuttavia, tale equilibrio si presenta asimmetrico e transitorio: la Russia vi occupa una posizione di relativa debolezza compensata dall’arsenale strategico, mentre la Cina prosegue una traiettoria di ascesa prudente. La configurazione tripolare si configura quindi come uno spazio storico limitato che, rallentando la dissoluzione dell’ordine globale, concede un margine temporale per ripensare le categorie della politica di potenza e affrontare le crisi connesse alla modernità.
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Presentazione dell'articolo
Titolo: Tripolarità senza catastrofe
Autore: Salvatore Minolfi
L'articolo di Salvatore Minolfi analizza la crisi dell'ordine internazionale unipolare dominato dagli Stati Uniti e l'emergere di una nuova configurazione tripolare (USA, Cina, Russia), sostenendo che questa transizione, pur caotica, potrebbe evitare una catastrofe globale grazie al ripristino di un equilibrio nucleare.
Minolfi critica le tre principali prospettive sul potere globale oggi diffuse:
Unipolarismo persistente (USA ancora dominanti nonostante il declino).
Bipolarismo USA-Cina (con la Cina come rivale sistemico).
Multipolarismo diffuso (con più attori, ma inefficace nella "power politics").
La vera svolta, secondo l'autore, è la guerra russo-ucraina, che ha dimostrato come la Russia, grazie al suo deterrente nucleare modernizzato, abbia costretto l'Occidente a frenare l'escalation nonostante la schiacciante superiorità convenzionale. Questo ha rivelato l'ascesa di una tripolarità strategica, dove il fattore nucleare funge da stabilizzatore, impedendo una guerra totale ma anche limitando l'egemonia USA.
La conclusione è che questa fase, sebbene instabile, potrebbe offrire un respiro temporaneo alla crisi sistemica, permettendo una ridefinizione degli equilibri globali senza un conflitto apocalittico.
Scheda sintetico-analitica
1. Tesi centrale
La fine dell'unipolarità americana sta dando vita a un ordine tripolare (USA-Cina-Russia), caratterizzato da:
Asimmetria di potere (USA ancora dominanti, ma con Cina in ascesa e Russia rinforzata dal nucleare).
Deterrenza nucleare come stabilizzatore (evita l'escalation totale, come in Ucraina).
Instabilità controllata (evitando il caos totale del multipolarismo o il rischio di guerra diretta del bipolarismo).
2. Analisi del potere
Minolfi distingue due approcci:
Potere come "capacità" (risorse materiali: PIL, esercito, tecnologia).
Potere come "influenza" (capacità di condizionare gli altri).
La tripolarità emerge dalla combinazione dei due: la Russia, pur economicamente debole, ha riacquistato influenza grazie alla minaccia nucleare.
3. Critica alle visioni tradizionali
Unipolaristi (es. Brooks & Wohlforth): sottovalutano il declino USA e la sfida russa.
Bipolaristi (es. Graham Allison): ignorano il ruolo cruciale della Russia.
Multipolaristi: confondono l’aumento di attori con un reale riequilibrio di potere.
Unipolaristi (es. Brooks & Wohlforth): sottovalutano il declino USA e la sfida russa.
Bipolaristi (es. Graham Allison): ignorano il ruolo cruciale della Russia.
Multipolaristi: confondono l’aumento di attori con un reale riequilibrio di potere.
4. La lezione della guerra in Ucraina
La Russia ha sfidato l'egemonia USA nonostante l’enorme disparità economico-militare.
La deterrenza nucleare moderna (missili ipersonici, dottrina dell’"escalation coercitiva") ha impedito un intervento diretto della NATO.
L'Occidente ha rinunciato alla vittoria pur di evitare un conflitto nucleare, dimostrando che il potere unipolare è finito.
La Russia ha sfidato l'egemonia USA nonostante l’enorme disparità economico-militare.
La deterrenza nucleare moderna (missili ipersonici, dottrina dell’"escalation coercitiva") ha impedito un intervento diretto della NATO.
L'Occidente ha rinunciato alla vittoria pur di evitare un conflitto nucleare, dimostrando che il potere unipolare è finito.
5. La nuova tripolarità
USA: ancora la potenza più forte, ma non più egemone.
Cina: rivale economico e tecnologico, ma militarmente indietro.
Russia: potenza nucleare riaffermata, con un ruolo di "bilancia" tra USA e Cina.
Fattore nucleare: evita la catastrofe, ma non garantisce stabilità a lungo termine.
USA: ancora la potenza più forte, ma non più egemone.
Cina: rivale economico e tecnologico, ma militarmente indietro.
Russia: potenza nucleare riaffermata, con un ruolo di "bilancia" tra USA e Cina.
Fattore nucleare: evita la catastrofe, ma non garantisce stabilità a lungo termine.
6. Prospettive future
Scenario ottimistico: la tripolarità frena l’hybris unipolare e dà tempo per una transizione ordinata.
Rischi: instabilità per alleanze opportunistiche (es. Russia-Cina) e possibili conflitti locali.
Conclusione: questa fase è transitoria e richiede una nuova strategia per evitare il collasso.
Scenario ottimistico: la tripolarità frena l’hybris unipolare e dà tempo per una transizione ordinata.
Rischi: instabilità per alleanze opportunistiche (es. Russia-Cina) e possibili conflitti locali.
Conclusione: questa fase è transitoria e richiede una nuova strategia per evitare il collasso.
Fonte: Salvatore Minolfi, Tripolarità senza catastrofe, pubblicato su «la fionda», n. 1/2025.
Punti chiave da ricordare:
La guerra in Ucraina ha rivelato la fine dell'unipolarità USA.
La Russia, con il suo arsenale nucleare, ha imposto una deterrenza efficace.
La nuova tripolarità è instabile ma meno rischiosa di un bipolarismo USA-Cina.
Il nucleare è tornato a essere un fattore civilizzatore (evita guerre totali).
L'Occidente deve ripensare la sua strategia in un mondo non più sotto il suo controllo.
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