DAZI mix 20250808
Il nuovo ordine del nazionalismo: commercio per tornare alla guerra
Dazi Usa Entità dei dazi e utilizzo dei loro proventi, sottratti a qualsiasi disamina politica, diventano arbitrio sovrano in una sorta di economia politica del capriccio
Illustrazione di Phil Leo e Michael Denor – Getty Images
Il Manifesto 8-8-25
Marco Bascetta
La guerra dei dazi, poiché di una guerra si tratta, comporta l’insediamento del potere dello stato al centro dei rapporti economici globali. Il conflitto tra stati, pur con il pretesto di ripristinarla, prende il posto della “competitività” tra imprese e sistemi produttivi.
E lo prende per conservarlo. Una volta di più il sogno di affidare allo stato il ripristino della giustizia in terra si realizza in forma di incubo. Senza regole e in balia dell’arbitrio più assoluto.
Parliamo di potere statale e non “politico” poiché, come tutte le altre guerre, anche quelle commerciali rappresentano uno stato di eccezione poco compatibile con le procedure democratiche e con i contrappesi dello stato di diritto. Ad essergli congeniale è piuttosto un esecutivo forte, privo di vincoli e disposto a dare seguito alla retorica più minacciosa. Un potere statale autoritario e decisionista. L’entità dei dazi e la destinazione dei loro proventi, sottratti a qualsiasi disamina politica, diventano prerogativa indiscutibile dell’arbitrio sovrano in una sorta di economia politica del capriccio. I soldi andranno dove decido io, dichiara nel suo stile inconfondibile il presidente Trump, intento a trasformare il partito repubblicano statunitense in una versione avventurista e irrazionale del Pcc e sé stesso in un teatrale autocrate.
Se all’origine di questa guerra vi è effettivamente l’immane debito pubblico americano (il costo dell’egemonia Usa e di tutti i primati statunitensi nello sviluppo tecnologico e militare) non è affatto chiaro come procederà il «riequilibrio» reclamato dall’amministrazione di Washington. Certo è che se la guerra commerciale è guerra tra stati la sua cifra ideologica non potrà che essere quella del nazionalismo, il raggio delle ambizioni e degli obiettivi politici sempre più ampio e la sua parentela con altre forme di guerra decisamente stretta.
Che l’Unione europea esca da questo conflitto con le ossa rotte è ben più che una probabilità. Non essendo l’Europa uno stato federale, e nemmeno un’entità politica compiuta, difficilmente riuscirà a muoversi sul piano di questo scontro, a mantenere posizioni unitarie e a reagire con la dovuta tempestività e decisione. Ursula von der Leyen sembra dimenticare troppo facilmente queste circostanze, quando si stupisce delle defezioni dei suoi soci. L’accordo dei dazi al 15% sulle merci europee destinate agli Stati uniti (comprese distinzioni e incertezze di varia natura) non accontenta né i falchi né le colombe, né gli europeisti né i filoamericani. E alla fine ciascuno tornerà nei limiti del possibile alla sua dimensione di stato nazionale, badando soprattutto ai propri interessi. A cominciare dalla Germania che ha mandato a Washington il suo ministro delle finanze Klingbeil per avviare una trattativa diretta sull’auto e sull’acciaio made in Rft. Altri seguiranno secondo le esigenze dei rispettivi interessi commerciali.
Ma soprattutto gli accordi sui dazi (poiché di vere e proprie armi offensive si tratta) non rispondono ad alcuna regola e non garantiscono alcuna stabilità. Le condizioni a cui sono vincolati possono cambiare dall’oggi al domani e variare, anche in misura vertiginosa, su determinate merci. A pochi giorni dall’accordo con la Ue, il presidente americano minaccia di tassare al 35% le merci europee se l’Unione non spenderà una cifra esorbitante nell’acquisto di armi e prodotti energetici statunitensi. In questo genere di ricatti si va ben oltre politiche doganali certe e prevedibili. Ma, come in tutte le guerre, le mosse devono essere tenute nascoste all’avversario fino all’ultimo momento e non si riconoscono criteri diversi dai rapporti di forza.
C’è infine un uso direttamente e dichiaratamente politico dell’arma dei dazi, che non riguarda la bilancia commerciale. A farne le spese è stato per il momento il Brasile di Lula, reo di voler processare l’ex presidente golpista Bolsonaro e di aver preso misure per impedirne la fuga. In questo caso l’elevatissimo dazio rappresenterebbe una rappresaglia contro la presunta repressione dell’opposizione politica brasiliana. In altri casi, come quello del Canada, si minacciano dazi esorbitanti in caso di riconoscimento dello stato palestinese. Basterebbero già questi due esempi, facilmente estendibili a molti altri paesi e altre situazioni, (immigrazione, pretese territoriali), a rivelare la stretta parentela se non la sovrapposizione immediata, tra dazi e sanzioni, le quali rappresentano il primo stadio di un conflitto tra stati sempre suscettibile di preoccupanti escalation. Del resto l’intera argomentazione trumpiana sulle barriere doganali è infarcita di risentimento e intenzioni punitive, di toni ricattatori e sentimenti vendicativi.
Se è vero che l’ottimismo liberale delle origini aveva promesso di sostituire i commerci alle guerre, servendosi invece degli stati nelle guerre di conquista e per la spartizione delle risorse, gli stati sembrerebbero oggi servirsi dei commerci per ritornare a uno stato di potenziale conflitto tra sovranità nazionali destinato, intanto, ad accrescere il potere di comando delle élites.
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La differenza tra l’impero e il racket
Liberation Day, il ritorno La realtà è che i dazi sono un’arma puramente politica per riaffermare il ruolo dominante degli Stati uniti
Il presidente americano Donald Trump – Ap
Il Manifesto 2-8-25
Fabrizio Tonello
La differenza tra un impero e un racket è che entrambi fanno pagare la “protezione” alle vittime ma il primo elabora una cortina fumogena (spesso chiamata ideologia) per giustificare le sue estorsioni, mentre il secondo no. C’è una differenza tra la Pax Romana e il pizzo.
Dovremmo quindi ringraziare Donald Trump per aver mostrato al mondo, in appena sei mesi e dieci giorni, che gli Stati Uniti di oggi si ispirano al pensiero di Totò Riina e non a quello di Alexis de Tocqueville.
Nel caos dei dazi annunciati, ritirati, modificati, modulati e interpretati una sola cosa è chiara: il resto del mondo deve sborsare e l’America deve incassare. Il che è un esempio da manuale della definizione di impero nei manuali di Relazioni internazionali: «Un meccanismo per trasferire risorse dalle periferie al centro». Solo che questo meccanismo oggi non ha una giustificazione politico-culturale, il famoso soft power americano con cui ci hanno tediato per ottant’anni, bensì ha solo la forza dalla sua parte: “Dovete pagare perché dovete pagare”. Naturalmente le minacce funzionano con chi si fa intimidire, come l’Europa: la Cina è un boccone troppo grosso.
Anche se il logorroico Trump giustifica i suoi Executive Order con la consueta nenia del deficit commerciale, la realtà è che i dazi sono un’arma puramente politica per riaffermare il ruolo dominante degli Stati uniti. Tra le decine di esempi basterà ricordare le minacce alla Colombia in febbraio: dazi del 25% o del 50% se non avesse immediatamente accettato i deportati colombiani espulsi da Washington.
Poco tempo fa, Trump ha imposto dazi del 50% sulla maggior parte dei prodotti brasiliani, escludendo alcuni settori chiave, per “punire” quella che ha definito una caccia alle streghe contro Jair Bolsonaro, ex presidente brasiliano e suo fedele alleato, processato per il tentativo di colpo di Stato dopo le elezioni del 2022 vinte da Lula.
Trump ha poi imposto dazi del 25% sulle importazioni indiane negli Stati uniti, a causa dell’acquisto da parte dell’India di grandi quantità di petrolio e armamenti dalla Russia. Ha funzionato: parte degli acquisti di greggio russo è stata sospesa o ridotta da Nuova Delhi.
Il caso del Canada è uno dei pochi in cui la minaccia di dazi del 25% ha trovato una risposta energica: il primo ministro Carey ha detto che il pretesto usato da Trump (non aver bloccato il transito di fentanyl cinese verso gli Stati uniti) era ridicolo e ha mantenuto l’idea di imporre una digital tax sugli affari dei giganti tecnologici Usa in Canada.
I mercati finanziari ieri hanno reagito con prudenza ma i dati sull’occupazione negli Stati uniti rivelano la fragilità dell’economia americana e l’inflazione rimane in agguato, ragione per cui la Fed, la banca centrale, l’altro ieri ha mantenuto i tassi invariati, nonostante le pressioni della Casa bianca per abbassarli e gli insulti di Trump al suo presidente Jerome Powell.
La realtà è, come ha scritto il premio Nobel Paul Krugman, che l’incertezza è «un enorme deterrente per gli investimenti delle imprese. Se costruisci una fabbrica basandoti sull’ipotesi che i dazi torneranno a livelli più normali, rischi di ritrovarti con un investimento bloccato nel caso in cui i dazi del 20-%25% diventino permanenti. Se invece costruisci una fabbrica supponendo che dazi elevati siano la nuova normalità, il tuo investimento risulterà comunque bloccato se Trump dovesse fare marcia indietro».
In tutto questo, l’Unione europea è riuscita anche ieri a rendersi ridicola: Don Abbondio, resuscitato nelle vesti del commissario europeo al commercio Maros Sefcovic, si è precipitato a dichiarare che i nuovi dazi statunitensi «riflettono i primi risultati dell’accordo Ue-Usa, in particolare il tetto massimo del 15% sui dazi onnicomprensivi. Ciò rafforza la stabilità per le imprese europee e la fiducia nell’economia transatlantica». Ciò rafforza la stabilità per le imprese europee… Crozza, dove sei quando abbiamo bisogno di te?
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Mezzanotte di fuoco, i dazi di Trump arrivano in anticipo
Dazi Il mondo informato sulla nuove aliquote via social. «Miliardi di dollari stanno ora riversandosi negli Stati uniti d’America»
Portacontainer nel porto di Barcellona – AP
Il Manifesto 8-8-25
Marina Catucci
NEW YORK
«È MEZZANOTTE!!! – ha scritto Donald Trump tutto in maiuscolo sul suo account di Truth Social – MILIARDI DI DOLLARI IN DAZI STANNO ORA RIVERSANDOSI NEGLI STATI UNITI D’AMERICA!»
Così il mondo ha saputo dell’entrata in vigore delle nuove aliquote volute dal tycoon, inclusi gli alleati europei che si aspettavano di vedere arrivare i nuovi dazi nella notte fra il 7 e l’8 agosto, come aveva promesso la Casa Bianca, e non fra il 6 e il 7, un giorno prima. Ma questa probabilmente per il presidente Usa è una minuzia.
PRIMA DI IERI le merci della maggior parte dei paesi erano soggette a un’aliquota minima del 10%, d’ora in poi, invece, le aliquote varieranno da nazione a nazione. Quelle più elevate sono state imposte dal tycoon sulle merci provenienti dal Brasile (50%), India (50%), Laos (40%), Myanmar (40%), Svizzera (39%), Iraq (35%) e Serbia (35%). Altri 21 paesi, tra cui Vietnam (20%), Taiwan (20%) e Thailandia (19%), dovranno affrontare imposte superiori al 15%, mentre le merci provenienti da 39 paesi, così come quelle dei membri dell’Ue, saranno ora soggette a dazi più bassi, “solo” il 15%.
I nuovi dazi non sono applicabili alle merci inviate prima della mezzanotte del 6 agosto, ma su quelle partite da quell’ora X in poi. I loro effetti sui consumatori, quindi, si vedranno una volta che le scorte di prodotti inviate prima saranno esaurite.
Questa svolta nella politica commerciale Usa è passata attraverso mesi di falsi inizi, dal lancio dei cosiddetti «dazi reciproci» del «giorno della liberazione», come li aveva definiti Trump, e innumerevoli negoziati commerciali bilaterali. Alla fine, sebbene The Donald abbia annunciato il raggiungimento di otto accordi commerciali, in realtà ne sono stati formalizzati solo con Regno Unito e Cina. Secondo gli economisti esiste il pericolo reale che i nuovi dazi così alti possano esacerbare i problemi economici Usa, invece che risolverli, portando fra l’altro all’aumento dell’inflazione e al rallentamento della crescita occupazionale.
DESCRITTA COSÌ la messa in atto dei dazi, sembrerebbe una mossa di politica economica cieca e controproducente ma, come fa notare il giornalista economico Andrew Duhren sul New York Times, «i dazi aggressivi di Trump hanno già iniziato a generare una quantità significativa di denaro per il governo federale, una nuova fonte di entrate, per una nazione fortemente indebitata, su cui i politici americani potrebbero iniziare a fare affidamento».
Anche prima dell’entrata in vigore di questo ultimo giro di dazi, secondo i dati raccolti dal ministero del Tesoro, le entrate derivanti dalle aliquote volute da Trump sui beni importati hanno già generato entrate per 152 miliardi di dollari, circa il doppio rispetto ai 78 miliardi di dollari raccolti nello stesso lasso di tempo durante l’anno fiscale precedente.
I MEMBRI dell’amministrazione Trump sostengono che il denaro proveniente dai dazi rappresenti l’elemento chiave che aiuta a colmare il buco creato dagli ampi tagli alle tasse che sono stati approvati dal Congresso il mese scorso, e che dovrebbero costare al governo almeno 3.400 miliardi di dollari.
Secondo le previsioni degli analisti i nuovi dazi, se lasciati in vigore, in 10 anni potrebbero produrre più di 2.000 miliardi di dollari di entrate aggiuntive. Nonostante ciò la maggior parte degli economisti spera che tutto questo non accada, e che gli Stati Uniti abbandonino la nuova svolta di Trump basata sulle barriere commerciali, in quanto queste entrate, in realtà proverranno dai consumatori americani.
Una volta che le scorte dei prodotti acquistati prima del 7 agosto termineranno gli Usa assisteranno a un rincaro dei prezzi, e buona parte di ogni dollaro proveniente dai dazi verrà scaricato sul prezzo al consumatore del bene importato, andando a creare una specie di tassa sui consumi, che verrà pagata da chi consuma di più in proporzione al reddito che recepisce. In pratica il famoso 99% di cui parlava Occupy Wall Street.
NON SARÀ DI CERTO L’1% a vedere indebolirsi il proprio potere di acquisto, e quel bacino di classe media impoverita diventerà più largo e più povero. Tutto ciò non preoccupa Trump, parte integrante dell’1%, e che da sempre parla di sostituire le tasse con i dazi, citando come esempio virtuoso la politica fiscale Usa della fine del XIX secolo, senza imposte sul reddito e con il governo che si affida ai dazi sulle importazioni. Ma le ingenti entrate generate saranno prelevate direttamente dai consumatori, generando un loop molto poco virtuoso.
Il più diretto nello spiegare i rischi della tossicità di questa mossa di Trump è stato, sul New York Times, Joao Gomes, economista presso la Wharton School dell’Università della Pennsylvania: «Penso che sia una dipendenza. Sarà molto difficile abbandonare una fonte di reddito quando il debito e il deficit sono quelli che sono».
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Prima vittoria della forza bruta ma la Cina sarà un’altra partita
Dazi Il 12 agosto scade la tregua commerciale con la Cina (con dazi provvisori reciproci al 30%) e un nuovo accordo è in via di negoziato. Pechino ha finora risposto colpo su colpo all’offensiva di Trump e non si farà piegare come gli alleati di Washington
Container nel porto di Tianjin, Cina – Mark Schiefelgein /Ap
Il Manifesto 8-8-25
Mario Pianta
L’offensiva sui dazi di Donald Trump ha avuto la sua prima vittoria. Per 90 paesi da ieri sono in vigore dazi di almeno il 15% sulle loro esportazioni verso gli Stati Uniti. Al 10% sono rimasti solo gli scambi col Regno Unito. Non è un nuovo ordine mondiale: è il successo di una prova di forza brutale che gli Stati Uniti hanno imposto ai partner più stretti – il Giappone, la Ue, il Canada, il Messico – come ai paesi periferici. Manca tuttavia il tassello più importante: il 12 agosto scade la tregua commerciale con la Cina (con dazi provvisori reciproci al 30%) e un nuovo accordo è in via di negoziato. Pechino ha finora risposto colpo su colpo all’offensiva di Trump e non si farà piegare come gli alleati di Washington.
Tra i paesi emergenti, Trump ha aggravato lo scontro con il Brasile di Lula – un avversario politico sul piano internazionale – con dazi che arrivano al 50% su alcune esportazioni, anche come ritorsione per i provvedimenti giudiziari contro l’ex presidente Jair Bolsonaro e i suo tentativi golpisti. Verso l’India di Narendra Modi – un alleato ideologico e politico degli Usa – la minaccia è di imporre dazi fino al 50% come ritorsione per gli acquisti di petrolio dalla Russia. Ma l’offensiva di Trump è destinata a continuare anche verso i partner più stretti: la Ue è stata minacciata di dazi al 35% se gli investimenti industriali promessi negli Usa non si realizzeranno. Su auto, farmaci e elettronica – tra i settori più delicati per le economie avanzate – le cose restano in sospeso, con le lobby industriali all’opera per ricevere trattamenti di favore. L’assetto che si delinea oggi è destinato a continui scossoni, tanto più gravi quanto più fragile sarà il comando di Trump.
A trent’anni dall’avvio della liberalizzazione – con la creazione dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio, voluta proprio dagli Stati Uniti – siamo a un rovesciamento completo. Al posto del paradigma economico del ‘libero commercio’, che doveva assicurare vantaggi a tutti, e costringeva la politica a togliere le barriere, sta emergendo ora un modello politico di ‘disordine mondiale’ che deve assicurare vantaggi al paese più forte, costringendo l’economia ad adattarsi come può. Il braccio di ferro, i rapporti di forza bilaterali, il ‘caos sistemico’ sono la nuova grammatica che guida le decisioni degli Stati Uniti e che i paesi alleati – a partire dalla resa incondizionata dell’Unione europea – hanno finora accettato. Ma non è questo l’atteggiamento della Cina e dei Brics, per cui la questione commerciale non che uno dei temi caldi al centro di relazioni sempre più difficili con gli Usa.
Quali saranno gli effetti economici di tutto questo? Per la Casa bianca, l’offensiva ha portato nelle casse del governo federale Usa 152 miliardi di dollari di incassi per i dazi pagati fino alla fine di luglio. Il commercio internazionale rallenta, ma non per tutti. L’Europa è in seria difficoltà, ma le esportazioni cinesi continuano a crescere verso altri mercati. L’esenzione – o i dazi ridotti – per alcune merci essenziali per produzioni e consumi Usa – come le componenti per elettronica e auto – lascerà aperti molti flussi commerciali importanti. Alcune imprese annunciano spostamenti di produzione negli Usa per aggirare i dazi, ma ci vorrà tempo per capire se ci saranno davvero. Intanto alcuni prezzi cominciano a crescere, con gli importatori Usa che scaricano sui consumatori i dazi sui tessili asiatici e sui prodotti alimentari europei, colpendo soprattutto i più poveri. Cadrà la domanda di beni di consumo e resta da vedere se sarà compensata dai nuovi investimenti industriali promessi e dall’escalation della spesa militare Usa.
Il rischio di stagnazione e inflazione, in un’America più chiusa dentro i propri confini, è forte. Ed è questo il nodo dietro l’attacco che Trump ha scatenato da mesi contro Jerome Powell, ancora a capo della Federal Reserve, la Banca centrale Usa, che la Casa bianca vorrebbe cacciare. E se gli effetti per l’economia Usa non fossero buoni? Poco male, basterà licenziare il responsabile delle statistiche, com’è già avvenuto con Erika McEntarfer, fino a poco fa a capo del Bureau of Labor Statistics. Come il commercio, anche i numeri non saranno più quelli di una volta.
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Bruxelles sorpresa: «In effetti sono scattate le nuove tariffe»
Dazi «Da quanto ci risulta, i dazi sono in vigore già da oggi» ha affermato ieri senza emozione il portavoce della Commissione, Olof Gill. Intanto, fino a ieri sera non era stata divulgata l’attesa dichiarazione congiunta Usa-Ue, che avrebbe dovuto far seguito all’accordo orale accettato dalla presidente Ursula von der Leyen nel golf privato di Trump in Scozia
Ursula von der Leyen e Maroš Šefcovic foto Ap – Ap
Il Manifesto 8-8-25
Anna Maria Merlo
PARIGI
Sorpresa a Bruxelles per l’entrata in vigore delle nuove tariffe doganali, appena scoccata la mezzanotte del 7 agosto ora americana (6 del mattino da noi), mentre pensavano che l’avvio fosse stata stabilito per l’8. «Da quanto ci risulta, i dazi sono in vigore già da oggi» ha affermato ieri senza emozione il portavoce della Commissione, Olof Gill. Intanto, fino a ieri sera non era stata divulgata l’attesa dichiarazione congiunta Usa-Ue, che avrebbe dovuto far seguito all’accordo orale accettato dalla presidente Ursula von der Leyen nel golf privato di Trump in Scozia il 27 luglio scorso, definito dal presidente statunitense «il più grande accordo commerciale» del mondo.
SECONDO BRUXELLES il testo è pronto ma manca ancora l’ok di Trump. Per la Ue i dazi sono quindi passati al 15%, ma mancano tutti i dettagli: vino e alcolici aspettano ancora di sapere il tasso e se avranno esenzioni, per gli europei farmaceutici e chips sono al 15%, ma ieri Trump ha minacciato il 100% «nei prossimi giorni» se non ci saranno investimenti conseguenti negli Usa nel settore. Per l’auto, «a giorni» si aspetta un ordine esecutivo di Trump per passare dal 27,5% attuale (25% addizionato al 2,5% pre-esistente) al 15%. L’acciaio resta al 50%, ma la Ue spera di negoziare delle quote esenti. Trump ha minacciato di far salire i dazi per la Ue al 35% se non verranno mantenute le promesse di acquisti di energia (750 miliardi in tre anni) e di investimenti (600 miliardi), ma ieri Bruxelles ha di nuovo precisato che queste cifre sono state date in buona fede – «un aggregato di intenzioni sulle spese in energia e sugli investimenti» – ma «non sono vincolanti» per il semplice motivo che la Commissione non ha il potere di imporli, visto che dipendono da decisioni di imprenditori privati.
Nell’incertezza più assoluta ognuno prova a negoziare da solo. La Svizzera bussa da Infantino
Secondo l’agenzia di rating S&P, per le aziende Ue «gli effetti dei dazi dovrebbero rimanere gestibili» anche se «restano aperti interrogativi su effetti indiretti in alcuni settori»: prima di tutto l’incertezza, che persiste malgrado l’illusione della Ue, che ha vantato di aver ottenuto «stabilità» in cambio della genuflessione sul 15%. Tra i rischi evidenti per S&P, anche la possibilità di rotture nelle reti di approvvigionamento e il peso del dollaro debole (che praticamente, svalutato del 13% sull’euro dall’inizio dell’anno, raddoppia il peso dei dazi e li porta a sfiorare il 30%, che era il tasso minacciato da Trump all’inizio del negoziato con la Ue). La Bce è in allarme sulla crescita dell’Eurozona, che rallenta, per «l’alta incertezza» su dazi e geopolitica.
IN GERMANIA ci sono dati negativi sulla produzione industriale, caduta in giugno dell’1,9%, soprattutto per farmaceutici e alimentari (a maggio era stato meno 0,1%), che porta su base annua rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso a meno 3,9%. Il governo ha cercato un’intesa separata con Trump sull’auto, per il momento senza risultati, salvo alzare le critiche della Commissione.
LA SVIZZERA è letteralmente nel pallone, al punto di puntare addirittura sull’italo-svizzero Gianni Infantino, il presidente della Fifa, per cercare di ridurre i dazi al 39%, approfittando della Coppa del mondo di calcio che si svolgerà negli Usa il prossimo anno. La presidente elvetica Karin Keller-Sutter è tornata con le mani vuote da un precipitato viaggio a Washinton, pur avendo «ottimizzato l’offerta» per acquisti e investimenti. La Svizzera non parla di ritorsioni, ma a Berna si alzano voci per chiedere di sospendere l’acquisto di trentasei caccia F-35 statunitensi (alcuni già pagati), sostituendoli con produzioni europee. Questo passo è stato fatto dalla Spagna. La ministra della difesa Margarita Robles ha confermato che Madrid rinuncia all’acquisto di varie decine di F-35, giudicato «incompatibile» con l’impegno preso dal governo di destinare l’85% del supplemento dei fondi a produzioni europee: la scelta potrebbe cadere sugli Eurofighter o sul futuro sistema di combattimento aereo europeo. In Francia, il ministro del commercio Laurent Saint-Martin, avverte: «In un secondo tempo si dovrà parlare dei servizi», dove la Ue, a differenza dei beni, è in deficit con gli Usa.
NELLA BOZZA della Dichiarazione comune Usa-Ue c’è un riferimento al «rafforzamento della resilienza delle reti di approvvigionamento» e a una maggiore «cooperazione» sui controlli di investimenti, che significa una collaborazione sulla sicurezza economica tra europei e statunitensi per ridurre la dipendenza dalla Cina.
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Bce: tra tariffe e guerre, «crescita» incerta
Dazi Usa L'economia dell'Eurozona a rilento
La Banca Centrale Europea a Francoforte – Ap
Il Manifesto 8-8-25
Redazione
Le tensioni commerciali e geopolitiche (Ucraina, Medio Oriente) continuano a pesare sull’economia dell’Eurozona, frenando investimenti e consumi. La Bce, nel quinto Bollettino 2025, evidenzia un’inflazione «più incerta del consueto»: un euro forte o un calo delle esportazioni potrebbero ridurla, mentre dazi, spesa per la difesa e frammentazione delle catene globali potrebbero spingerla al rialzo. Francoforte sottolinea l’urgenza di rafforzare l’economia con riforme strutturali e di bilancio, tenendo conto anche delle nuove spese militari, stimate allo 0,6% del Pil entro il 2027. Nessun impegno sui tassi: le decisioni resteranno basate sui dati. Il prossimo meeting della Bce sarà il 29-30 ottobre a Firenze.
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Autarchia, blocchi contrapposti e potere: l’Europa alla prova del nuovo mondo
Joschka Fischer
DOMANI 07 agosto 2025 • 07:00
Aggiornato, 07 agosto 2025 • 20:48
Pur essendo tenuta a preservare la partnership transatlantica il più a lungo possibile, l’Europa non può ignorare il fatto che l’America, sotto la guida di Trump, è fondamentalmente inaffidabile. Ci deve essere un piano B
In questo momento storico, stiamo assistendo alla nascita dal caos di un nuovo ordine mondiale, frutto di un processo guidato da tre leader apertamente ostili all’Unione europea: il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il presidente russo Vladimir Putin e il presidente cinese Xi Jinping.
Questo nuovo assetto avrà poco in comune con quello a guida americana, che aveva caratterizzato la seconda metà del ventesimo secolo e i primi due decenni del ventunesimo. Anche se i principali attori nazionali restano gli stessi, i loro ruoli sono cambiati, così come i rispettivi pesi politici ed economici.
La rivalità internazionale
Al posto dell’ordine internazionale basato sulle regole che gli Stati Uniti avevano stabilito all’indomani della seconda guerra mondiale, avremo a che fare con un ordine basato sul potere e definito esclusivamente dalla geopolitica. Invece del libero scambio globale, osserveremo una rivalità a somma zero tra grandi blocchi economici, che favorirà una tendenza all’autarchia. E anziché un mondo analogico, ne troveremo uno sempre più digitale, in cui i progressi dell’intelligenza artificiale si riveleranno fattori decisivi per la dimensione economica, e forse anche determinanti per il controllo politico.
Questa trasformazione è senza dubbio la macro-tendenza dominante del nostro tempo in termini globali. Essa non solo riguarderà l’Europa, ma probabilmente decreterà se essa è in grado di sopravvivere in una forma riconoscibile. Dopo tutto, “Europa” è più di una denominazione geografica. È una realtà politica: un raggruppamento continentale simile a una confederazione di stati strettamente interconnessi tra loro, tenuti insieme non dalla forza militare ma da idee e valori condivisi.
Proprio come l’ordine internazionale a guida statunitense che ora rischia di scomparire, l’Ue si è formata nell’immediato dopoguerra partendo da un nucleo di paesi dell’Europa occidentale. L’Europa del dopoguerra ha avuto un grande successo come progetto di unificazione economica tra Stati un tempo ostili, prosperando grazie alla sicurezza militare e politica fornita dall’ombrello difensivo degli Stati Uniti e al sistema postbellico del commercio globale, che l’America ha contribuito a espandere e sostenere.
Negli ultimi anni, però, quando il declino dell’ordine statunitense è diventato più evidente, l’Ue è precipitata in alcune gravi crisi politiche. Il 2016 le ha assestato un duplice colpo: il Regno Unito ha votato per uscire dall’Ue e gli americani hanno eletto Trump per la prima volta. Col senno di poi, oggi possiamo dire che questi eventi hanno cambiato ogni cosa.
L’ascesa della Cina e la crisi finanziaria del 2008 avevano già preparato il terreno per una serie di grandi stravolgimenti globali. Sebbene all’epoca non erano state viste come una condanna a morte per l’ordine a guida Usa, la Brexit e la scioccante vittoria di Trump hanno sprigionato forze distruttive che erano da tempo latenti sotto la superficie.
La potenza di queste forze è diventata manifesta con l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte di Putin nel febbraio 2022, seguita dalla rielezione di Trump lo scorso anno. Le scaramucce tra Regno Unito e Unione europea sono state allora accantonate e sostituite da una nuova solidarietà militare con l’Ucraina e da un nuovo impegno collettivo per una collaborazione in materia di difesa e sicurezza a livello pan-europeo.
I policymaker e i leader politici di Londra, Bruxelles e delle più importanti capitali europee hanno capito che la situazione era radicalmente cambiata. La nuova, dura realtà – incarnata da Putin – ha costretto tutti gli europei (sia dentro che fuori l’Ue) a ritrovarsi sulla stessa barca geopolitica. Quando si parla di sicurezza, gli europei hanno un interesse comune. La Norvegia e il Regno Unito sono altrettanto vulnerabili agli effetti dell’aggressione militare russa quanto la Polonia, la Finlandia, la Svezia, la Germania e la Francia.
La difesa europea
I leader europei e la maggior parte dei cittadini comprendono che, se Trump dovesse porre fine alla garanzia di sicurezza offerta dall’America e ritirare le truppe statunitensi, l’Europa dovrebbe provvedere a difendere i propri confini, e la propria esistenza, da sola.
Minacciata da Putin e incalzata da Trump, l’Europa deve trovare un modo per sviluppare una propria capacità di difesa autonoma. Pur essendo tenuta a preservare la partnership transatlantica il più a lungo possibile, non può ignorare il fatto che l’America, sotto la guida di Trump, è fondamentalmente inaffidabile. Ci deve essere un piano B. Tutti i paesi europei, sia dentro che fuori l’Ue, devono riarmarsi e sviluppare piani per affrontare entrambi gli scenari, cioè con o senza il coinvolgimento dell’America.
In entrambi i casi, i paesi europei dovranno collaborare il più strettamente possibile, non solo sulla difesa, ma anche per rilanciare l’economia del continente. Ciò richiederà una leadership congiunta da parte degli attori più importanti, come Francia, Regno Unito, Germania, Italia e Polonia, che hanno le risorse umanitarie, militari ed economiche necessarie, e adesso anche la volontà politica.
Di fronte alla realtà odierna, le differenze ideologiche di ieri sono diventate quasi insignificanti. Le questioni centrali della politica europea non riguardano più l’allargamento dell’Unione, l’integrazione e l’indipendenza nazionale ma, prima di tutto, la difesa della libertà europea e dei valori comuni.
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«Ci arrivano miliardi»: sui dazi Trump vessa gli alleati e salva la Cina
(Il presidente Usa. Foto Ansa)
Mattia Ferraresi
DOMANI 07 agosto 2025 • 19:59
Masticano amaro Ue, Svizzera e India maltrattati dal presidente. La Cina ottiene invece un’altra proroga. I mercati reggono all’urto
Il nuovo regime di dazi imposto da Donald Trump ha ridisegnato l’assetto geopolitico globale, costringendo alleati e avversari degli Stati Uniti a riposizionamenti e proteste, mentre i mercati hanno reagito senza patemi, e anzi con aperture in crescita, avendo già digerito la svolta.
«I dazi stanno scorrendo negli Stati Uniti a livelli che non si pensavano possibili!», ha esultato il presidente, che deve presentare ai cittadini americani misure che avranno effetti inflattivi come una panacea per i conti pubblici e il primo passo verso un percorso di reindustrializzazione.
I dazi si tradurranno in una maggiore produzione manifatturiera negli Stati Uniti «nei prossimi due anni», ha detto il segretario del Tesoro statunitense Scott Bessent. «Stiamo assistendo a questi impegni molto ingenti, sia da parte dei governi che dei partner aziendali», ha spiegato.
Punizioni geostrategiche
Le tariffe punitive più clamorose sono quelle imposte all’India per ragioni puramente geostrategiche: a Nuova Delhi viene inflitta una percentuale del 50 per cento per la colpa di comprare petrolio russo dando così linfa alla guerra di Vladimir Putin, su cui pende l’ennesimo e assai poco convincente ultimatum americano. Trump forse lo incontrerà presto dopo una lunga serie di telefonate inconcludenti e crescenti frustrazioni.
Il primo ministro indiano, Narendra Modi, ha presentato l’inflessibile volontà di resistere al protezionismo della Casa Bianca come una difesa dell’agricoltura indiana. «L’india non farà mai compromessi sugli interessi dei contadini, dei pescatori e dei lavoratori dell’industria casearia. So che dovremo pagare un prezzo pesante per questo, e sono pronto a farlo», ha dichiarato.
Quello dell’India è il caso più evidente in cui dazi e sanzioni si toccano, mischiando le ragioni della forza politica a quelle degli scambi commerciali. Nella lista dei paesi puniti spicca anche la Svizzera, vessata con dazi del 39 per cento, la percentuale più alta fra i paesi occidentali; la presidente svizzera Karin Keller-Sutter è tornata senza un accordo migliorativo dalla sua missione in extremis a Washington.
Anche il maltrattamento di Taiwan apre una finestra sulla visione trumpiana: il presidente impone dazi al 20 per cento a quello che un tempo era stato il figlio prediletto degli Stati Uniti in Asia, e minaccia addirittura di estendere la guerra commerciale globale con tariffe del 100 per cento su tutti i semiconduttori, che l’isola produce in abbondanza, a meno che le aziende non si impegnino a fare investimenti produttivi negli Stati Uniti. Yen Huai-Shing, rappresentante del team negoziale di Taiwan, ha detto ieri che la delegazione sta ancora lavorando duramente per ottenere un «trattamento di favore» sui semiconduttori.
La stangata a Taiwan porta naturalmente alla questione cinese, che è allo stesso tempo il cuore della guerra commerciale di Trump e il grande assente di questo nuovo assetto. Ieri il trumpiano Howard Lutnick, il segretario del Commercio, in un’intervista a Fox accuratamente studiata per lanciare i segnali giusti, ha detto che sulla Cina «tutte le opzioni sono sul tavolo» per quanto riguarda il principio della punizione di chi sostiene la Russia, ma allo stesso tempo ha fatto capire che probabilmente la scadenza sui dazi con la Cina – in scadenza il 12 agosto – sarà prorogata di altri 90 giorni.
Il grande competitor globale americano, quello per cui tutta la macchina protezionista trumpiana si è mossa, rimane per ora sullo sfondo delle manovre della Casa Bianca.
Se quello che Trump sta facendo è una strutturale riconfigurazione dell’ordine commerciale globale, per il momento il ruolo di Pechino non è quello del grande avversario americano. Il regime è oggetto di minacce e promesse di ritorsione, ma finora quando si è trattato di arrivare al dunque, il presidente ha fatto un passo indietro. Dimostrandosi addirittura invece più duro con l’alleato taiwanese.
Il capo di Intel
«In mezzo a un mondo di falchi bipartisan, Trump è l’ultima colomba a Washington», ha scritto sul Financial Times Edward Luce, notando che Trump da sempre è molto più incline a prendersela con gli alleati che con gli avversari. Negli anni Ottanta era solito indicare il Giappone, e non l’Unione Sovietica, come la minaccia più pressante agli Stati Uniti, e in modo analogo oggi se la prende con i semiconduttori dell’alleato taiwanese invece che con il regime di Pechino.
Quando attacca le pratiche industriali cinesi, spesso finisce per dare la colpa alle aziende americane, che i colossi di Pechino circuiscono con tecniche che anche lui userebbe, se fosse al loro posto.
L’unico segnale – indiretto – in direzione anticinese nel giorno dell’entrata in vigore dei dazi Trump lo ha dato invocando il licenziamento del nuovo amministratore delegato di Intel, Lip-Bu Tan, che ha descritto come «in pieno conflitto» per via di suoi investimenti personali da centinaia di milioni in fornitori dell’Esercito popolare di liberazione.
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Gli Usa si portano via i chip di Taiwan. E la Cina gode
Michelangelo Cocco
DOMANI 07 agosto 2025 • 20:05
La Casa Bianca annuncia un mega investimento di Tsmc negli Usa e porta via dall’isola la produzione strategica. Umilia i taiwanesi per non irritare Pechino
Shanghai – Con la produzione di microchip avanzati drenata, a suon di dazi, verso gli Usa, Taiwan rischia di perdere la sua principale assicurazione contro la “riunificazione” alla Repubblica popolare cinese: quelle patatine elettroniche più preziose del petrolio che hanno reso l’isola indispensabile anche per l’occidente. Mercoledì Tariff Man, Donald Trump, ha annunciato che Tsmc raddoppierà il già mega investimento in una serie di stabilimenti in Arizona, da 160 a 300 miliardi di dollari.
Da Taipei bocche cucite, a conferma di una decisione imposta dall’agenda Maga. La compagnia leader globale dei semiconduttori di ultima generazione (quelli che fanno girare fabbriche intelligenti e super armi) a marzo aveva già aumentato la spesa per la sua Fab 21 in costruzione a Phoenix da 100 a 160 miliardi. Nonostante ciò, Taiwan si è vista appioppare dazi del 20 per cento sulle importazioni negli Usa, entrati in vigore ieri, più elevati dei concorrenti Giappone e Corea del Sud (al 15). A essere colpiti anche macchinari, plastica e l’orchidea farfalla made in Taiwan.
Ma a Taipei a destare preoccupazione e sconcerto è soprattutto la localizzazione all’estero di Tsmc. Considerazioni di natura politica – la “riunificazione” di Taiwan alla Repubblica popolare cinese, nella Nuova era di Xi Jinping, non è più un’ipotesi tanto remota – e industriale – la necessità degli Usa di riportare in patria produzioni strategiche – stanno spostando altrove la principale fonte di ricchezza dell’isola (165 miliardi di dollari nel 2024, il 34,7 per cento del suo export).
Senza terra sotto i piedi
Il deputato del nazionalista Kuomintang (all’opposizione) Lai Shyh-bao ha evocato il Trattato di Shimonoseki (quello con cui la Cina dei Qing sconfitta nella guerra del 1894-95 si piegò al Giappone), in quanto Trump avrebbe imposto a Taiwan anche l’importazione di automobili e la liberalizzazione del mercato per accogliere la carne di maiale e di manzo Usa.
Il presidente taiwanese Lai Ching-te, autodefinitosi «lavoratore pragmatico per l’indipendenza di Taiwan», ha puntato tutto sull’amicizia con gli Usa e sta perdendo la scommessa. I repubblicani (tradizionalmente più filo Taiwan dei dem) con Trump lo stanno umiliando; nei giorni scorsi l’amministrazione Usa gli ha pure vietato lo scalo nell’aeroporto di New York.
Uno sgarbo, considerando che lo stop-over, anche se fa arrabbiare Pechino (che pretende che i “leader” dell’isola non mettano piede, nemmeno in transito, negli Usa), è stato più volte concesso in passato, sia dai democratici sia dai repubblicani. Ma è chiaro che in questa fase – a dispetto dell’apparente improvvisazione delle sue sparate – Trump è molto attento a non turbare il negoziato commerciale che più gli interessa: quello con la Repubblica popolare cinese.
Nonostante i dazi, l’export della Cina il mese scorso ha registrato un lusinghiero più 7,2 per cento e Pechino è per Trump un osso duro, non solo perché detiene il quasi monopolio delle terre rare, ma soprattutto perché ha una strategia chiara, speculare al Maga: il “rinnovamento” della nazione cinese. Al presidente Lai Ching-te non resta che abbozzare: è senza maggioranza in patria, e l’America gli volta le spalle.
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ChatGPT5 2050808
Perfetto, procediamo in tre passaggi ordinati.
A) Breve esposizione del contenuto degli articoli
Gli articoli raccolti dal Manifesto raccontano, da più angolazioni, l’offensiva protezionistica di Donald Trump attraverso una nuova ondata di dazi commerciali, presentandola non come misura economica ordinaria ma come arma politica e geopolitica.
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Bascetta – “Il nuovo ordine del nazionalismo”
I dazi sono interpretati come strumento di potere sovrano e autoritario, sottratto a controllo democratico e impiegato con logica di “economia politica del capriccio”. Gli Usa li usano per colpire rivali (Brasile, Canada) e condizionare alleati (UE), sostituendo la concorrenza tra imprese con lo scontro diretto tra stati. L’UE appare incapace di reagire come attore unitario. -
Tonello – “La differenza tra l’impero e il racket”
L’azione di Trump è paragonata a un “pizzo” mafioso: niente soft power, solo coercizione e trasferimento di risorse verso il centro imperiale. Esempi: punizioni al Brasile per il processo a Bolsonaro, minacce all’India per il petrolio russo, alla Colombia per deportazioni, al Canada per digital tax. I dazi sono usati come ritorsione politica, generando incertezza e scoraggiando investimenti. -
Catucci – “Mezzanotte di fuoco”
I nuovi dazi entrano in vigore a sorpresa, variando da paese a paese fino al 50%. Gli USA incassano già enormi entrate (152 miliardi di dollari in pochi mesi), che la Casa Bianca intende usare per compensare tagli fiscali miliardari. Ma il costo ricade sui consumatori americani, soprattutto sui ceti medi e bassi, configurando di fatto una tassa regressiva. -
Pianta – “Prima vittoria della forza bruta”
Gli USA impongono dazi ad alleati e rivali, ma la vera prova sarà lo scontro imminente con la Cina, che finora ha risposto simmetricamente. La strategia rappresenta un rovesciamento del paradigma del libero commercio, sostituito dal “disordine mondiale” fondato su rapporti di forza bilaterali. Effetti: difficoltà europee, rialzo prezzi negli USA, rischio di stagnazione e inflazione. -
Merlo – “Bruxelles sorpresa”
L’UE scopre che i dazi sono scattati prima del previsto. L’accordo con Washington è opaco, con minacce continue di rialzo al 35% e vincoli su acquisti energetici e investimenti che la Commissione non può garantire. Gli stati membri trattano individualmente, mentre il dollaro debole amplifica l’effetto delle tariffe. In Germania e altrove emergono già segni di crisi industriale.
B) Tracciato per argomenti trattati
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Natura politica e autoritaria dei dazi
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Potere esecutivo svincolato da controlli democratici
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Strumento di ritorsione e ricatto politico
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Sovrapposizione tra dazi e sanzioni
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Funzione imperiale / racket globale
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Trasferimento forzato di risorse alla potenza dominante
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Esempi di coercizione verso alleati e rivali
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Assenza di giustificazione ideologica, solo forza
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Impatto economico interno agli USA
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Entrate fiscali straordinarie (152 miliardi in pochi mesi)
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Carico sui consumatori → tassa regressiva
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Rischio inflazione e stagnazione
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Incentivi distorti e incertezza per le imprese
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Reazioni internazionali
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UE disunita, incapace di risposta coordinata
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Accordi opachi e instabili con continui rialzi minacciati
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Trattative separate degli stati membri
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Resistenza della Cina e dei BRICS
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Rovesciamento del paradigma del libero commercio
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Dal WTO e globalizzazione al “caos sistemico”
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Sostituzione della cooperazione multilaterale con rapporti bilaterali di forza
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Effetti strutturali sulle catene globali del valore
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Effetti macroeconomici e geopolitici
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Rialzo dei prezzi internazionali
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Ristrutturazione degli approvvigionamenti
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Possibile escalation verso conflitti più ampi
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Aumento del potere delle élite dominanti
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C) Saggio – a nome di Zenodoto agroîkos
Il dazio come clava: l’arte imperiale del commercio in guerra
di Zenodoto Agroîkos
C’era un tempo in cui il commercio veniva cantato come antidoto alla guerra. Gli apologeti del libero scambio assicuravano che le merci avrebbero addolcito i costumi, sostituito il clangore delle armi con il fruscio delle navi mercantili. Oggi, invece, assistiamo al rovesciamento di quella promessa: sono gli stati a servirsi del commercio per alimentare conflitti, riaffermare sovranità, piegare rivali e alleati.
Donald Trump, con la grazia di un fabbro e l’eleganza di un esattore di quartiere, ha trasformato i dazi in arma politica primaria. Non si tratta di una politica economica coerente, né di un piano industriale di lungo periodo: è un esercizio di potere nudo, un’economia politica del capriccio. L’entità delle tariffe e la destinazione dei loro proventi non passano per parlamenti o organismi multilaterali: sono decreti dell’uomo solo al comando.
Gli esempi abbondano e hanno la limpidezza di un manuale di coercizione: colpire il Brasile per punire Lula e proteggere Bolsonaro; minacciare l’India per il petrolio russo; usare il Canada come monito contro la tassazione dei giganti digitali americani; mettere l’Unione europea di fronte all’aut aut “armi e gas dagli USA o 35% di dazi”. Non siamo davanti a dispute commerciali, ma a veri atti di rappresaglia. La differenza tra impero e racket, qui, si assottiglia fino a scomparire.
Sul piano interno, i dazi hanno già fruttato 152 miliardi di dollari in pochi mesi: una manna per un bilancio federale gravato da tagli fiscali miliardari. Ma questa pioggia d’oro cade all’insù: è la popolazione americana a pagare, soprattutto quella meno abbiente, sotto forma di rincari su beni importati. È una tassa regressiva, mascherata da difesa dell’interesse nazionale.
All’estero, gli effetti sono immediati: alleati frastornati, avversari in allerta. L’UE, non essendo uno stato federale, oscilla tra dichiarazioni di facciata e trattative separate, rivelando la propria fragilità strutturale. La Cina, al contrario, risponde colpo su colpo, preparandosi a uno scontro che trascende il commercio e investe la leadership globale.
Il quadro che emerge è quello di un “disordine mondiale” deliberato: dalla fine del XIX secolo, gli Stati Uniti non avevano più adottato un modello fiscale fondato quasi esclusivamente sui dazi. Ora, in un’epoca di interdipendenze produttive, questa scelta rompe filiere, ridisegna mercati, impone riallocazioni forzate. Non è un ritorno al protezionismo classico, ma l’uso della leva commerciale come arma di guerra asimmetrica.
Chi pensa che si tratti solo di una fase dovrebbe ricordare le parole dell’economista Joao Gomes: «È una dipendenza». E come ogni dipendenza, genera assuefazione e tolleranza: occorrono dosi sempre più alte di pressione per ottenere lo stesso effetto.
Il dazio, così brandito, non costruisce ponti ma scava fossati. Trasforma la fiducia in paura, la concorrenza in obbedienza, la diplomazia in contabilità estorsiva. È un impero che si mostra senza toga, con la mazza in mano. E forse, nella sua brutalità, ci dice più verità di quanto osassero i vecchi sofisti del libero mercato.
Se vuoi, posso anche aggiungere una tabella di sintesi paesi-colpiti / motivi / aliquota, così da visualizzare il quadro strategico di Trump. Sarebbe utile per vedere il disegno complessivo. Vuoi che la preparo?
Perfetto, ecco la tabella di sintesi degli episodi principali riportati negli articoli, con paesi colpiti, motivi dichiarati o impliciti e aliquote indicate.
Paese / Regione colpita | Aliquota indicata | Motivo dichiarato | Motivo implicito / politico |
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Brasile | fino al 25% | Squilibrio commerciale / difesa industria USA | Punire Lula, sostenere Bolsonaro e influenzare politica interna |
India | variabile, fino al 50% | Pressioni per non acquistare petrolio russo | Allineamento alla strategia USA contro Mosca |
Colombia | non specificata | Gestione flussi migratori / deportazioni | Costringere il governo a riprendere migranti respinti |
Canada | fino al 25% | Digital tax ritenuta discriminatoria | Difendere Big Tech USA, intimidire altri paesi |
Unione Europea | minaccia fino al 35% | Protezione industria USA / squilibrio commerciale | Obbligare a comprare armi e gas dagli USA, evitare investimenti in paesi non graditi |
Cina | fino al 50% | Dumping, concorrenza sleale | Conflitto strategico per leadership tecnologica e geopolitica |
Messico | fino al 25% | Controllo frontiera e migrazione | Pressione per accordi di sicurezza e contenimento migratorio |
Corea del Sud | non specificata | Squilibrio auto e tecnologia | Ribilanciamento a favore di produzione USA |
Giappone | non specificata | Squilibrio commerciale | Allineamento militare e tecnologico |
Questa griglia rende evidente che l’uso dei dazi non segue logiche puramente economiche, ma una strategia mista di:
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coercizione diplomatica (Brasile, India, Canada, UE),
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ripresa di controllo delle catene produttive (Cina, Corea, Giappone),
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condizionamento politico interno di altri paesi (Colombia, Messico).
Se vuoi, posso integrare questa tabella in un’infografica compatta che visualizzi le aree colpite e le motivazioni, così da mostrare la mappa geopolitica dei dazi trumpiani. Sarebbe un colpo d’occhio potente per il saggio di Zenodoto.
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Ecco l’infografica: mostra i paesi colpiti, l’aliquota dei dazi (quando nota) e le motivazioni, con colori diversi per le tre categorie strategiche: coercizione diplomatica, controllo delle catene produttive e condizionamento politico.
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Perplexity
Ecco la risposta strutturata secondo le tue richieste:
A) Breve esposizione del contenuto degli articoli:
Gli articoli analizzano l’intensificarsi della guerra commerciale statunitense guidata dal presidente Donald Trump, caratterizzata da un massiccio aumento dei dazi contro molti paesi, inclusi alleati europei, India, Brasile e Taiwan. Questa politica di «guerra dei dazi» rappresenta un ritorno a una strategia di conflitto tra stati, in cui il potere statale autoritario si impone sui rapporti economici globali, con un uso arbitrario e politico delle tariffe doganali non più legate a regole o bilance commerciali ma a scopi nazionalisti e geostrategici. L’Europa appare debole e divisa nel reagire, mentre la Cina resiste e contrattacca, mostrando un approccio più strategico e coerente. La politica dei dazi statunitensi, sebbene generi entrate fiscali importanti, rischia di aumentare l’inflazione interna, indebolire la classe media americana e frenare gli investimenti. Nel contempo, le tensioni globali segnano la fine dell’ordine internazionale liberale basato sul libero scambio, sostituito da una rivalità geopolitica tra blocchi economici con tendenze verso l’autarchia e la militarizzazione, mettendo a rischio anche la sopravvivenza politica del progetto europeo.
B) Tracciato per argomenti trattati:
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La guerra dei dazi come guerra tra stati e conseguenze sul potere statale
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L’arbitrio sovrano dell’amministrazione Trump nell’uso dei dazi
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Effetti particolari sui paesi: Europa, Brasile, India, Canada, Taiwan, Svizzera
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Impatti economici per gli Stati Uniti: entrate fiscali, inflazione, debolezza della classe media, incertezza degli investimenti
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La posizione dell’Unione Europea: debolezza, divisioni, tentativi di negoziazione
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La resistenza cinese e il futuro negoziato con gli USA
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Il cambiamento globale: fine dell’ordine liberale, emergere di un nuovo ordine basato sulla geopolitica e blocchi economici contrapposti
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La sfida europea: autonomia militare, riorganizzazione politica ed economica per la sopravvivenza
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Le dinamiche di potere negli USA: Trump e il ruolo delle élite
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Caso specifico di Taiwan e l’estrazione strategica della produzione tecnologica da parte degli USA
C) Saggio a nome di Zenodoto agroîkos:
Il Nuovo Ordine del Nazionalismo: Commercio per Tornare alla Guerra
di Zenodoto agroîkos
Nel tumulto dei tempi presenti, osserviamo con preoccupazione il progressivo dissolversi dell’equilibrio globale fondato sui principi della cooperazione e del libero scambio. La cosiddetta guerra dei dazi, scatenata dall’amministrazione statunitense sotto la guida dell’ex presidente Donald Trump, rappresenta molto più di un semplice conflitto economico: è l’espressione di un nuovo ordine mondiale in cui il potere dello stato, con autorità accentrata e decisionismo arbitrario, si impone come arbitro supremo dei destini economici internazionali.
L’imposizione di tariffe doganali elevate e instabili su una vasta gamma di paesi, dalle democrazie europee agli alleati tradizionali come il Canada, fino agli emergenti come India e Brasile, non è una questione di mera bilancia commerciale o competitività di mercato. Essa è invece strumento politico, volto a riaffermare la supremazia di uno stato-nazione autoritario disposto a utilizzare la forza economica come arma di pressione e ricatto. Le entrate generate dai dazi, pur ingenti e seducenti per un governo alle prese con ingenti debiti pubblici, rischiano di trasformarsi in una trappola per il consumatore interno, una tassa occulta che pesa maggiormente sulle classi medie impoverite.
Di fronte a questa situazione, l’Europa si presenta divisa e fragile, incapace di formulare una risposta unitaria e incisiva. La sua natura non federale e la molteplicità di interessi nazionali la espongono all’arroganza arbitraria di un partner transatlantico inaffidabile e aggressivo, mentre la Cina, pur sotto minaccia, mantiene una strategia coerente, pronta a contrattaccare su più fronti.
Il protendersi verso un mondo di blocchi contrapposti, segnato dalla tendenza all’autarchia e dalla rivalità geopolitica a somma zero, impone all’Europa di rivedere le proprie strategie di sicurezza e di sviluppo economico. La difesa della libertà e dei valori comuni passa ora necessariamente attraverso una maggiore autonomia militare e un rinnovato protagonismo politico ed economico continentale.
In definitiva, assistiamo alla fine dell’illusione che il libero commercio potesse sostituire le guerre politiche e militari. Al contrario, gli stati sembrano ora servirsi del commercio come nuova arena di conflitto, un’arena in cui la competizione economica tradizionale è dominata da logiche nazionalistiche e di potere, in cui le élite consolidano il proprio comando sulle società.
Se da un lato questo quadro impone una profonda riflessione politica e culturale, dall’altro richiama l’umanità a immaginare e costruire forme più giuste e condivise di convivenza internazionale, che sappiano superare la barbarie del capriccio statale e le trappole del nazionalismo esasperato.
Se desideri, posso aiutarti anche con l’adattamento del saggio o approfondimenti specifici.
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DeepAI
Gemini
NOTA ha tagliato articoli di Domani
Certo, ecco un riassunto, un tracciato e un saggio basato sugli articoli forniti.
A) Esposizione del contenuto degli articoli
Gli articoli analizzano la nuova politica economica e commerciale aggressiva di Donald Trump, che si sta manifestando attraverso l'imposizione di dazi elevati su molti paesi. Questa politica viene interpretata come una "guerra dei dazi" che segna il tramonto del libero scambio globale e il ritorno del nazionalismo come ideologia dominante.
I punti principali emersi sono:
Ruolo dello Stato: Le decisioni economiche non sono più guidate dalla "competitività" delle imprese, ma dall'arbitrio dello stato, in particolare da un esecutivo forte e autoritario come quello di Trump. La politica dei dazi diventa uno strumento di potere, privo di regole certe e prevedibili.
Vantaggi e criticità: I dazi generano miliardi di dollari di entrate per il governo americano, utili a finanziare i tagli alle tasse e a colmare il debito pubblico. Tuttavia, molti economisti avvertono che questa è una dipendenza rischiosa, poiché le entrate provengono in realtà dai consumatori americani, che pagheranno prezzi più alti, con il rischio di aumentare l'inflazione e rallentare l'economia.
Arma politica: I dazi non sono solo uno strumento economico, ma una vera e propria arma politica. Vengono usati per punire avversari (come nel caso del Brasile di Lula), ricattare alleati (come l'India per l'acquisto di petrolio russo o il Canada per la digital tax) e imporre una sorta di "racket" imperiale, dove il mondo deve pagare per la "protezione" statunitense.
L'Europa in difficoltà: L'Unione Europea viene descritta come l'anello debole in questo nuovo scenario. La sua natura non-federale e la mancanza di una politica estera unitaria la rendono incapace di reagire con forza. I suoi membri, in particolare la Germania, stanno cercando accordi separati, minando la coesione interna e accettando le imposizioni di Washington.
Scenario globale: La Cina e i BRICS si distinguono come gli unici attori capaci di resistere all'offensiva statunitense, rispondendo colpo su colpo. L'offensiva di Trump segna la fine dell'ordine internazionale basato sulle regole del dopoguerra e l'emergere di un nuovo ordine basato sul potere, sulla rivalità tra grandi blocchi e su una crescente tendenza all'autarchia.
B) Tracciato per argomenti trattati
Introduzione: La guerra dei dazi come nuova realtà geopolitica e il suo promotore, Donald Trump.
Natura dei dazi:
Passaggio dalla competitività economica all'arbitrio statale.
Abbandono delle regole internazionali.
Dazi come strumento di potere autoritario e decisionista.
Motivazioni e conseguenze economiche dei dazi:
Generazione di entrate per il governo USA (finanziamento di tagli fiscali e riduzione del debito).
Rischio di inflazione e rallentamento economico.
Onere sui consumatori americani, in particolare sui ceti meno abbienti.
Pericolo di una "dipendenza" dalle entrate dei dazi.
I dazi come strumento di politica estera:
Esempi di utilizzo: Brasile (punire l'azione legale contro Bolsonaro), India (punire l'acquisto di petrolio russo), Canada (pressioni sulla digital tax).
I dazi come "primo stadio di un conflitto tra stati" e parentela stretta con le sanzioni.
La differenza tra impero e racket: l'impero giustifica la "protezione" con l'ideologia, il racket la impone con la forza. Trump agisce come un racket.
Reazione dei paesi e dei blocchi:
Unione Europea: Inadeguatezza e frammentazione.
Mancanza di una politica unitaria e reazioni tardive.
Tentativi di accordi bilaterali (es. Germania).
Accettazione di condizioni umilianti per ottenere "stabilità".
Cina e BRICS: Opposizione e risposta "colpo su colpo". Capacità di resistere all'offensiva statunitense.
Il nuovo ordine mondiale:
Fine dell'ordine internazionale basato sulle regole (WTO).
Evoluzione verso un mondo basato sul potere, sulla rivalità tra blocchi e sulla tendenza all'autarchia.
Necessità per l'Europa di sviluppare un "piano B", una propria difesa e una coesione economica, superando l'affidabilità perduta degli Stati Uniti.
Conclusioni: L'uso dei commerci per ritornare a uno stato di potenziale conflitto tra nazioni e l'accrescimento del potere delle élite.
C) Saggio a nome di Zenodoto agroîkos
Dall'agorà alla guerra dei dazi: riflessioni di un contadino saggio
Oggi, mentre coltivo la mia terra, mi giungono le voci della città, i discorsi dei mercanti e le notizie che giungono da terre lontane. Non mi stupisco che gli uomini, nel loro continuo affannarsi per la ricchezza, abbiano dimenticato la saggezza dei nostri padri. E così, sento che il libero scambio, che un tempo era celebrato come il balsamo per le ferite della guerra, oggi si è mutato in un'arma, una lancia brandita con furia dall'autocrate di oltreoceano.
Mi giunge notizia che questo nuovo imperatore, che si vanta di avere la più grande agorà del mondo, non si accontenta di chiedere un tributo per la sua protezione, ma lo esige con la violenza di un brigante. Ci hanno detto che l'impero romano, pur con la sua forza, portava la legge e la giustizia, ma questo nuovo impero, quello di Washington, non offre altro che la sua forza bruta. Mi pare che l'amico mio, Fabrizio, abbia colto nel segno: questo non è un impero, ma un racket. Il suo capo, come Totò Riina, ci dice: “Pagate perché dovete pagare”. E, ciò che mi turba di più, è che lo fa per ripianare i suoi debiti, ma a spese dei suoi stessi cittadini. Avere un pozzo di denaro, è vero, può dare una certa dipendenza, come il vino forte per un ubriacone, ma a cosa serve se i nostri figli saranno poi costretti a pagare con l'inflazione e con la miseria?
La mia più grande preoccupazione riguarda la nostra amata Europa. Mi pare che la nostra unione, che per molti decenni ha promesso un futuro di pace e prosperità, si stia rivelando come una casa costruita sulla sabbia. I nostri capi, come Don Abbondio, si affrettano a rallegrarsi per un presunto accordo, quando è evidente che il potente ci sta imponendo la sua volontà. Mentre l'imperatore di Washington minaccia di aumentare i tributi, i nostri capi a Bruxelles si dicono stupiti, come se non avessero capito che in una guerra di potere, non ci sono regole, ma solo la forza.
Joschka, un uomo che ha visto molto del mondo, ha capito che dobbiamo trovare la nostra strada, che dobbiamo forgiare le nostre armi e le nostre leggi. L'impero di Washington è un alleato inaffidabile. E il nostro nemico di oriente, il grande orso russo, non ci lascerà dormire sonni tranquilli. Così, vedo che i vari stati europei, invece di agire come una grande e potente confederazione, si muovono come piccoli signorotti, cercando un accordo per proprio conto, e così facendo, indeboliscono l'intero continente.
Io, umile contadino, vedo che il commercio, che un tempo era un mezzo per avvicinare i popoli, oggi viene usato per dividerli. Il libero scambio era una promessa di prosperità per tutti, ma ora si sta trasformando in un gioco a somma zero, dove il più forte prende tutto e il più debole si accontenta delle briciole. Mi pare che gli stati si stiano servendo del commercio per ritornare allo stato di potenziale conflitto, con grande vantaggio per le élite, come giustamente ha notato il mio amico Marco. Ma come possiamo pensare che la guerra dei dazi, che impoverisce il popolo, possa portare a qualcosa di buono? Temo che questa sia solo la punta dell'iceberg, il primo stadio di un conflitto più grande che potrebbe travolgerci tutti, e in cui, come al solito, i più poveri pagheranno il prezzo più alto.
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Ecco il mio piano sull'argomento da affrontare. Fammi sapere se vuoi apportare qualche modifica.
Il nuovo ordine del nazionalismo: commercio per tornare alla guerra
Analisi e riflessioni sul disordine commerciale globale all'alba del venticinquesimo secolo
Introduzione: Dal Liberalismo alla Forza Bruta – L'irruzione del capriccio nel commercio globale
Gli articoli analizzati delineano un quadro di profondo stravolgimento dell'ordine economico globale, descrivendo l'attuale politica tariffaria statunitense non come una semplice misura protezionistica, ma come un'arma di potere statale mirata a ridisegnare gli equilibri mondiali. I testi, che spaziano dall'analisi politica a quella economica, convergono su alcuni punti cruciali che meritano un'attenta disamina. In primo luogo, la politica dei dazi dell'amministrazione Trump viene descritta come unilaterale e imprevedibile, caratterizzata da un annuncio via social media e minacce costanti che minano la stabilità delle relazioni commerciali globali. Il secondo punto saliente riguarda la reazione e la posizione dell'Unione Europea, dipinta come un'entità politica incompiuta e vulnerabile, incapace di una risposta unitaria e costretta, in una sorta di "resa incondizionata", ad accettare condizioni sfavorevoli mentre i suoi membri si frammentano in tentativi di accordi bilaterali. Sul piano economico interno agli Stati Uniti, si evidenzia un paradosso: i dazi, sebbene generino entrate per il governo federale, finiscono per tradursi in una "tassa sui consumi" che colpisce la fascia più povera della popolazione, alimentando l'inflazione e frenando gli investimenti. Infine, gli articoli inquadrano queste dinamiche in un contesto più ampio, annunciando la fine dell'ordine post-bellico basato sul libero commercio e l'emergere di un nuovo "disordine mondiale" fondato sulla forza bruta, dove potenze come la Cina e i BRICS si oppongono alla logica coercitiva statunitense.
Il presente saggio si propone di approfondire queste tematiche, sviluppando una tesi centrale: il commercio, un tempo celebrato dall'ottimismo liberale come baluardo della pace e veicolo di interdipendenza, è stato riappropriato e pervertito in uno strumento di conflitto geopolitico e di affermazione di sovranità nazionali aggressive. Questa trasformazione segna un ritorno a una politica estera neomercantilista e nazionalista, dove le élite di potere utilizzano la guerra commerciale per consolidare il proprio controllo, a scapito della democrazia, della stabilità e del benessere dei cittadini comuni. La nostra analisi procederà per argomenti, esaminando la natura autoritaria dei dazi, la ridefinizione dell'egemonia americana, la fragilità strutturale dell'Europa e le profonde contraddizioni economiche che emergono da questo nuovo assetto globale.
I. L'Economia Politica del Capriccio: Quando i dazi diventano arbitrio sovrano
La "guerra dei dazi" non rappresenta una semplice controversia commerciale, ma un fenomeno che, per sua natura, comporta "l’insediamento del potere dello stato al centro dei rapporti economici globali". Con questa affermazione, si supera la visione tradizionale del protezionismo come meccanismo per tutelare settori produttivi nazionali. Ciò che emerge è piuttosto una dinamica in cui il conflitto tra stati soppianta la "competitività" tra imprese e sistemi produttivi, con l'obiettivo di rafforzare il potere statale in modo duraturo. Questo passaggio di paradigma è radicale e segna una netta rottura con l'era della globalizzazione, dove lo stato era visto prevalentemente come un facilitatore del mercato. Ora, lo stato torna a essere l'attore centrale, ma in una forma che gli articoli definiscono "autoritaria e decisionista".
L'elemento più caratterizzante di questa nuova politica è la sua totale estraneità alle procedure democratiche e ai contrappesi dello stato di diritto. L'entità dei dazi e la destinazione dei loro proventi, come dichiarato esplicitamente dall'amministrazione Trump, diventano una "prerogativa indiscutibile dell’arbitrio sovrano". Ciò ha dato vita a una vera e propria "economia politica del capriccio". Il concetto è fondamentale per comprendere la logica di fondo: la decisione economica non è più il risultato di un dibattito politico, di un'analisi costi-benefici o di una negoziazione multilaterale. Viene sottratta a qualsiasi "disamina politica" e centralizzata nelle mani di un esecutivo forte, che agisce in una sorta di "stato di eccezione" permanente in nome dell'interesse nazionale. La de-politicizzazione della politica economica è un fenomeno di vasta portata. La politica dei dazi, che storicamente è sempre stata oggetto di un complesso dibattito legislativo e di analisi economica, viene qui ridotta a un atto di volontà di un singolo esecutivo, minando le basi stesse dello stato di diritto. Il fatto che un accordo venga annunciato con un messaggio tutto in maiuscolo su un social media, come nel caso delle nuove aliquote entrate in vigore, è il segnale più evidente di questa trasformazione, in cui la governabilità si fa spettacolare e la prevedibilità svanisce.
Un aspetto particolarmente rilevante di questa politica è la sua selettività. Le aliquote non sono applicate in modo uniforme, ma variano drasticamente da nazione a nazione, in un modo che non risponde a una logica puramente economica, ma a una di potere. Ad esempio, le merci provenienti da paesi come il Brasile, l'India o la Svizzera sono soggette a dazi molto elevati, rispettivamente del 50% e del 39%, mentre quelle dell'Unione Europea affrontano un'aliquota "più bassa" del 15%, seppur con la minaccia costante di un loro innalzamento. L'affermazione del nazionalismo da parte di una potenza, in questo caso gli Stati Uniti, si traduce paradossalmente in una negazione della sovranità altrui. Agendo in modo arbitrario e unilaterale, gli USA costringono altri paesi, inclusi i loro alleati tradizionali, a subordinare le proprie decisioni economiche e politiche ai voleri di Washington. L'affermazione della sovranità americana, pertanto, non mira alla coesistenza paritaria, ma all'imposizione di un dominio.
A seguire, per illustrare la scala e la natura differenziata di queste misure, si presenta una sintesi delle aliquote tariffarie imposte a vari paesi, come menzionate negli articoli.
Fonte: Rielaborazione dei dati contenuti negli articoli.
La tabella mostra chiaramente che le aliquote non seguono una logica omogenea ma sono espressione di un potere selettivo, un elemento che rafforza ulteriormente la tesi dell'economia politica del capriccio.
II. Impero o Racket? La ridefinizione dell'egemonia americana
Per comprendere appieno la natura di questo nuovo ordine, è illuminante la distinzione proposta tra un impero e un racket. Entrambe le entità fanno pagare una "protezione" alle loro vittime, ma un impero, come la Pax Romana o l'egemonia statunitense post-bellica, giustifica le sue estorsioni attraverso una "cortina fumogena (spesso chiamata ideologia)". L'America aveva il suo soft power, una narrativa di democrazia, libero mercato e difesa dei diritti umani che, sebbene spesso ipocrita, offriva una giustificazione culturale e morale al suo dominio. L'America di Trump, invece, ha abbandonato questa maschera, agendo con la sola forza bruta, con il messaggio non negoziabile del "Dovete pagare perché dovete pagare". Il meccanismo rimane lo stesso di un impero – trasferire risorse "dalle periferie al centro" – ma il "meccanismo oggi non ha una giustificazione politico-culturale".
Questo cambiamento è evidente nell'utilizzo dei dazi come arma puramente politica e non economica. Gli articoli offrono numerosi esempi che illustrano questa dinamica:
Brasile: dazi al 50% imposti per "punire" la presunta "caccia alle streghe" contro l'ex presidente Jair Bolsonaro, alleato di Trump, processato per il tentativo di colpo di Stato. In questo caso, il dazio non ha alcun legame con il deficit commerciale, ma è una rappresaglia diretta per una scelta politica interna di un altro stato sovrano.
India: minacce di dazi del 50% sono state imposte come ritorsione per l'acquisto da parte di Nuova Delhi di petrolio e armamenti dalla Russia. La minaccia ha parzialmente funzionato, con l'India che ha ridotto gli acquisti.
Canada: le minacce di dazi del 25% sono state avanzate con il "pretesto" di non aver bloccato il transito di fentanyl cinese, ma il reale obiettivo era contrastare la proposta di una digital tax sui giganti tecnologici USA.
Questi casi dimostrano che i dazi, in questa nuova forma, sono indistinguibili dalle sanzioni. L'argomentazione è chiara: se un dazio viene imposto non per motivi economici, ma per punire una scelta politica di un altro stato (processare un alleato, commerciare con un rivale), allora non è più una tariffa doganale ma una sanzione. Questa equivalenza cancella la distinzione che l'ottimismo liberale aveva cercato di stabilire tra commercio e guerra, facendo del primo il "primo stadio" di un potenziale conflitto tra stati, sempre suscettibile di escalation. Il commercio è diventato una forma di guerra, e la guerra si esprime in questa fase attraverso il commercio.
Tuttavia, il modello del "racket" funziona solo con chi si fa intimidire, e la Cina si pone come un "boccone troppo grosso". A differenza degli alleati di Washington che sembrano soccombere alla pressione, Pechino ha risposto "colpo su colpo" all'offensiva di Trump. Questo mette in luce i limiti della politica coercitiva unilaterale e suggerisce che l'ordine che sta emergendo non è di un'egemonia indiscussa, ma di un "caos sistemico" e di una rivalità tra blocchi di potere. La politica dei dazi, pertanto, segna non solo la fine dell'ideologia imperiale americana ma anche l'inizio di un'era multipolare e apertamente conflittuale.
III. L'Europa in Bilico: Disunione, illusione di stabilità e la necessità di un "Piano B"
L'Unione Europea emerge dal confronto con l'amministrazione statunitense come l'attore più vulnerabile e disorientato. La sua incapacità di reagire con la dovuta tempestività e decisione è attribuita alla sua natura strutturale: non essendo "uno stato federale, e nemmeno un’entità politica compiuta," essa fatica a "muoversi sul piano di questo scontro". Il progetto europeo, basato sulla cooperazione economica e sull'idea di un'integrazione graduale, si rivela inadeguato di fronte a una geopolitica che ha fatto del commercio un'arma. La reazione di Bruxelles è descritta in modo impietoso: si parla di una "resa incondizionata", con il commissario al commercio Maros Šefčovič che si affretta a dichiarare una "stabilità" immediatamente smentita dalle continue minacce di Trump di alzare le tariffe al 35% o persino al 100%. L'accordo del 15% sui dazi, lungi dall'essere una vittoria, si configura come un'illusione di stabilità in un contesto di incertezza persistente.
La crisi dei dazi non solo mette in evidenza la debolezza esterna dell'UE, ma ne amplifica anche le fratture interne. L'analisi sottolinea la tendenza dei paesi membri a "tornare nei limiti del possibile alla sua dimensione di stato nazionale, badando soprattutto ai propri interessi". Questo è il caso della Germania, che ha inviato un suo ministro per avviare una trattativa diretta su auto e acciaio, o della Svizzera, che cerca accordi separati per abbassare le proprie aliquote. Questa frammentazione mina la coesione e l'autorità dell'Unione, confermando l'impressione che il progetto politico europeo, che ha prosperato sotto "l’ombrello difensivo degli Stati Uniti e al sistema postbellico del commercio globale", sia diventato obsoleto. La crisi dei dazi, in questo senso, non è solo una sfida economica, ma un test esistenziale per la sopravvivenza stessa dell'Unione.
La consapevolezza di questa nuova realtà ha portato autorevoli voci, come quella dell'ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer, a invocare la necessità di un "Piano B". Poiché l'America sotto la guida di Trump è considerata "fondamentalmente inaffidabile," l'Europa non può più fare affidamento sulla garanzia di sicurezza statunitense e deve sviluppare una "propria capacità di difesa autonoma". Questo significa non solo riarmarsi, ma anche trovare un modo per rilanciare l'economia del continente attraverso una "leadership congiunta" dei paesi più importanti. La crisi dei dazi, pertanto, potrebbe paradossalmente agire da catalizzatore, costringendo gli europei a superare le "differenze ideologiche di ieri" e a costruire un'entità politica e militare più coesa e autonoma, un obiettivo che l'integrazione economica del dopoguerra non è riuscita a raggiungere appieno.
IV. Le Contradizioni Economiche del Nazionalismo: Dazi, inflazione e il costo per i consumatori
La retorica che accompagna l'imposizione dei dazi da parte dell'amministrazione statunitense sostiene che i miliardi di dollari incassati provengano da paesi stranieri, arricchendo il governo federale. I dati forniti dagli articoli mostrano che, sebbene le entrate siano effettivamente ingenti (152 miliardi di dollari in un anno), questa è solo una parte della storia. L'analisi economica smaschera questa narrativa, rivelando che i dazi si configurano in realtà come una "tassa sui consumi". Gli importatori americani, infatti, tendono a "scaricare sui consumatori i dazi sui tessili asiatici e sui prodotti alimentari europei," causando un "rincaro dei prezzi" e colpendo "soprattutto i più poveri". Questo meccanismo, che danneggia la classe media e la espone al rischio di un impoverimento, genera un "loop molto poco virtuoso".
Nonostante i dazi vengano presentati come un'arma per rinegoziare i termini commerciali e riequilibrare il deficit, le loro conseguenze interne sono descritte come controproducenti, con il rischio di "esacerbare i problemi economici Usa, invece che risolverli". Gli economisti, tra cui il premio Nobel Paul Krugman, sottolineano il ruolo dell'"incertezza" come un "enorme deterrente per gli investimenti delle imprese". In un contesto dove le condizioni tariffarie possono cambiare da un giorno all'altro, le aziende si trovano paralizzate, indecise tra l'ipotesi che i dazi siano temporanei o che rappresentino la nuova normalità, con il rischio di bloccare gli investimenti in entrambi gli scenari. Questo clima di incertezza contribuisce a un rischio di "stagnazione e inflazione" per l'economia americana.
Un'altra profonda contraddizione emerge dall'uso dei proventi dei dazi. L'amministrazione Trump sostiene che queste entrate servano a "colmare il buco" creato da ampi tagli alle tasse, che hanno un costo di almeno 3.400 miliardi di dollari. Come mostra la tabella sottostante, i 152 miliardi di dollari incassati in un anno, pur essendo una cifra significativa, sono una goccia nel mare rispetto al deficit creato dai tagli fiscali.
Fonte: Rielaborazione dei dati contenuti negli articoli.
L'economista Joao Gomes della Wharton School ha avvertito che questa politica potrebbe generare una "dipendenza" per il governo federale, rendendo i dazi "molto difficile da abbandonare" a fronte di un debito e un deficit elevati. La necessità di finanziare lo stato si sovrappone alla retorica nazionalista, creando un ciclo auto-perpetuante che rende la politica tariffaria una componente fissa del sistema, a prescindere dalle sue conseguenze negative. A questo si aggiunge un conflitto aperto tra l'amministrazione e la Federal Reserve, con Trump che vorrebbe tassi d'interesse più bassi per stimolare la crescita, mentre la Fed li mantiene invariati per contrastare l'inflazione, in parte alimentata dai dazi stessi. Questo scontro dimostra una frattura tra la politica monetaria, che cerca di preservare la stabilità, e una politica fiscale e commerciale guidata dall'arbitrio politico, che arriva a minacciare la soppressione di dati e la rimozione di funzionari (come il capo del Bureau of Labor Statistics) che non supportano la narrativa del potere.
V. Oltre l'Occidente: La nuova grammatica del conflitto globale
L'offensiva sui dazi di Trump è, in ultima analisi, il sintomo più evidente di una trasformazione più profonda che sta interessando l'intero ordine mondiale. Mario Pianta descrive un "rovesciamento completo" del paradigma del "libero commercio" che, con la creazione dell'Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO), doveva assicurare vantaggi a tutti e rimuovere le barriere politiche. Ora, si sta assistendo all'emergere di un "modello politico di 'disordine mondiale' che deve assicurare vantaggi al paese più forte, costringendo l’economia ad adattarsi come può". Si tratta, in sostanza, di un ritorno a una rivalità tra "grandi blocchi economici" basata su una "rivalità a somma zero" e una tendenza all'"autarchia".
Il "declino dell'ordine statunitense", avviato con la crisi finanziaria del 2008 e accelerato da eventi come la Brexit e l'elezione di Trump, segna la fine di un'era in cui gli USA detenevano un'egemonia globale indiscussa. L'ordine basato sulla sicurezza militare e sul libero commercio, che ha permesso all'Europa di prosperare, è svanito. Il nuovo assetto mondiale è caratterizzato dal potere e dalla geopolitica, e gli attori emergenti non si piegheranno alla logica del "racket" che ha intimidito gli alleati di Washington. La Cina, insieme agli altri paesi BRICS, sta consolidando la propria posizione, continuando a far crescere le sue esportazioni verso altri mercati e ponendosi come un contropotere in grado di resistere alla pressione statunitense.
L'analisi di Fischer introduce una dimensione ulteriore a questa nuova realtà: il mondo è sempre più digitale, e "i progressi dell’intelligenza artificiale si riveleranno fattori decisivi per la dimensione economica, e forse anche determinanti per il controllo politico". Questo suggerisce che la guerra commerciale si estenderà alla competizione per il controllo delle tecnologie del futuro. I dazi sui "chips" e le minacce di tariffe punitive per gli investimenti nei settori tecnologici, come menzionato per l'UE, non sono solo questioni economiche, ma rappresentano la frontiera di una nuova guerra per il controllo tecnologico globale. La spesa militare, che sta aumentando significativamente in Europa e che preoccupa la BCE, diventa una componente inseparabile di questa rivalità tra blocchi. I dazi e le sanzioni, in questo contesto, sono le armi di una guerra economica che è destinata a evolvere e a intensificarsi, con una stretta parentela che ne fa il primo stadio di un potenziale conflitto aperto.
Conclusioni: L'alba di un mondo post-liberale e la sfida europea
L'analisi dei testi offerti ci porta a una conclusione ineludibile: l'ottimismo liberale che un tempo aveva promesso di "sostituire i commerci alle guerre" è fallito. Il commercio, lungi dall'essere un fine in sé che conduce alla pace e all'interdipendenza, è tornato a essere un'appendice della geopolitica e del potere statale. L'attuale politica dei dazi, guidata da un esecutivo decisionista e autoritario, non è un'aberrazione, ma il sintomo più visibile di un ordine liberale in declino, sostituito da un sistema imprevedibile e apertamente conflittuale. In questo nuovo scenario, il commercio è stato pervertito in uno strumento di coercizione, le relazioni tra stati sono determinate da "rapporti di forza" e l'obiettivo finale non è il benessere collettivo, ma l'accrescimento del "potere di comando delle élites".
La grande sfida che emerge da questo disordine mondiale è la sopravvivenza dell'Europa come entità politica "riconoscibile". L'Unione, nata per superare le rivalità nazionali e prosperata sotto un'egemonia statunitense, si trova ora vulnerabile e divisa. Il "Piano B" delineato da Joschka Fischer, che invita a una difesa autonoma e a una collaborazione più stretta, rappresenta una possibile via d'uscita. Tuttavia, per realizzarlo, l'Europa dovrà superare la sua attuale frammentazione e la mentalità che ha dominato il progetto politico del dopoguerra.
Il mondo si trova di fronte a un'alba di incertezza, dove la "guerra commerciale" è già una realtà e la sua potenziale escalation a forme di conflitto più gravi non è più un'ipotesi remota ma una preoccupante possibilità. Il nuovo ordine del nazionalismo sembra aver riscoperto una lezione antica: che gli stati possono non solo usare le guerre per il commercio, ma anche servirsi del commercio per "ritornare a uno stato di potenziale conflitto".
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